Appunti sul linguaggio e sulla scrittura, con particolare attenzione al linguaggio del web. Un blog di Mirko Tavosanis.
domenica 31 gennaio 2010
Granieri, Blog generation
Blog generation di Giuseppe Granieri era uscito originariamente nel 2005, ma pochi mesi fa è stato ripresentato con un'aggiunta di dodici pagine di "Postfazione 2009". In effetti, di un aggiornamento si sentiva il bisogno: scritto in un periodo in cui l'interesse per i blog era molto alto, in Italia, il libro dedicava ampio spazio ad aspetti ormai marginali, come l'"economia dei link" (pp. 40-45). Soprattutto, non aveva modo di prevedere che dopo i blog sarebbe venuto il resto del web 2.0. Però la postfazione è molto breve... sarebbe stato meglio scrivere un altro libro!
Detto questo, Blog generation già nell'originale non si abbandonava ad eccessi di entusiasmo, così comuni nella produzione americana, e quindi ha resistito abbastanza bene al passare del tempo. Anzi, in mancanza di sostituti, può servire ancora oggi a dare un'idea rapida di ciò che erano, e in parte ancora sono, i blog: strumenti per pubblicare in modo semplice commenti personali.
Guardando invece al futuro, e in particolare ai blog che si sono trasformati in canali di Twitter o FriendFeed, nella postfazione Granieri dice che "Il ruolo del blog, oggi che è una commodity, è quello - forse - di assecondare maggiormente la propria vocazione di luogo per riflessioni più strutturate, di racconti più meditati, di output per il pensiero 'editorializzato'" (pp. 165-166). Plausibile, d'accordo, ma sarà vero che tutti gli autori di diari on line si sono spostati su Facebook? Bisognerebbe controllare, per saperlo. Cioè, al solito, mettersi lì con pazienza ad aprire blog, classificarli, tirare le somme... In parte lo sto facendo ora io, ma è un po' frustrante vedere che i numeri, su un lavoro di questo genere, finora non li ha tirati fuori nessuno.
(Ancora più frustrante è leggere Gianni Riotta che scrive oggi di Internet sul Sole-24 ore; ma questo è, ahimè, anche in questo caso, lo standard del giornalismo italiano).
martedì 26 gennaio 2010
Ma a che cosa serve l'everyware?
Prima o poi, lo sappiamo, tutti gli oggetti della nostra vita avranno un po' di capacità di calcolo e saranno collegati a reti per scambi dati. In seguito, o in parallelo, tutto questo si estenderà ai nostri corpi; e poi saremo circondati da polvere intelligente, e alla fine arriveremo con buone probabilità al quadro di Accelerando di Charles Stross: la materia della Terra trasformata integralmente in computronium.
Sarà un esito inevitabile? Di sicuro, adesso che (quasi) ogni telefono è anche computer, ci si chiede in che cosa consista il prossimo passo. Sono quasi trent'anni che in molti cercano di spiegarci che il futuro appartiene all'everyware, al computer diffuso... però nessuno capisce bene a che cosa possano servire queste cose. Perfino questo libro di Greenfield (2006), interessante su altri livelli, finisce poi per fare i soliti esempi che, come minimo, lasciano un po' freddi. Tipo gli uffici che, all'arrivo dell'occupante, regolano automaticamente temperatura e luce sulle sue preferenze.
Yawn. Scusate lo sbadiglio.
Certo, Greenfield stesso dice che questi sono luoghi comuni. D'accordo. Ma al di là dei luoghi comuni?
E viceversa, in Everyware non si dice quasi nulla su come il calcolo diffuso potrebbe aiutare i settori lavorativi in cui la manipolazione degli oggetti è un'attività marginale. Per esempio: insegnare all'Università. Che vantaggi potrebbero esserci? Quando entrerò in aula, la luce si regolerà sulle mie preferenze? Emozionante... risparmierei i dieci secondi necessari ad armeggiare con gli interruttori.
Gestire oggetti? OK, qui ci sono vantaggi evidenti. Accelerare i pagamenti? Perché no. Che ogni pacco di biscotti della Coop tra qualche anno si ritrovi con il proprio tag RFID mi va benissimo; mi andrebbe benissimo anche evitare di fermarmi alla cassa e pagare il "pedaggio supermercato" facendo passare il carrello attraverso un grande lettore di tag. Ma studiare? Correggere testi? Capire come si fa a far funzionare un programma? Sulle attività di questo tipo Greenfield non dice nulla.
