Ecco un libro che mi ha ritirato su: Contro il colonialismo digitale di Roberto Casati (Roma-Bari, Laterza, 2013; pp. VI + 130, ISBN 978-88-581-0731-7, € 15; io l’ho ricevuto per recensione, e credo che sia appena arrivato in libreria). Nel senso che mostra come di scrittura elettronica si possa parlare in modo intelligente anche senza essere specialisti di usabilità e informatica – ma semplicemente, direi, in quanto osservatori di buon senso.
Il libro non è una trattazione sistematica dell’argomento. Anzi, non è facilissimo dire quale sia l’argomento. Il volume si presenta infatti, oltre che con il titolo, con il sottotitolo Istruzioni per continuare a leggere, ma in realtà molto spazio è dedicato a temi che con tutto questo hanno relativamente poco a che fare, ed è composto in buona parte da brevi interventi apparse in varie sedi (ma principalmente sul Domenicale del Sole-24 Ore). I materiali sono presentati “con molta riscrittura”, ma l’eterogeneità rimane… poco male, però, dalla mia prospettiva, visto che dietro alla varietà di superficie c’è una notevole coerenza di fondo: l’esame della retorica digitale e di ciò che si guadagna o si perde nelle attività conoscitive con l’avvento del computer.
Come punto di partenza, Casati correttamente inserisce il “libro” in un’ecologia di strumenti per la comunicazione e l’informazione. Passa poi a vedere la distinzione tra “libro” e “libro”, cioè, per esempio, tra romanzi e opere di consultazione: Wikipedia viene presentata, per esempio, quale “prova provata di come il libro-enciclopedia non avesse molto senso e aspettasse ansiosamente di emigrare dallo scaffale allo schermo interattivo” (p. 24). Viceversa, il “saggio” tradizionale ha bisogno di una lettura senza distrazioni, e ciò rende il libro tradizionale un “formato cognitivo perfetto” (p. 27) per testi simili, mentre computer e iPad, che offrono infinite alternative alla lettura, semplicemente non vanno bene (il Kindle, invece, almeno per me funziona benissimo). In altri termini,
Il libro di carta presenta una serie di vantaggi cognitivi proprio là dove gli si vogliono imputare dei limiti tecnologici che l’ebook supererebbe: la linearità che permette di semplificare la comprensione, l’offrire argomenti nello spazio di una pagina stabile e non scorrevole che permette di tenere sott’occhio molti pensieri alla volta, l’isolamento relativo rispetto ad altri artefatti cognitivi che potrebbero entrare in concorrenza con la lettura, lo stesso peso fisico del libro come fonte di informazioni (p. 42).
Il discorso è noto, grazie agli studi di usabilità, ma è un piacere sentirlo riprendere con eloquenza e da un’angolazione un po’ insolita. La descrizione di computer e iPad come “macchine per distrazioni” (secondo la formulazione di Cory Doctorow) porta poi direttamente alla critica di tutti i movimenti per importare – anzi, per imporre – queste macchine a scuola e, più in generale, alla stroncatura decisa di tutte le tesi sui “nativi digitali”. Casati prende di mira in particolare la farsesca definizione di “intelligenza digitale” di cui ho già parlato qualche settimana fa, fornita da Paolo Ferri sulla scia di Antonio Battro:
Datemi un pizzicotto, per favore. Se questa è l’intelligenza di cui stiamo parlando, è il momento di rivedere al ribasso tutte le nostre ambizioni educative. Se invece questo è un semplice “saper fare” tra i mille su cui basare i percorsi di apprendimento, stiamo facendo molto rumore per nulla. Se, infatti, si trova qui qualcosa di cognitivamente definito, non c’è niente di più che la capacità di prendere decisioni contestuali con l’aiuto della memoria e del linguaggio: come detto prima, niente di specifico, è una capacità generale, più o meno declinabile all’ambiente dello schermo tattile o della tastiera (p. 63).
Dopodiché, rimane il fatto che la tecnologia non sembra aiutare molto l’apprendimento, così come il “multitasking” efficiente delle nuove generazioni è in sostanza un mito, e la distrazione una pratica che dovrebbe essere bandita dalle aule (p. 72). In compenso, Casati dedica molte pagine alla trattazione di alternative didattiche sensate. Notando insomma che, più che fornire “libri di testo digitali”, una didattica funzionante dovrebbe spingere gli studenti a scrivere, per esempio, voci di Wikipedia (come faccio anch’io io da anni…).
Insomma, in conclusione: una presentazione basata sul buon senso? Sì, e questo è quasi rivoluzionario, in un’area di discussione in cui il buon senso si è rivelato incredibilmente raro.