Con la scrittura si possono fare cose incredibili. Tra queste, la possibilità di discutere su questioni complesse non è una delle meno interessanti: riassumere argomenti forniti da un interlocutore, rinviando al testo di partenza, discuterli e criticarli... è una cosa meravigliosa, e quasi impossibile senza un supporto scritto.
Tuttavia anche questo meraviglioso meccanismo ogni tanto si inceppa. Prendo per esempio il caso di alcune valutazioni sull'economia italiana, presentate dalla Fondazione Edison e richiamate dal Presidente del Consiglio durante l'incontro della Confindustria a Parma, qualche giorno fa. A queste valutazioni hanno risposto in modo molto critico Tito Boeri e Carlo Scarpa con l'intervento Giocolieri con le cifre (pubblicato su lavoce.info). Il punto chiave dell'argomentazione di Boeri e Scarpa è: per giudicare le prestazioni economiche di un paese, i dati sulle esportazioni manifatturiere sono "i) parziali, ii) potenzialmente fuorvianti e iii) poco rilevanti, se non del tutto irrilevanti". Non sono un economista, ma la cosa mi sembra del tutto ragionevole: gli Stati Uniti hanno l'economia più grande in assoluto, ma esportano relativamente poco. Eccetera.
A questo intervento ha risposto Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, con l'articolo Fiammiferi, spesa pubblica e i numeri Made in Italy, pubblicato oggi sul Sole-24 ore. Non essendo appunto un addetto ai lavori, non entro nel merito. La cosa interessante, dal mio punto di vista, è però che la replica di Fortis, pur essendo replica a un testo scritto, è completamente sbagliata dal punto di vista del rapporto con la fonte: attribuisce a Boeri e Scarpa opinioni che, visibilmente, non sono presenti nel testo di partenza, riporta parole assenti dal contesto come se fossero citazioni letterali di quanto i due autori dichiarano, e così via.
Secondo Fortis, insomma , Boeri e Scarpa sostengono "sostanzialmente" che:
1) non è vero che l'export italiano negli anni immediatamente precedenti l'attuale crisi sia cresciuto più di quello degli altri maggiori paesi avanzati; 2) i dati di export espressi in dollari da noi utilizzati enfatizzerebbero artificialmente la crescita italiana per cui sarebbe meglio usare valori in euro; 3) gli oltre mille primi, secondi e terzi posti nell'export mondiale detenuti dall'Italia (su un totale di circa 5.500 prodotti) evidenziati da una nostra ricerca presentata anche su questo giornale (21 gennaio 2010) in realtà non conterebbero "nulla" perché trattasi di nicchie (che i due autori citati hanno equiparato in modo sprezzante a "fiammiferi"); 4) esportare beni, comunque, vuol dire poco, perché oggi a livello internazionale l'export di servizi cresce di più; 5) l'export di per sé ha scarso significato se non si considerano anche le importazioni e quindi sarebbe più opportuno guardare alla dinamica della bilancia commerciale complessiva (export meno import).
Andiamo con ordine, e senza entrare nel merito delle questioni, vediamo se nel testo di partenza vengono effettivamente dette queste cose.
Punto 1: non riesco a trovarne traccia nel testo di Boeri e Scarpa. Lì si cita un unico caso: quello del "primato italiano nella crescita delle nostre esportazioni nel periodo 2005-8" rispetto a Francia e Germania. Boeri e Scarpa fanno notare che alcune statistiche assegnano questo "primato" all'Italia, altre alla Germania. Non fanno invece considerazioni generali sugli "altri paesi avanzati".
Punto 2: vero, questo c'è.