Oh, beh. Forse a dare un senso all'everyware anche in questi settori basterà qualche applicazione interessante (in fin dei conti, io sono abbastanza vecchio da ricordare i tempi in cui si diceva: "Un giorno tutte le case avranno un computer e lo useranno per fare tante cose esaltanti... per esempio, tenere in ordine le ricette..."). Nell'attesa, vediamo se domani pomeriggio Steve Jobs riuscirà a stupirci con un tablet o uno strumento per leggere in modo diverso dal solito.
Aggiornamento: sul New York Times compare giusto oggi, 31 gennaio 2010, un servizio sulla "polvere intelligente"; l'articolo include diversi esempi interessanti e plausibili di quel che potrebbero fare i sensori di piccole dimensioni.
domenica 24 gennaio 2010
Toccaschermi per gli avatar
Il vantaggio di sapere già tutto su un film, prima ancora di andare a vederlo, è che è difficile rimanere delusi. Soprattutto in un caso come Avatar, che ha una trama tanto prevedibile che il pubblico ha proposto un bel po' di idee alternative a costo zero.
Detto questo, poi uno va a vederlo (come ho fatto io ieri sera al cinema Nuovo) e il film va giù bene, senza sembrare troppo il temuto Balla coi Puffi. Il 3D si inquadra bene, il racconto scorre liscio anche senza intervalli, eccetera. Non sarà certo un film epocale, ma è uno dei tanti prodotti solidi di James Cameron.
A livello professionale, soprattutto, è interessante vedere la tecnologia del 2154 esibita nel film. Totalmente irrealistica in alcuni casi - a cominciare, è ovvio, dal presupposto del viaggio interstellare compiuto da quelle che Charles Stross chiama canned monkeys. Un po' più interessante quando si entra in ufficio. Lì evidentemente è stato fatto un bel po' di lavoro, e si vede qualcosa di carino. Roba che mi aspetto di avere sulla scrivania, senza aspettare il 2154, ben prima di andare in pensione; ammesso che sia utile...
La cosa più vistosa sono gli schermi trasparenti per computer. Carini, e qualcosa c'è già in giro adesso. Ma mi chiedo quanto sia pratico usarli, soprattutto in un ufficio animato, in cui sullo sfondo c'è gente che si muove - o magari altri schermi!
Oltre che trasparenti, gli schermi sono però anche sensibili al tocco, come si vede in diverse scene, e sono tanto ben raccordati che si può staccare senza problemi un componente per portarselo a spasso. Bene la seconda cosa, un po' meno la prima: alzare la mano e toccare un punto dello schermo è senz'altro un buon modo, in un film, per mostrare che un personaggio sta facendo qualcosa... ma sicuramente dopo pochi minuti le braccia dell'operatore inizieranno a lamentarsi. Beh, forse non su Pandora, pianeta con gravità ridotta, ma di sicuro sulla Terra il problema salterà fuori.
Molto belli anche i display tattici olografici, come quello che si vede nella foto qui sopra (proveniente dall'Official Photostream su Flickr, messo a disposizione, appunto, anche per "recensioni e commenti" sul film). Non sembra però che i creatori dei display abbiano investito molto sui comandi per regolarli, al punto che a un certo punto l'amministratore cattivo (Giovanni Ribichini) li passa con stizza a un subordinato; eppure il grosso dei controlli sembrava formato da una semplice manopola, come quelle che si usano per regolare l'avanzamento dei microfilm.
A me, però, interessante in particolare notare che cosa non si vede. I sistemi di immissione dati, per esempio, a parte i touchscreen già citati: non si vedono tastiere, anche se almeno in un'occasione un personaggio sembra scrivere qualcosa su una tastiera nascosta, né penne ottiche, né mouse. A brillare più luminosi per la propria assenza dal film sono però gli esempi di "realtà virtuale". Tanto di moda pochi anni fa, tanto spregiati adesso... Cosa un filino paradossale in un film in 3D.
