martedì 30 agosto 2016

Matera, Alberobello, Ascoli


A cavallo del fine settimana ho fatto una gita di famiglia nel Centro-Sud. Abbiamo tagliato in macchina otto regioni (Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata) fermandoci ogni tanto per bagni nell’Adriatico e nello Ionio. Al di là del divertimento, le soste mi hanno anche permesso di vedere tre esempi di rapporti diversi tra un luogo storico e il turismo.

Panorama del Sasso Barisano di Matera

Prima tappa, Matera, bellissima. I Sassi hanno avuto la fortuna di sopravvivere fisicamente a un passaggio storico: i quarant’anni scarsi in cui buona parte d’Italia è passata dalla miseria arcaica al postindustriale. Dalla convivenza in grotta col somaro alle pretenziose minigallerie d’arte globalizzate, insomma. A quel che ci ha raccontato una brava guida, Stefania, oggi nei Sassi vivono duemila persone. Quasi tutte le grotte sono di proprietà demaniale e chi è residente a Matera può fare domanda e ricevere contributi per trasferirsi lì, purché ci abiti come prima casa. Mi sembra un ottimo compromesso tra uso e gestione, che lascia l’aspetto di un’area svuotata ma decorosamente mantenuta e in parte di nuovo vissuta.
 
Il turismo di Alberobello è molto meno gradevole. Torme di turisti affollano e ingombrano le strette strade tra i trulli, affiancate da negozietti dei soliti oggetti improbabili. A me piace che i siti storici siano visitati e abitati, non ingessati in musei o trasformati in parchi di divertimento per ricchi… Ma ad Alberobello mi sembra evidente che una stretta di regolamentazione, con un po’ di sfoltimento, gioverebbe.
 
Turisti, negozietti e simboli sui trulli ad Alberobello

Sul posto ho scoperto anche con sorpresa i simboli tracciati sui tetti dei trulli, simboli di cui non avevo nessun ricordo dalle mie visite precedenti. È stato un sussulto: ma indicativo: stare troppo tempo lontano da questioni di scrittura mi deprime. E il giorno dopo, ad Ascoli, non ho resistito e mi sono fermato a leggere alcune delle numerose iscrizioni sparse nel centro, tra cui la celebre (chissà come mai?) “NON SENZA FATICA” al n. 44 di via Annibal Caro. Molto meglio l’iscrizione latina del 1230 su Porta Solestà, davanti al bellissimo ponte romano sul Tronto:
 
Iscrizione su Porta Solestà ad Ascoli

Ho fatto pure una deviazione sotto il sole per andare a vedere il convento dei Cappuccini, dove nel 1477 frate Giovanni da Teramo impiantò una delle prime tipografie italiane. Di queste iniziative editoriali, però, rimane solo il ricordo nei libri, e neanche una lapide sul posto. La guida rossa del Touring del 1979 prometteva dalla zona del convento una “*Vista retrospettiva della città con le sue torri svettanti”, ma oggi il paesaggio è cancellato da brutte pareti in cemento e da una serie di edifici residenziali fatti senza troppa cura, con marciapiedi inagibili eccetera. Pazienza. Ascoli si è rivelata un posto un po’ ai margini… per la prima volta da non so quanti decenni, ho rivisto donne anziane girare col velo sulla testa (?)… e con infrastrutture inadeguate, ma con molte potenzialità. Qualche turista in più, specialmente in questo periodo di problemi sul territorio, secondo me lì non farebbe male.
 

martedì 23 agosto 2016

Scrittura espressiva: ancora Alan D. Altieri

  
 
Alan D. Altieri, Orizzonti di acciaio
Io sono da tempo un lettore affezionato dei romanzi di Alan D. Altieri. In parte, anche per ragioni professionali: Alan D. Altieri (pseudonimo di Sergio Altieri) è uno dei pochi scrittori di genere a trattare la lingua italiana in modo originale. Negli ultimi anni ho quindi citato diverse volte il suo lavoro, inclusi due interventi sulla lingua della narrativa contemporanea fatti ad Aix-en-Provence  e a Varsavia.
 
Qualche giorno fa ho letto anche il supplemento estivo di “Segretissimo” con l’ultimo romanzo di Altieri: Orizzonti di acciaio. Quarta avventura dello “sniper” Russell Brendan Kane, il nuovo riprende il racconto nel punto esatto in cui si era fermato il romanzo precedente, Victoria Cross, pubblicato l’anno scorso.
 