Punto 3: nonostante la parola "nulla" sia addirittura virgolettata, nel testo di Boeri e Scarpa semplicemente non compare; o meglio, compare una volta sola, in un contesto completamente diverso ("nulla di cui gioire") rispetto a quello cui qui si fa riferimento. La sintesi di Fortis inoltre non corrisponde neanche alla sostanza di ciò che viene detto, perché Boeri e Scarpa sul peso delle "nicchie" dicono una cosa completamente diversa: "Sarà anche vero, e questi prodotti saranno anche tanti, ma quanto pesano? L’Italia è da decenni leader in tante nicchie di mercato. Nicchie, appunto; ma purtroppo una cosa sarebbe essere leader nella produzione di fiammiferi, un’altra è esserlo nella produzione di auto." Quindi non dicono affatto che i settori in cui l'Italia è leader non pesano "nulla" e che sono "fiammiferi": dicono una cosa diversa, e cioè che esser leader in un settore o nell'altro è un'informazione importante ma fino a un certo punto, visto che un conto è essere leader in un settore che vale 100, un altro esserlo in un settore che vale 1
Punto 4: Boeri e Scarpa direbbero che "esportare beni, comunque, vuol dire poco, perché oggi a livello internazionale l'export di servizi cresce di più"; in realtà dicono una cosa molto diversa: che "ormai la parte preponderante dell’economia è costituita dai servizi e il commercio mondiale in questo settore cresce quanto se non di più che nel manifatturiero", e che quindi nella presentazione di un quadro complessivo è "discutibile" la scelta di concentrarsi "sulle sole industrie manifatturiere". Non dicono da nessuna parte, invece, che l'esportazione di beni "vuol dire poco".
Punto 5: vero, questo c'è.
Insomma, 3 punti su 5 si riferiscono in realtà a informazioni che nella fonte non si ritrovano. Se qualcuno degli studenti del mio Laboratorio di italiano scritto realizzasse una prova finale con un problema di questo tipo, non arriverebbe (ovviamente) al 18. Certo, i giornali spesso non possono lavorare in condizioni ideali, ma (ingenuamente) mi chiedo come mai un redattore non abbia notato una discrepanza così palese tra il testo base e la "risposta". In fin dei conti, non si tratta di un punto incidentale in un articolo che parla dell'allevamento dei salmoni in Nicaragua: il confronto con il testo di Boeri e Scarpa è la ragione stessa dell'intervento di Fortis.
Nel merito del discorso, non essendo un economista non mi azzardo a entrare. Dico solo che anche da questo punto di vista, sulla base di una conoscenza da "cultura generale", le critiche di Boeri e Scarpa mi sembrano molto convincenti. Certo, può anche darsi che questo avvenga solo perché, in fin dei conti, io lavoro nel settore dei "servizi"...
Appunti sul linguaggio e sulla scrittura, con particolare attenzione al linguaggio del web. Un blog di Mirko Tavosanis.
domenica 25 aprile 2010
domenica 18 aprile 2010
Google Books: i disastri
Il caos lavorativo delle ultime settimane non aiuta la riflessione, ma ogni tanto consente a qualche idea di tornare fuori, a intervalli (distanti). Una di queste domande, non più oziosa delle altre, era: perché non uso spesso Google Books?
In fin dei conti, io sono un gran consumatore proprio del genere di materiali digitalizzati da Google Books. Testi non più coperti da diritto d'autore, vecchie riviste, classici della saggistica... Però apro Google Books con grande riluttanza. Una tesi recente, per cui ho fatto da correlatore, mi ha aiutato a chiarire i motivi di questa istintiva diffidenza: non uso Google Books perché i metadati sono un disastro. Che libro sto vedendo? In quale edizione?
Il collega Geoffrey Nunberg ha pubblicato l'anno scorso un ottimo articolo su questo punto: Google's Book Search: a disaster for scholars. Gli esempi sono divertentissimi; la frustrazione del lettore... meno. Del tutto condivisibile la speigazione di Nunberg:
It's clear that Google designed the system without giving much thought to the need for reliable metadata. In fact, Google's great achievement as a Web search engine was to demonstrate how easy it could be to locate useful information without attending to metadata or resorting to Yahoo-like schemes of classification. But books aren't simply vehicles for communicating information, and managing a vast library collection requires different skills, approaches, and data than those that enabled Google to dominate Web searching.
Insomma, una diversa cultura aziendale, che mostra tutti i propri limiti quando associata a un settore da cui tutti gli addetti ai lavori si aspettano standard di qualità indicibilmente diversi. In fin dei conti, da secoli le biblioteche fanno - spesso molto bene - proprio il lavoro su cui Google ha clamorosamente fallito: descrivere con precisione dati abbastanza oggettivi e dichiarati.
