venerdì 24 dicembre 2021

Cominetti e Tavosanis, Interferenza della L1 nell’apprendimento degli articoli in italiano L2

 
I due volumi con gli atti del convegno SILFI 2016
Sono finalmente usciti due volumi che presentano una selezione di contributi basati sugli interventi tenuti al convegno SILFI di Madrid. Il percorso senz’altro non è stato facile, visto che il convegno si è svolto nel 2016 – ma sono molto contento che sia giunto a termine!
 
Di sicuro, il prodotto finale è imponente: per quanto si tratti di una selezione, si concretizza appunto a due volumi che arrivano in totale quasi a milletrecento pagine. All’interno si trova anche un contributo scritto da Federica Cominetti e da me: Interferenza della L1 nell’apprendimento degli articoli in italiano L2: una ricerca sul corpus ICoN. Spero che molte delle cose dette lì possano ancora essere utili!
 
Il nostro testo include una presentazione del Corpus ICoN, che però al momento della consegna del contributo era ancora in uno stato provvisorio: la presentazione definitiva è quindi quella pubblicata nel 2018 in un altro intervento di cui ho già parlato. Quella uscita ora, più che una presentazione istituzionale, è comunque soprattutto una ricerca sull’interferenza del sistema degli articoli della L1 nell’apprendimento degli articoli in italiano L2, e in quanto tale mi sembra non sia invecchiata.
 
L’analisi presentata, qualitativa e quantitativa, si concentra sugli errori nell’uso degli articoli in quattro sottocorpora estratti dal corpus ICoN. I quattro sottocorpora scelti comprendono testi di italiano L2 scritti da parlanti nativi di due lingue dotate di articoli (inglese e tedesco) e di due lingue prive di articoli (russo e ceco). A questi viene affiancato un sottocorpus realizzato da parlanti nativi di spagnolo.
 
In sintesi, l’analisi degli errori mostra che l’esistenza di un sistema di articoli in L1 è correlata nel corpus a un uso più corretto degli articoli in italiano L2, con un effetto di interferenza positiva. Tuttavia, questa considerazione è valida solo per errori legati alle regole d’uso degli articoli, e non per le regole fonomorfologiche. La frequenza degli errori fonomorfologici nei sottocorpora sembra infatti indipendente dalla presenza o assenza di articoli nella L1. In altri termini, anche se chi ha come madrelingua il russo (senza articoli) commette più errori rispetto a chi ha come madrelingua il tedesco (con articoli) nel decidere quando l’articolo va usato e quando no, le differenze scompaiono al momento di decidere se l’articolo deve essere il o lo, eccetera. Ecco alcuni esempi di errore fonomorfologico ricavati dal corpus:
 
  • L1 ceco: E lo terzo tipo dello spirito esprime la totalità infinita e racchiude la filosofia, la religione e l'arte.
  • L1 russo: Tra i scrittori italiani attivi nel periodo del secondo dopoguerra si ascrive l'operato di Elsa Morante.
  • L1 tedesco: Così nel 1612 l'Accademia della Crusca sviluppò un vocabolario delle parole dei scrittori.
  • L1 inglese: Clodoveo, invece, implorando il Dio degli Cristiani sul campo di battaglia vide i suoi nemici scappare.
 
Più in dettaglio, il contributo ipotizza che gli errori d’uso commessi da anglofoni e germanofoni si spieghino in parte con l’interferenza negativa, dovuta alla non perfetta sovrapponibilità dei sistemi di articoli delle due lingue con quello dell'italiano.
 
Federica Cominetti e Mirko Tavosanis, Interferenza della L1 nell’apprendimento degli articoli in italiano L2: una ricerca sul corpus ICoN, in Acquisizione e didattica dell’italiano: riflessioni linguistiche, nuovi apprendenti e uno sguardo al passato, a cura di Margarita Borreguero Zuloaga, Berlino, Peter Lang, 2021, 2 volumi, pp. 1252, ISBN 978-3-631-75782-6, pp. 97-119. Copia ricevuta come autore.
 

mercoledì 17 novembre 2021

I convegni di novembre

 
Logo del convegno GISCEL
In una specie di parziale ritorno alla normalità, questa settimana parteciperò a due convegni. Sono per me i primi, dal marzo del 2020, e purtroppo, nonostante l’impegno degli organizzatori, si tengono entrambi a distanza. Ma sono comunque un’ottima occasione per riprendere anche questo genere di attività.
 