Soprattutto, però, non è male scoprire che cosa è andata a fare Sigourney Weaver da grande: la ricercatrice-antropologa-linguista! Non sono brutte notizie, per chi si è visto Alien ai tempi in cui uscì al cinema.
venerdì 22 gennaio 2010
Evangelisti e Altieri
Sono usciti da poco gli Atti del convegno di Aix-en-Provence (6-8 marzo 2008) sul poliziesco in Europa, sezione Italia: Il romanzo poliziesco. La storia, la memoria. Vol. 1, cura di Claudio Milanesi (Bologna, Astraea, 2009). All'interno (pp. 485-491) c'è anche un mio breve articolo che, per una volta, non ha praticamente nulla a che fare con la lingua o il linguaggio: Indagini nell'Apocalisse. Valerio Evangelisti e Alan D. Altieri. I testi non sono pubblicati in rete, ma l'articolo, qualche tempo fa, è stato anticipato parzialmente su Carmilla On Line.
lunedì 18 gennaio 2010
Ultravox, The Voice
Non mi sembra di aver mai sentito The Voice degli Ultravox al momento dell'uscita (1981). Vero è che di musica del genere, al tempo, ne ascoltavo poca...
Adesso ci sono incappato per caso e mi sarò riascoltato tutto il pezzo una quarantina di volte. Eccolo qui su YouTube, nella versione che accompagna un video del tutto folle - e molto migliore rispetto al pretenzioso video dell'official version. L'ambientazione inglese anni Quaranta si fa perdonare anche il taglio brusco sul finale:
A ripensarci: le canzoni che parlano di parole non sono poi tante. O forse è un'impressione?
Adesso ci sono incappato per caso e mi sarò riascoltato tutto il pezzo una quarantina di volte. Eccolo qui su YouTube, nella versione che accompagna un video del tutto folle - e molto migliore rispetto al pretenzioso video dell'official version. L'ambientazione inglese anni Quaranta si fa perdonare anche il taglio brusco sul finale:
A ripensarci: le canzoni che parlano di parole non sono poi tante. O forse è un'impressione?
venerdì 15 gennaio 2010
Storia della punteggiatura in Europa
La punteggiatura non è nata con l'alfabeto. Si è evoluta, un po' alla volta: per secoli, nella scrittura latina si è fatto addirittura a meno della separazione delle parole. E le convenzioni attuali sono una mescolanza di regole rigide e suggerimenti decisamente meno precisi. Sono anche, probabilmente, tutt'altro che un punto di arrivo.
L'evoluzione futura non siamo in grado di prevederla. Però la corposa Storia della punteggiatura in Europa, pubblicata da Laterza nel 2008, a cura di Bice Mortara Garavelli, è un'affascinante (per gli addetti ai lavori, almeno...) carrellata nel passato. In totale sono 650 pagine, composte da saggi di noti specialisti. La parte del leone la fa la punteggiatura in Italia, con quasi 150 pagine suddivise in questo modo:
1. Teorie e pratiche interpuntive nei volgari d'Italia dalle origini alla metà del Quattrocento (Rosario Coluccia)
2. Dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento (Brian Richardson)
3. Il secondo Cinquecento (Nicoletta Maraschio)
4. Il Seicento (Claudio Marazzini)
5. Il Settecento (Simone Fornara)
6. Dall'Ottocento a oggi (Giuseppe Antonelli)
Però il ruolo assegnato all'Italia non è particolarmente sbilanciato: non solo ampie sezioni sono dedicate alle principali lingue europee ma sono inclusi, per esempio, l'albanese e le lingue ugrofinniche. La combinazione di copertura geografica e copertura storica è quindi eccezionalmente ampia.
Dovessi fare una critica, dal mio punto di vista, direi che proprio questa ampiezza rende un po' ridotte le parti di maggior interesse - per esempio, quelle sull'età contemporanea, per l'italiano e non solo. Nel lavoro di Antonelli, per esempio, sono citati sia il fumetto (per il Novecento) sia la scrittura elettronica (per gli ultimi anni), ma sono accenni piuttosto brevi. È vero che su alcuni aspetti si possono citare i lavori della stessa Mortara Garavelli, però in alcune aree la sintesi potrebbe essere molto utile - se non altro per mettere in evidenza la mancanza di bibliografia su argomenti interessanti, a cominciare dal fumetto.