Diverse delle definizioni di Nunberg sono sia appropriate che divertenti: "the book search's metadata are a train wreck: a mishmash wrapped in a muddle wrapped in a mess"; o, per quanto riguarda il sistema di classificazione (commerciale!) adottato, il fatto che "In short, Google has taken a group of the world's great research collections and returned them in the form of a suburban-mall bookstore".
Bon, parlare dei disastri è divertente (per esempio, se si va a vedere quanti libri su Internet, secondo Google, sono stati pubblicati prima del 1950...). Bisogna però vedere anche il rovescio della medaglia, e cioè quanto, ciononostante, Google Books riesca lo stesso a essere utile. Materiale per un prossimo post...
In fin dei conti, io sono un gran consumatore proprio del genere di materiali digitalizzati da Google Books. Testi non più coperti da diritto d'autore, vecchie riviste, classici della saggistica... Però apro Google Books con grande riluttanza. Una tesi recente, per cui ho fatto da correlatore, mi ha aiutato a chiarire i motivi di questa istintiva diffidenza: non uso Google Books perché i metadati sono un disastro. Che libro sto vedendo? In quale edizione?
Il collega Geoffrey Nunberg ha pubblicato l'anno scorso un ottimo articolo su questo punto: Google's Book Search: a disaster for scholars. Gli esempi sono divertentissimi; la frustrazione del lettore... meno. Del tutto condivisibile la speigazione di Nunberg:
It's clear that Google designed the system without giving much thought to the need for reliable metadata. In fact, Google's great achievement as a Web search engine was to demonstrate how easy it could be to locate useful information without attending to metadata or resorting to Yahoo-like schemes of classification. But books aren't simply vehicles for communicating information, and managing a vast library collection requires different skills, approaches, and data than those that enabled Google to dominate Web searching.
Insomma, una diversa cultura aziendale, che mostra tutti i propri limiti quando associata a un settore da cui tutti gli addetti ai lavori si aspettano standard di qualità indicibilmente diversi. In fin dei conti, da secoli le biblioteche fanno - spesso molto bene - proprio il lavoro su cui Google ha clamorosamente fallito: descrivere con precisione dati abbastanza oggettivi e dichiarati.
Diverse delle definizioni di Nunberg sono sia appropriate che divertenti: "the book search's metadata are a train wreck: a mishmash wrapped in a muddle wrapped in a mess"; o, per quanto riguarda il sistema di classificazione (commerciale!) adottato, il fatto che "In short, Google has taken a group of the world's great research collections and returned them in the form of a suburban-mall bookstore".
Bon, parlare dei disastri è divertente (per esempio, se si va a vedere quanti libri su Internet, secondo Google, sono stati pubblicati prima del 1950...). Bisogna però vedere anche il rovescio della medaglia, e cioè quanto, ciononostante, Google Books riesca lo stesso a essere utile. Materiale per un prossimo post...
domenica 11 aprile 2010
Eisner, L'arte del fumetto
Rizzoli ha appena pubblicato L'arte del fumetto di Will Eisner, curato e tradotto da Fabio Gadducci e da me. È la versione italiana dei primi due libri di "saggistica pratica" di Eisner, cioè di uno dei grandi nomi del fumetto del Novecento (e oltre).
Aggiornamento: su Alias del 24 aprile compare una recensione al libro.
giovedì 1 aprile 2010
Illich, Nella vigna del testo
Il passaggio dall'oralità alla scrittura ha attirato l'attenzione di un buon numero di appartenenti al clero o agli ordini religiosi cattolici. Un buon posto in questa classifica spetta a monsignor Ivan Illich (1926-2002) che, anche se in questo settore un po' sfigura davanti a gesuiti come Marshall McLuhan 0 Walter Ong, in passato ha goduto di un discreto seguito.
Illich si è dedicato con passione a molte cause, tra cui la lotta contro la scuola e la medicina tradizionali. Nel settore degli studi sulla scrittura però il suo contributo maggiore è stato Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura. Io l'ho appena letto nella traduzione italiana di Alessandro Serra e Donato Barbone pubblicata nel 1994 da Raffaello Cortina a Milano. Il testo originale è del 1993, e presentava un sottotitolo meno ambizioso: In the vineyard of the text. A commentary to Hugh's Didascalicon.