All’università di Milano sono stato invitato a parlare al convegno La didattica delle lingue e il Companion Volume: il testo, i descrittori, gli ambienti digitali telematici, le pratiche e le esperienze, organizzato dal Centro linguistico d’Ateneo SLAM. Oggi, 17 novembre 2021, nella sessione che inizia alle 11:15 farò quindi un intervento su Esperienze multimodali per la didattica del lessico, parlando soprattutto dei corsi online di Comprensione del testo che ho sviluppato e gestito dal 2018 per l’Università di Pisa.
 
Domani inizierà invece a Locarno il XXI Convegno Nazionale GISCEL, dedicato a La scrittura nel terzo millennio. Lì interverrò venerdì 19 alle 11:40 parlando de Gli usi pratici della scrittura e la didattica della scrittura: una riflessione basata sull’analisi di tutti i manuali di scrittura universitaria pubblicati in Italia dal Duemila a oggi. L’analisi è stata svolta all’interno del PRIN UniverS-ITA, e spero offra diversi spunti interessanti.
 
Poi, appunto, speriamo di poter tornare presto a fare queste cose anche in presenza…
 

martedì 19 ottobre 2021

Pieraccini, AI Assistants


 
Copertina di Roberto Pieraccini, AI Assistants
A parer mio, i moderni assistenti digitali sono prodotti di estremo interesse per la linguistica e potrebbero avere sviluppi rivoluzionari in particolare nell’insegnamento delle lingue. Quasi quattro anni fa (!) ne avevo parlato nel mio Lingue e intelligenza artificiale, ma negli anni seguenti lo sviluppo è stato notevolissimo. Tanto per dirne una, quando il mio libro è uscito non erano ancora arrivati in Italia gli altoparlanti intelligenti, come i sistemi Alexa di Amazon e Google Home, e i sistemi di dialogo in commercio avevano appena iniziato a mantenere il contesto della conversazione…
 
Eppure, nonostante gli sviluppi e le promesse, le pubblicazioni in proposito sono state ben poche. Solo negli ultimi mesi sono finalmente comparsi alcuni libri che descrivono in modo sistematico i moderni assistenti digitali, che fino a oggi erano descritti in sostanza solo dalle pubblicazioni specialistiche (con molte informazioni rimaste implicite nelle conoscenze dei ricercatori) o da istruzioni per l’uso come quelle di Dialogflow.
 
Del secondo di questi libri, Hey, Cyba!, conto di parlare più avanti. Qui invece vorrei parlare di AI Assistants, che, firmato da Roberto Pieraccini per la collana Essential Knowledge del MIT, finalmente descrive in modo sistematico il funzionamento degli assistenti digitali moderni.
 
Da un certo punto di vista il libro può essere considerato un’appendice o una continuazione dell’ottimo The Voice in the Machine dello stesso autore. Buona parte dello spazio, in effetti, è dedicata, più che agli assistenti digitali in sé, ai loro prerequisiti, cioè allo sviluppo delle tecnologie vocali dal dopoguerra a oggi. Questa storia era già stata raccontata in dettaglio appunto da The Voice in the Machine, ma la sovrapposizione tra i due libri è più ridotta di quanto si potrebbe immaginare: l’autore ha trattato il tema in modo nuovo. E soprattutto, queste informazioni sono importanti per comprendere molti aspetti del funzionamento degli assistenti digitali.
 
Una simile scelta fa sì che le caratteristiche specifiche degli assistenti digitali in quanto tali siano presentate solo nei due ultimi capitoli: il sesto, dedicato a The Dialog Manager, e il settimo, Interacting with an Assistant. Chi si sente già preparato sui modelli di Markov nascosti o sulle difficoltà connesse alla generazione del parlato potrebbe quindi essere tentato di saltare direttamente a questi… ma credo che sarebbe un peccato, perché la descrizione delle fasi precedenti è comunque interessante in questa nuova prospettiva.
 