Diciamo subito che, rispetto agli episodi precedenti della serie, questo mi è sembrato molto più tirato via. I personaggi appaiono e scompaiono senza grandi motivazioni narrative e gli inciampi messi sul cammino dei protagonisti sono decisamente meccanici. Inoltre, per iniziare con una scena d’azione, il romanzo parte anticipando alle pp. 8-10, in corsivo, una sparatoria-massacro… scena recuperata, in tondo, in sequenza e in chiusura, alle pp. 225-228, con minimi ritocchi. In altri casi la scelta sarebbe efficace, ma in questo contesto a me ha dato soprattutto la sensazione di un “tre pagine già pronte, benissimo”.
 
Dal punto di vista linguistico, in questa ripetizione mi ha incuriosito una cosa. La differenza principale tra i due pezzi è il passaggio della narrazione dal presente indicativo al passato remoto. L’intervento comunque è stato fatto in modo non meccanico, come testimonia il cambio di verbo in questa rielaborazione:
 
Il terminale della scala si tramuta in mattatoio (p. 10)
Il terminale della scala divenne un mattatoio (p. 228)
 
Io mi sono divertito a fare il confronto tra i due pezzi, per cercare di capire quale fosse l’originale. La versione di apertura, al presente, è stata anticipata da Altieri anche sul suo forum, a giugno, e penso proprio che sia questo il testo di partenza. L’ipotesi è rafforzata da un confronto. Ecco un brano da p. 10:
 
Due teste-di-stracci vanno su, AK imbracciati. Aggirano la prima rampa. Nessun nemico. Altre tre teste-di-stracci salgono di retroguardia. Ancora nessun nemico. Ha paura, il cane eretico. Seconda rampa. Testa-di-stracci livella l’AK. Hanno sempre paura quei luridi cani blasf…
 
Il brano torna alle pp. 227-228:
 
Due teste-di-stracci andarono su, AK imbracciati. Aggirarono la prima rampa, scarponi calciarono detriti e rottami. Nessun nemico. Altre tre teste-di-stracci salirono di retroguardia. Ancora nessun nemico. Ha paura, il cane eretico. Seconda rampa. Testa-di-stracci livella l’AK. Hanno sempre paura quei luridi cani blasf…
 
Qui, non solo c’è una piccola aggiunta nella seconda frase (“scarponi calciarono detriti e rottami”) ma il “livella” nella penultima frase è rimasto al presente. Poco più indietro, inoltre, a p. 227, si trova inoltre un “È da là” a inizio frase, invece di un più coerente “Fu da là”. Il che fa pensare che la versione originaria del testo fosse quella al presente, e quella al passato remoto una rielaborazione.
 
Detto questo, il gusto espressivo di Altieri continua a impazzare. Ogni tanto le frasi passano all’inglese, allo spagnolo e al francese, oppure includono qualche parola di russo (a volte trascritta in cirillico, come Босс per boss) o (p. 255) un’imprecazione implicata come calabrese… Anche se a volte, come per gli eventi della storia, il risultato suona molto più meccanico rispetto ad altri romanzi di Altieri. Inoltre, trovo curioso che qui, come in Victoria Cross, i personaggi filippini parlino in spagnolo. Possibile che Altieri non sappia che nelle Filippine, nonostante tre secoli e passa di dominio spagnolo, la lingua non si è mai affermata e in pratica oggi è conosciuta solo come L2 e da una ristretta minoranza?
 
Più originale è il modo in cui vengono presentate alcune battute di un gruppo di jihadisti trapiantati in Australia (?) e agli ordini di un italiano (?):
 
Unore a tua, Presodente (…) Priego a te, Presodente (…) Ma li intrugi stanno a L-18 (…) Come comandi atté, Presodente (pp. 52-53, corsivi nelloriginale).
 
Il modello è ovviamente l’italiano regionale del centro-sud: complemento oggetto preceduto da preposizione, verbo stare per essere, rappresentazione del raddoppiamento fonosintattico dopo a… anche se in un caso c’è, e in uno no. D’altra parte, il miscuglio secondo me funziona. Sono poche battute in una lingua inventata, ma mi sembrano un valido spunto per andare oltre. Aspetterò il quinto capitolo della serie.
 