L'Ugo cui faceva riferimento Illich non è un personaggio troppo noto: è Ugo di San Vittore, un teologo francese che verso il 1128 scrisse, in mezzo a molte altre opere, un trattato su quel che si deve studiare: il Didascalicon. Opera impegnativa, ma certo non epocale. Io l'ho sfogliata nell'edizione critica curata da Thilo Offergeld e non ne sono rimasto troppo impressionato. Illich la presenta però come una preziosa testimonianza del momento in cui si passa "Dalla parola registrata alla registrazione del pensiero" (titolo del sesto capitolo della Vigna). Il momento in cui, cioè, il testo scritto smette di essere uno "spartito" per una lettura ad alta voce e diventa invece uno strumento efficace per la lettura silenziosa. Entro la metà del Cento gli antichi elementi di produzione del libro
vennero integrati in un insieme di nuove tecniche, convenzioni e materiali. Alcune di queste innovazioni consistettero nella riscoperta di abilità già note agli antichi: per esempio la scrittura corsiva. Altre tecniche erano d'importazione: quella per fabbricare un nuova materia plastica, la carta, venne dalla Cina passando per Toledo. Altre ancora, più sottili, furono inventate negli scriptoria occidentali: la disposizione in ordine alfabetico di parole-chiave, l'indice per argomenti e un tipo di impaginazione adatto all'esplorazione silenziosa (pp. 95-96).
Tutto bene, eccettuato il fatto che il Didascalicon (come molte opere più interessanti) rimane al di là di questo spartiacque. Il suo è ancora "un trattato sull'arte di leggere a uso di persone che ascoltavano il suono delle righe" (p. 97). Illich impiega quindi le prime cento pagine del testo (su centotrenta, note escluse) a mostrare come il modo di leggere di Ugo fosse in continuità con pratiche dell'alto medioevo - in alcuni casi, reinventando tecniche antiche, a cominciare dall'abbandonata mnemotecnica (cap. 2, ripercorrendo argomenti che Mary Carruthers affronta in modo più approfondito nel suo The book of memory, di cui spero di parlare a parte). Le generazioni successive a Ugo saranno viceversa già abituate a una lettura di tipo "scolastico": la nostra, cioè quella per cui un testo si percorre con l'occhio alla ricerca di parole chiave, punti interessanti, e così via. In parallelo, "Si calcola che nei cento anni successivi alla morte di Ugo il numero dei rendiconti scritti e degli atti legali sia aumentato in Inghilterra da cinquanta a cento volte" (p. 99, con rinvio al ben noto studio di Clanchy). In sostanza, nella nuova civiltà della carta i documenti si usano in modo nuovo e diventano molto più diffusi.
Nella ricostruzione di Illich, quindi, il libro moderno viene creato "in quanto oggetto" intorno al 1150, mentre la nascita della stampa, tre secoli più tardi, si limita a reificare "tale oggetto sotto forma di stampato... Un insieme modestissimo di tecniche scribali, applicate in maniera molto sofisticata, determinò nella mentalità della cultura europea un tipo di cambiamento che è altra cosa rispetto al passaggio dalla scrittura alla stampa", e per certi versi ancora più importante (p. 119). All'inizio del capitolo settimo Illich dichiara quindi che:
È questo un punto di vista che non è stato ancora sostenuto; non c'è un libro né un articolo di qualche ampiezza che tratti ex professo l'ipotesi che sia stata una rivoluzione scribale a creare l'oggetto che, tre secoli dopo, sarebbe stato consegnato alla stampa. Questo mio saggio intende rimediare alla lacuna (p. 120).
Sarà vero? Di sicuro la documentazione fornita da Illich è ridotta, e basata (ovviamente) su studi specialistici, poco attenti al quadro d'assieme. Però ho il sospetto che il discorso sia corretto nelle linee generali. Con un'importante variante: rispetto alle complesse strutture dei manoscritti da studio del Due e Trecento, il testo a stampa semplifica. Con la tecnica tipografica diventa molto difficile fare costruzioni arzigogolate, usare colori diversi, variare corpo e carattere, e così via. Insomma, dal punto di vista dell'occhio, la stampa rappresenta un passo indietro... e questo aspetto, direi, nessuno finora l'ha adeguatamente messo in luce.