martedì 24 agosto 2021

Fatland, Sovietistan


 
Copertina di Sovietistan di Erika Fatland
Dicevo di testo e immagini… un genere in cui la scelta mi sembra abbastanza libera è quello delle relazioni di viaggio.
 
Un esempio interessante è un libro che ho ricevuto come graditissimo regalo: Sovietistan, della norvegese Erika Fatland. Pubblicato in edizione originale nel 2014, il libro è il resoconto, come dice il sottotitolo di “Un viaggio in Asia Centrale”, tra le repubbliche ex sovietiche dell’area. Area in cui ho avuto anch’io occasione di andare, anche se meno sistematicamente, e che non sono riuscito a raccontare qui... posso comunque confrontare le mie esperienze con quelle descritte nell’ultima sezione del libro, che riguarda l’Uzbekistan (Nukus, Khiva, Bukhara, Samarcanda e Tashkent: pp. 425-518), mentre l’unico posto che ho visitato in Kazakistan, Shymkent, è sì menzionato anche qui, ma senza dettagli (alle pp. 178-180).
 
Il libro è bello, e si legge di corsa. Strutturalmente, ha le caratteristiche di una raccolta di articoli di giornale (anche se non mi pare che i contributi siano stati inizialmente pubblicati in quella forma). I capitoli iniziano quindi spesso con un attacco in medias res senza informazioni di contesto, per disorientare il lettore e attirare la sua curiosità immediata. La tecnica funziona, a parere di molti, negli articoli di giornale o simili; io ne sono un po’ meno convinto per quanto riguarda appunto i capitoli di un libro: nel caso di classici come Kaputt di Malaparte, per esempio, le soluzioni non sono altrettanto estreme.
 
I temi sono di conseguenza variatissimi, dalla storia dell’allestimento del Museo Savickij di Nukus (pp. 451-461) fino alle pratiche di falconeria turistica in Kirghizistan (pp. 375-385). Le visite usbeche riguardano una successione di mete turistiche ovvie (e l’Uzbekistan che ho conosciuto io è molto diverso: decisamente più vitale e spontaneo di quello descritto qui), mentre la sezione sul Turkmenistan descrive un luogo che ben pochi visitatori hanno visto. Soprattutto, c’è molta attenzione alla vita delle donne, con tutte le difficoltà che si possono incontrare in ambienti come quelli descritti!
 
In un racconto del genere, che ruolo possono avere le immagini? In questo libro non ce ne sono. O meglio, ci sono diverse cartine (una dell’area e una per ognuna delle cinque repubbliche attraversate), ma il livello di dettaglio è minimo. Anzi, in alcuni casi i caratteri dei pochi nomi presenti sulle cartine sono così piccoli da essere indecifrabili – specie quelli presentati in corsivo – e la disposizione a doppia pagina rende illeggibile ciò che si trova proprio sulla cucitura. Ma se ci fossero per esempio fotografie di buona qualità, il racconto ne uscirebbe migliorato o peggiorato?
 
Innanzitutto, non sembra opportuno, anche per ragioni di sicurezza, pubblicare per esempio la foto di Bekdury, una guida che esprime opinioni non del tutto positive sul regime del Turkmenistan (pp. 81-82); o quelle delle donne kirghise rapite e costrette a sposarsi che raccontano la propria storia in uno dei capitoli più drammatici e dolorosi (pp. 361-373). E in generale, in molti casi scattare foto distrugge la naturalezza di un dialogo. Il libro è bello e funziona in quanto tale. Non ha bisogno di immagini per raccontare la propria storia.
 
Credo però comunque che vedere qualche faccia e qualche luogo farebbe bene. Le parole sono potenti, ma anche le immagini lo sono. Nei racconti di viaggio che ho fatto, anche su questo blog, io ho sempre cercato di integrare i due canali usando le immagini soprattutto per dare la percezione generale di un ambiente. Una specie di ancora per l’immaginazione, insomma. Non è l’unica soluzione possibile, ma è quella che mi sembra più naturale.
 