Collegato a questo c'è il problema dei presupposti teorici. Brevissime sono infatti le note introduttive (Punteggiatura e linguaggio), anche se affidate a due specialisti come Anna Laura e Giulio Lepschy. Anche qui, gli spunti possibili sono infiniti. Avendo tempo, sarebbe bello occuparsene! Tenendo presente che il saggio di Mario Geymonat su Grafia e interpunzione nell'antichità greca e latina, nella cultura bizantina e nella latinità medievale mostra che su alcuni argomenti si può provare a scrivere una sintesi complessiva che non rinunci all'approfondimento di casi particolari.
giovedì 7 gennaio 2010
Pietrini, Parola di papero
Per strano che possa sembrare, il linguaggio dei fumetti italiani non era mai stato oggetto di uno studio approfondito. Colma ora questa lacuna Daniela Pietrini con Parola di papero, un consistente (401 pagine di testo) studio su "Storia e tecniche della lingua dei fumetti Disney", pubblicato a fine 2009 da Cesati.
Come titolo e sottotitolo fanno capire, il lavoro è dedicato a un'unica sezione del mondo del fumetto: i fumetti Disney pubblicati in Italia - e scritti da autori italiani. Non è poca cosa, perché questo tipo di prodotto è arrivato nei decenni a coprire ampie fette del mercato totale (sarà arrivato al 50%, in alcuni momenti?). Oggi le cifre assolute sono calate, ma i Disney italiani se la giocano alla pari con i Bonelli per quanto riguarda la diffusione... mentre i materiali tradotti sono in percentuale decisamente minoritaria. Inoltre, in diversi momenti dal dopoguerra a oggi riviste come Topolino hanno raggiunto percentuali incredibili di diffusione tra i bambini, cioè in fasce d'età in cui l'apprendimento della lingua è ancora in corso e i modelli sono particolarmente importanti.
Dall'abbondante materiale di partenza Daniela Pietrini ha selezionato 90 storie pubblicate su Topolino (15 storie per decennio, dagli anni Cinquanta agli anni Zero) e ne ha fatto un esame a diversi livelli. Per esempio, prendendo un argomento che è stato affrontato anche in un elaborato di laurea triennale che ho seguito io, nel capitolo "Libertà, molteplicità e fantasia" si parla di ideofoni, interiezioni, serie ideofoniche o miste, turpiloquio attenuato... e dell'evoluzione nel tempo dell'uso di questo tipo di parole. In un altro capitolo si parla dei neologismi disneyani, con un repertorio imponente di esempi; e così via.
Particolarmente importante, per il confronto con la scrittura elettronica, la sezione in cui si parla di punteggiatura (e il rapporto con, per esempio, gli SMS viene esplicitato a p. 59). Da un mezzo di comunicazione all'altro, ci scordiamo spesso di quanto alcune scelte siano recenti e/o arbitrarie: le polemiche contro la punteggiatura dei testi elettronici ricordano quelle contro la punteggiatura espressiva del fumetto, o quelle contro gli abusi sette-ottocenteschi del trattino, eccetera... Molto più produttivo sarebbe studiare i brevi momenti di libertà in cui, in un nuovo genere di comunicazione, si sperimenta di tutto, e poi si rende convenzionale questa scelta - un modo di agire che mi sembra molto comune e che mi ricorda un sacco i periodi di differenziazione nell'evoluzione biologica su cui insisteva tanto Stephen Jay Gould.
Massimi sistemi a parte, è interessante scorrere i tantissimi spunti lanciati da questo libro, per esempio nelle note sull'uso del punto esclamativo del fumetto: "è soltanto nel fumetto che si realizza, attraverso il dilagare degli esclamativi, la possibilità di sottolineare l'intensità di ogni enunciato eliminando l'enunciazione neutra" (p. 59). Sarà davvero possibile eliminare da un genere testuale come questo le enunciazioni neutre? A me sembra piuttosto che il punto esclamativo svolga nel fumetto un ruolo del tutto neutro, e che sia preferito al punto fermo per semplici motivi di leggibilità: in testi senza alternanza tra maiuscole e minuscole, secondo lo standard del lettering del fumetto italiano, il punto classico è semplicemente poco visibile e il punto esclamativo è un comodo sostituto. Ma nessuno ha mai studiato il modo in cui l'esclamativo si è diffuso nel fumetto... riducendo il punto fermo allo 0,2 % di presenze citato qui (pp. 58-59). Eccetera.