Alan D. Altieri, Orizzonti d’acciaio, Special n. 41, luglio-agosto 2016, supplemento al n. 1631 di “Segretissimo”, pp. 260, € 7,90.
 

venerdì 12 agosto 2016

Gli etruschi maestri di scrittura


C'è scritto "śuθina", 'oggetto funerario'
Consiglio caldamente la mostra Gli etruschi maestri di scrittura, aperta al Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona fino all’11 settembre.
 
La mostra è innanzitutto un’eccezionale occasione per vedere riunite in un colpo solo, e in pratica in una sala sola, alcune delle principali testimonianze della scrittura etrusca. Nella Mostra sono infatti presenti due dei tre testi etruschi più lunghi arrivati fino a noi: oltre alla Tabula Cortonensis, che appartiene alla collezione permanente del Museo ed è la terza classificata, c’è in prestito il primo classificato, il Liber linteus di Zagabria (il secondo classificato, la Tabula Capuana, non si è invece mosso da Berlino). Inoltre, tra i testi brevi ci sono alcuni dei più famosi: la tavoletta con alfabeto di Marsiliana d’Albegna, il Fegato di Piacenza e i dadi da gioco di Vulci.
 
Dal mio punto di vista, la mostra ha anche una serie di meriti espositivi. Innanzitutto, mette a fuoco la grande varietà di usi della scrittura presso gli etruschi: tessere d’amicizia, dediche alle divinità, documenti legali… E a questo corrisponde la varietà di supporti. Una vetrina dedicata a “Testi e immagini” accosta esempi in cui la scrittura compare su uno specchio, su un serpente inciso su bucchero, su una punta di lancia, su un vaso da profumo. Ma basta girarsi di pochi passi per trovare scritte sui panneggi di una statua, sul modello di fegato conservato a Piacenza, e così via. Mancano, per ovvi motivi, testimonianze preziose come quelle dei dipinti su parete che fanno l’attrattiva di Tarquinia.
 
Un curioso contrappunto a questa espansività è l’approssimazione con cui molte di queste scritte sono tracciate. Accanto a scrittura quasi monumentale come quella della Tabula Cortonensis si trovano esempi sorprendentemente grezzi: il VS (in alfabeto latino , abbreviazione per suθi, ‘appartenente a una tomba’) malamente graffiato su una pelike ateniese del V secolo, ora al Louvre; oppure la scritta incisa sulla testa di un’elegante statuetta femminile – immagine scelta, non a torto, come emblema della mostra. D’accordo, dovevano essere sepolti, ma non mi sembra sia quello il punto.
 
Un grande merito dell’allestimento è che, se ho ben visto, sono presentate trascrizioni per tutte le iscrizioni (a eccezione di quelle più lunghe). Però sono rimasto molto sorpreso per il fatto che, in una mostra dedicata alla scrittura etrusca, non si parli affatto della lingua per cui quella scrittura è stata realizzata… L’unica nota, se ho ben visto, è una frase un po’ sconclusionata messa nella didascalia che accompagna una vetrina su “Scomparsa e ricomparsa dell’etrusco”: “Si deve arrivare alla fine del XVIII secolo per avere una più corretta interpretazione dell’alfabeto, e solo in seguito per ottenere una sufficiente conoscenza delle regole grammaticali e linguistiche [chissà che differenza c’è?]; lo studio della lingua etrusca è tutt’altro che concluso e prosegue ancora oggi con gradualità e spesso con buoni risultati”. Mah! Il non specialista potrebbe chiedersi, per esempio: perché le trascrizioni etrusche mescolano caratteri latini, normali, caratteri speciali e caratteri greci? Come si devono leggere parole come uθuraś? Forse sono di parte, ma mi sembra che un po’ più di attenzione agli aspetti linguistici non avrebbe fatto male.
 
Qualche nota sugli aspetti organizzativi: la sala dell’esposizione era surriscaldata; quando sono arrivato io, la stanzetta oscurata con il Liber linteus era del tutto al buio, e ovviamente non c’era l’ombra di un custode al piano (forse per via del surriscaldamento). Per fortuna, un’oretta dopo, proprio mentre stavo concludendo il percorso sono arrivati due addetti e hanno riattivato l’illuminazione, permettendo di vedere uno dei principali reperti della mostra.
 
Più in generale, il MAEC nelle altre sale vanta un allestimento moderno e piuttosto spettacolare, ma che nella mia prospettiva non chiarisce bene proprio i punti chiave e il contesto di ciò che si sta vedendo.
 
Tutti aspetti marginali, comunque. La cosa importante è il presentare una meravigliosa rassegna di iscrizioni, ben scelte e ben presentate.