Erika Fatland, Sovietistan. Un viaggio in Asia Centrale., Marsilio, Venezia e Milano, Feltrinelli, 2019, pp. 538, ISBN 978-88-297-0282-4 (traduzione di Eva Kampmann di Sovjetistan. En reise gjennom Turkmenistan, Kasakhstan, Tadsjikistan, Kirgisistan og Usbekistan, 2014). Ricevuto in regalo.
 

martedì 10 agosto 2021

Sobel e Andrewes, The Illustrated Longitude

  
 
Copertina di The Illustrated Longitude di Dava Sobel e William J. H. Andrewes
Tornando al rapporto tra testo e immagine… nei mesi scorsi ho letto anche The Illustrated Longitude di Dava Sobel e William J. H. Andrews. Il titolo e il doppio nome degli autori richiedono una spiegazione. The Illustrated Longitude è infatti la versione illustrata del libro Longitude (senza illustrazioni) di Dana Sobel, che ottenne una discreta popolarità al momento della sua uscita, nel 1995. La versione illustrata è stata pubblicata nel 1998, con la collaborazione di William J. H. Andrews e l’aggiunta di 180 immagini (questo è il numero dichiarato; non le ho contate, anche perché alcune sono presentate in varianti o duplicate, ma mi fido).
 
La pubblicazione di una versione illustrata ha senso. Non sono rari i casi in cui un testo praticamente chiede di avere immagini; eppure, le convenzioni editoriali e i problemi di costo e/o gestione dei diritti connessi fanno sì che molti testi abbiano meno immagini di quelle che molti lettori riterrebbero necessarie. E a monte, gli autori spesso non hanno cultura delle immagini, non sanno come fare a cercarle o sceglierle o riprodurle – e soprattutto, come usarle… Su problemi simili ragiono spesso a proposito di voci di Wikipedia. Nei prossimi giorni parlerò poi forse di un altro libro che non ha immagini ma che ne avrebbe vistosamente bisogno. Intanto, notiamo che, mentre si realizzano spesso edizioni di lusso con illustrazioni, casi come quello di Longitude, in cui le immagini sarebbero state necessarie fin dall’inizio, sono relativamente rari. Il testo di partenza, se ben capisco, includeva addirittura il confronto dettagliato di due ritratti di John Harrison… senza riprodurli. Un bell’atto di fede nel potere descrittivo delle parole – ma perché arrivare a questi punti?
 
Comunque, in entrambe le versioni Longitude racconta una storia interessantissima: quella dei tentativi di trovare un modo affidabile per determinare la longitudine. In un’era di GPS nei telefoni è difficile immaginarselo, ma fino alla fine del Settecento non esisteva un metodo affidabile per determinare la longitudine di una nave (o di un qualunque punto sul pianeta). Determinare la latitudine era relativamente semplice… bastava e basta misurare con precisione l’altezza del Sole nel punto più alto del suo percorso, a mezzogiorno… ma per la longitudine non esisteva nulla di equivalente.
 
Con questo rompicapo si misurarono alcuni dei principali matematici e astronomi dell’età moderna, da Galileo a Flamsteed. Tuttavia, una vera soluzione pratica arrivò solo nel Settecento, e da una via inaspettata: non attraverso calcoli matematici sui movimenti celesti (che comunque furono perfezionati in contemporanea), ma con la realizzazione di orologi tanto precisi e affidabili da permettere di capire con sicurezza quanto la nave si era allontanata dal meridiano di riferimento. A sviluppare simili meccanismi fu l’inglese John Harrison a metà Settecento, con un’impresa che richiese lunghi anni di lavoro – e anni ancora più lunghi per far riconoscere la bontà del sistema e ottenere la ricompensa messa in palio dal governo britannico per chi avesse risolto il problema della longitudine.
 
Ora, nel raccontare questa storia affascinante, Dana Sobel si concentra soprattutto sulle vicende umane… anche con diverse libertà rispetto a ricostruzioni storiche rigorose (per esempio, nel raccontare alle pp. 15-17 il disastro navale delle isole Scilly del 1707 vengono riportate come verità storie di dubbia origine). In fin dei conti, si tratta di un testo divulgativo, non di una sintesi scientifica! E qui le parole sono sufficienti.
 
L’orologio H-4 di Harrison, a p. 131

L’orologio H-4 di Harrison, a p. 131.