Insomma: il libro è un fondamentale primo passo per incominciare a studiare davvero un genere di lingua diffusissimo ma trascurato dai linguisti. Adesso viene (più) voglia di vedere che altro si trova, scavando appena più a fondo...
Come titolo e sottotitolo fanno capire, il lavoro è dedicato a un'unica sezione del mondo del fumetto: i fumetti Disney pubblicati in Italia - e scritti da autori italiani. Non è poca cosa, perché questo tipo di prodotto è arrivato nei decenni a coprire ampie fette del mercato totale (sarà arrivato al 50%, in alcuni momenti?). Oggi le cifre assolute sono calate, ma i Disney italiani se la giocano alla pari con i Bonelli per quanto riguarda la diffusione... mentre i materiali tradotti sono in percentuale decisamente minoritaria. Inoltre, in diversi momenti dal dopoguerra a oggi riviste come Topolino hanno raggiunto percentuali incredibili di diffusione tra i bambini, cioè in fasce d'età in cui l'apprendimento della lingua è ancora in corso e i modelli sono particolarmente importanti.
Dall'abbondante materiale di partenza Daniela Pietrini ha selezionato 90 storie pubblicate su Topolino (15 storie per decennio, dagli anni Cinquanta agli anni Zero) e ne ha fatto un esame a diversi livelli. Per esempio, prendendo un argomento che è stato affrontato anche in un elaborato di laurea triennale che ho seguito io, nel capitolo "Libertà, molteplicità e fantasia" si parla di ideofoni, interiezioni, serie ideofoniche o miste, turpiloquio attenuato... e dell'evoluzione nel tempo dell'uso di questo tipo di parole. In un altro capitolo si parla dei neologismi disneyani, con un repertorio imponente di esempi; e così via.
Particolarmente importante, per il confronto con la scrittura elettronica, la sezione in cui si parla di punteggiatura (e il rapporto con, per esempio, gli SMS viene esplicitato a p. 59). Da un mezzo di comunicazione all'altro, ci scordiamo spesso di quanto alcune scelte siano recenti e/o arbitrarie: le polemiche contro la punteggiatura dei testi elettronici ricordano quelle contro la punteggiatura espressiva del fumetto, o quelle contro gli abusi sette-ottocenteschi del trattino, eccetera... Molto più produttivo sarebbe studiare i brevi momenti di libertà in cui, in un nuovo genere di comunicazione, si sperimenta di tutto, e poi si rende convenzionale questa scelta - un modo di agire che mi sembra molto comune e che mi ricorda un sacco i periodi di differenziazione nell'evoluzione biologica su cui insisteva tanto Stephen Jay Gould.
Massimi sistemi a parte, è interessante scorrere i tantissimi spunti lanciati da questo libro, per esempio nelle note sull'uso del punto esclamativo del fumetto: "è soltanto nel fumetto che si realizza, attraverso il dilagare degli esclamativi, la possibilità di sottolineare l'intensità di ogni enunciato eliminando l'enunciazione neutra" (p. 59). Sarà davvero possibile eliminare da un genere testuale come questo le enunciazioni neutre? A me sembra piuttosto che il punto esclamativo svolga nel fumetto un ruolo del tutto neutro, e che sia preferito al punto fermo per semplici motivi di leggibilità: in testi senza alternanza tra maiuscole e minuscole, secondo lo standard del lettering del fumetto italiano, il punto classico è semplicemente poco visibile e il punto esclamativo è un comodo sostituto. Ma nessuno ha mai studiato il modo in cui l'esclamativo si è diffuso nel fumetto... riducendo il punto fermo allo 0,2 % di presenze citato qui (pp. 58-59). Eccetera.
Insomma: il libro è un fondamentale primo passo per incominciare a studiare davvero un genere di lingua diffusissimo ma trascurato dai linguisti. Adesso viene (più) voglia di vedere che altro si trova, scavando appena più a fondo...