Anche la parte sui più antichi tentativi astronomici di risolvere il problema mi sembra funzionale. La spiegazione dei ragionamenti di Galileo e di Roemer, per esempio, mi sembra ben comprensibile per molti lettori senza bisogno di immagini (anche se indubbiamente le immagini aiutano).
 
Il racconto invece diventa meno chiaro quando si inizia a parlare di meccanica, e in particolare degli orologi di Harrison. Qui le indicazioni sono spesso tanto generiche da generare un po’ di frustrazione. Per esempio, a p. 86 si citano due importanti innovazioni di Harrison, il pendolo a griglia e lo scappamento a cavalletta. Solo per la prima, però, viene data una spiegazione minimamente approfondita. Per la seconda viene fornito un testo che spiega l’origine del nome ma che non chiarisce assolutamente niente del modo in cui funzionava il meccanismo:
 
The grasshopper escapement – the part that counted the heartbeats of the clock’s pacemaker – took its name from the motion of its crisscrossed components. These kicked like the hind legs of a leaping insect, quietly and without the friction that bedeviled existing escapement design (p. 88).
 
Oppure, il funzionamento del quadrante di Hadley viene descritto in questo modo:
 
thanks to a trick done with paired mirrors, the new reflecting quadrant allowed direct measurement of the elevation of two celestial bodies, as well as the distances between them. Even if the ship pitched and rolled, the objects in the navigator’s sights retained their relative positions vis-à-vis one another (p. 109).
 
Tutto bene, ma in che cosa consisteva il trick? Non viene fornita nessuna informazione. Certo, gli autori di un libro possono scegliere il livello di approfondimento che desiderano – ma in questo caso si ha la sensazione che manchi proprio qualcosa di centrale.
 
E qui entrano in gioco le immagini. Io farei rientrare quelle dell’edizione illustrata in tre tipologie diverse:
  1. Immagini quasi solo ornamentali (come la statua di Atlante al Rockefeller Center a New York a p. viii) 
  2. Immagini, e sono la maggioranza, che corredano il testo mostrando visivamente protagonisti, luoghi, eventi e oggetti descritti a parole (come il capolavoro di Harrison, l’orologio H-4 del 1759, presentato a dimensioni naturali a p. 131); va aggiunto che le didascalie, realizzate da Andrewes, includono spesso spiegazioni aggiuntive articolate e complesse 
  3. Immagini (inclusi grafici e simili) che, anche in questo caso con l’assistenza delle didascalie, aggiungono al testo informazioni e spiegazioni del tutto assenti nell’originale (come il diagramma presentato a p. 88, che mostra appunto l’aspetto e il funzionamento dello scappamento a cavalletta - anche se nemmeno questa illustrazione riesce a far capire fino in fondo il modo in cui funziona il meccanismo).
La selezione delle immagini è comunque, nel suo complesso, impressionante per estensione e qualità. Di sicuro, il testo che ne viene fuori è molto più completo e più soddisfacente della presentazione fatta solo a parole.

Il diagramma di p. 88 che illustra il funzionamento dello scappamento a cavalletta

Il diagramma di p. 88 che illustra il funzionamento dello scappamento a cavalletta.
 
Tuttavia, a parte alcune immagini schematiche realizzate appositamente, l’apparato iconografico privilegia di gran lunga l’effetto estetico rispetto alla chiarezza. Per esempio, ci sono fotografie che presentano oggetti complessi, ma senza evidenziazioni, indicazioni, frecce che indichino i componenti e così via. Quindi, per esempio, a p. 104 una foto dell’orologio H-2 di Harrison viene accompagnata da una didascalia che dice: “This side view of H-2 shows the remontoire, a device that Harrison designed to provide a more constant source of power to the escapment”. Sì, ma non solo il lettore non viene informato del modo in cui funziona esattamente il remontoire, ma non ha nemmeno modo di capire quale parte del complesso meccanismo in foto è il remontoire. Qualcuno lo può capire da questa foto?

L'orologio H-2 presentato a p. 104

Lorologio H-2 presentato a p. 104.

Oppure: alla p. 139 si presenta un diagramma d’epoca che descrive il transito di Venere davanti al Sole, ma la didascalia che lo spiega è presentata, per ragioni estetiche, a p. 138, cosa che rende difficile seguire con l’occhio il collegamento tra un elemento del diagramma e la spiegazione – e, soprattutto, le dimensioni della riproduzione sono tali da rendere troppo piccole (almeno per me) le lettere che indicano i punti di riferimento in una parte dello schema.
 
Insomma, sia il testo sia le immagini si fermano all’inizio di un lungo percorso di spiegazione. In parte la cosa è inevitabile (le questioni trattate sono spesso complesse). Tuttavia, in molti punti sarebbe stato non solo possibile, ma facile, fare diversamente. Un libro divulgativo illustrato può essere più approfondito di così, senza alienare il pubblico cui si rivolge? Io darei una risposta positiva e avrei spinto il punto di equilibrio diversi passi più in là.
 
Dava Sobel e William J. H. Andrewes, The Illustrated Longitude. The True Story of a Lone Genius Who Solved the Greatest Scientific Problem of His Time, New York, Walker and Company, 1998, ISBN 0-8027-1344-0, pp. 216. Comprato usato (copia già delle Josephine Community Libraries di Grants Pass, Oregon.
 

giovedì 5 agosto 2021

Ágoston, Guns for the Sultan


Dopo il libro di Andrade di cui ho parlato la settimana scorsa ho letto anche Guns for the Sultan di Gábor Ágoston. Sottotitolo: Military Power and the Weapons Industry in the Ottoman Empire. Lettura interessante e con un risvolto linguistico preciso.
 
Anche questo libro (uscito nel 2005) si colloca nel filone di studi storici che collocano molto tardi la “grande divergenza” tra Europa e resto del mondo. Lo fa però da un’angolazione particolare, in quanto è ben noto che, sul piano militare, l’Impero Ottomano è stato sempre in grado di confrontarsi con le potenze europee. Per tre secoli, in sostanza, vincendo: dalla conquista dei Dardanelli fino alla sconfitta alle porte di Vienna, nel 1683. E poi, per due secoli e mezzo, perdendo… ma non senza numerosi momenti di successo, fino alle disastrose sconfitte inflitte all’Impero Britannico nel corso della Prima guerra mondiale.
 
In ogni caso, per il periodo che oggi mi interessa di più, cioè il Seicento, sul piano militare gli ottomani si mostrarono di regola superiori agli europei. Un po’ per la loro capacità organizzativa e logistica, e un po’ anche per l’uso esperto delle armi da fuoco. Ciononostante, la storiografia è stata costellata di
tentativi di ridimensionare queste capacità, assegnando agli ottomani un ruolo minore, arretrato, non innovativo.
 
A queste posizioni Ágoston oppone lo studio delle fonti ottomane, da cui escono i dati numerici per 31 tabelle inserite nel testo e 69 collocate in appendice. Gli argomenti coperti sono molto vari: stime sulle produzioni annuali di salnitro e polvere da sparo, sul numero dei giannizzeri in servizio, sulla produzione di singole fonderie di cannoni… Una ricostruzione quantitativa così dettagliata smentisce, secondo l’autore, diverse leggende: che l’Impero Ottomano non fosse in grado per esempio di produrre al proprio interno armi in quantità sufficiente ai propri bisogni; che le armi ottomane fossero di scarsa qualità; che i processi lavorativi fossero meno efficienti di quelli europei; e così via. In particolare, fino al Seicento il complesso militar-industriale ottomano se la giocava alla pari con quello veneziano – a sua volta, probabilmente il più efficiente d’Europa.
 
Mi interessano molto anche le osservazioni di Ágoston sugli errori di prospettiva generati dall’uso come unica fonte delle relazioni di viaggio d’epoca. Nelle parole dell’autore, “assumptions regarding Ottoman weapons technology have been based on random and often atypical evidence without respect for chronology”, cosa avvenuta “Following contemporary narrative sources’ obsession with giant Ottoman cannons” (p. 61). In altre parole, i viaggiatori europei rimanevano colpiti dai pezzi di artiglieria di maggiori dimensioni. Dai loro racconti passò agli storici l’idea, ripresa anche da Carlo Maria Cipolla, che gli ottomani in fatto di artiglieria fossero afflitti da gigantismo, e che impiegassero le loro risorse in armi enormi ma poco pratiche, a differenza di quel che accadeva in Europa. Esaminando la produzione degli arsenali, Ágoston mostra che non era così e che la distribuzione di armi di vario calibro non era probabilmente molto diversa da quella europea (capitolo 6).
 
Tuttavia, è anche certo che il trasferimento di informazioni tecniche andava in una direzione sola: non ci sono innovazioni tecnologiche ottomane che siano arrivate in Europa, perché non c’erano alla base. E lo testimonia, appunto, anche il fattore linguistico: “many of the gun names in the Empire derived from European types of guns, an apparent sign of acculturation”, anche se “Ottoma pieces differed from guns of similar names, and these differences seem to have been more profound than dissimilarities among European guns of the same kind” (p. 64): quest’ultimo punto a testimonianza che un po’ di differenziazione c’era (l’autore insiste per esempio sulla minor standardizzazione dei calibri ottomani rispetto a quelli europei).
 
In pratica, i nomi normalmente dati ai pezzi di artiglieria più grandi, genericamente chiamati kale-kob (dal persiano qal’eh-kub, ‘distruttori di castelli’: p. 73), erano (con numerose varianti): şayka, balyemez, bacaluşka, canon (p. 74). Tra questi, şayka viene dalla parola “slava” chaika, ‘gabbiano’ (p. 75); balyemez è parola di origine incerta (p. 77); e gli altri due sono “europeismi” di varia trafila (pp. 79-81; su questi si può vedere anche il famoso lavoro dei Kahane sulla “lingua franca”, che con la lingua franca non ha a che fare, ma con gli italianismi sì…).
 
I pazzi di artiglieria di medio e piccolo calibro erano invece kolunburna, darbzen, şâhî. I più piccoli in assoluto erano saçma, eynek, prangıs, misket e şakaloz. Il celebre moschetto dei giannizzeri era invece chiamato tüfenk. Ágoston non fornisce informazioni su tutte queste parole, ma dal punto di vista linguistico è ovvio il rapporto di kolunburna con l’europeismo colubrina, mentre şakaloz deriva dall’ungherese szakállas (p. 87). Viceversa, è altrettanto ovvio che nessuna parola turca è entrata nell’italiano (o in altre lingue romanze).
 
Basandosi anche su queste osservazioni, Ágoston nota che la parità tecnologica ottomana si basava in sostanza su un flusso unidirezionale:
 
For the most part European-Ottoman military acculturation involved European military experts who sold their expertise to the Ottomans and not vice versa. Linguistic evidence also supports this observation: Ottoman names for weapons and ships often come from Greek or from western languages, suggesting that ordnance and naval technology primarily flowed from Byzantium and Europe to the Ottomans. The Ottomans thus do not differ from their opponents in the use of foreigners. Where they do differ is that their indigenous experts do not seem to have been in much demand in the West (p. 193; Ágoston nota che gli specialisti ottomani erano comunque molto richiesti nel Medio oriente e in generale in Asia).
 
La parità ottomana non era quindi basata sulla superiorità tecnica in questo specifico settore, ma sull’efficienza in altre aree. Ágoston si allontana esplicitamente sia dal determinismo tecnologico sia dall’idea che la tecnologia fosse irrilevante (p. 190): per gli ottomani, disporre di armi e munizioni di qualità mediamente simile a quella europea, anche con i ritardi dovuti ai tempi del trasferimento tecnologico, era evidentemente sufficiente. La fine della superiorità ottomana a fine Seicento viene quindi attribuita non all’adozione europea di baionette e moschetti a pietra focaia, ma al fatto che nel frattempo gli stati europei erano finalmente divenuti capaci di mettere in campo eserciti comparabili a quelli ottomani, rifornirsi di armi senza problemi, e in generale avevano rinforzato “production capacity, finance, bureucracy, scientific engineering and state patronage” (p. 201). E anche così, all’inizio del Settecento gli ottomani riuscirono rapidamente a riorganizzarsi e a ritornare a vincere… fino all’ascesa della Russia a metà secolo.
 
Gábor Ágoston , Guns for the Sultan. Military Power and the Weapos Industry in the Ottoman Empire, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 2016, ISBN 978-0-521-60391-1, pp. xvii + 277. Letto nella copia della Biblioteca di Filosofia e Storia dell’Università di Pisa.