Inoltre, molte delle informazioni presentate sono sì diffuse nell’ambiente, ma poco formalizzate e descritte. Questo fa sì che il testo fornisca informazioni difficilissime da ricostruire per gli esterni, come questa descrizione dello stato dell’arte per la gestione di pronomi e frasi incomplete:
 
Modern assistants are able to manage referential pronouns and incomplete sentences (called elliptical sentences) based on algorithms that unravel the structure of each query, determine whether the query is incomplete and missing elements such as the specific subject or intent, and try to answer it by resolving the missing elements with the right information. Those algorithms are based on a mix of language rules and the results of data analysis on large corpora of queries done in the past and aggregated over all the users (p. 169).
 
In questo punto, e in molti altri, non ci sono rinvii a fonti di informazione specifiche, e la cosa non mi sorprende. Dove si dovrebbero trovare, del resto?
 
In quanto alle modalità di esposizione, sono fondamentalmente non tecniche (e corrette e approfondite per quanto riguarda le componenti linguistiche). Tuttavia, come già succedeva in The Voice in the Machine, in alcuni punti sono molto sintetiche: nelle parti più tecniche è difficile che il lettore non informato possa comprendere tutto ciò che viene detto.
 
L’esposizione arriva però anche al personale nell’ultimo capitolo. Pieraccini, viareggino, laureato in Ingegneria a Pisa, ha lavorato a Torino al CSELT per poi spostarsi oltreoceano ai mitici Bell Labs e da lì a molte delle principali aziende del settore, avendo occasione di contribuire in prima persona a molti degli sviluppi descritti qui (adesso è Director of Engineering per Google Assistant a Zurigo). Uno di questi contributi ha riguardato lo sviluppo del “robot sociale” Jibo, che ha avuto una storia complessa e ha lasciato un segno importante, apparentemente, sia nella comunità degli sviluppatori sia tra gli utenti. Le pagine dedicate a questo argomento, oltre a essere tra le più interessanti nella mia prospettiva, mostrano un coinvolgimento non superficiale.
 
In definitiva: il libro è caldamente raccomandato a chiunque sia interessato a questi argomenti.
 
Roberto Pieraccini, AI Assistants, Cambridge (Massachusetts), MIT Press, 2021, pp. 288 (edizione tascabile), ISBN (edizione tascabile) 978-0-26254255-5, letto nell’edizione Kindle, ASIN B08PY9X5YF, € 10,99.
 

lunedì 11 ottobre 2021

Rothman, Brokering Empire


 
Copertina di Brokering Empire
Brokering Empire
di E. Natalie Rothman è un libro che nasconde molti contenuti interessanti dietro un titolo poco trasparente. Il sottotitolo resta sul vago, ma precisa un po’ meglio i contenuti: “Trans-Imperial Subjects between Venice and Istanbul”. All’interno non si parla infatti di mediazione (o “brokeraggio”?) di imperi, ma più modestamente di alcuni esempi dei diversi modi in cui a Venezia, tra Cinque e Seicento, venivano gestite diverse categorie di “stranieri”. Il libro si divide in quattro sezioni, di estensione grosso modo equivalente:
 
  • Mediation: la gestione della mediazione commerciale a Venezia, in particolare dopo che nel 1503 era stata istituita la gilda dei sensali, che assegnò a cento cittadini veneziani il monopolio di queste attività a Rialto – creando anche il problema di distinguere, cosa non facile, tra gli stranieri che svolgevano normali attività di supporto ai connazionali e quelli che provavano davvero a fare da mediatori professionisti.
  • Conversion: i processi di conversione al cattolicesimo visti attraverso la Pia Casa dei Catecumeni. Le modalità di questi processi erano molto diverse a seconda che i convertiti fossero ebrei (spesso residenti da tempo in città, ben integrati e padroni della lingua) e musulmani (spesso presenti come schiavi); l’autrice nota però che, anche se a volte la conversione consentiva un miglioramento delle condizioni di vita, il ruolo sociale del convertito restava di regola immutato, così come le sue reti di relazioni.
  • Translation: l’istutizione dei dragomanni pubblici a Venezia e i modi in cui la loro attività veniva definita (ne parlo più in dettaglio più sotto).
  • Articulation: i vari modi per caratterizzare gli stranieri a Venezia (anche ai fini del pagamento delle tasse sui dragomanni) e in particolare l’ambiguità dell’etichetta di “levantini”, che si riferiva a referenti anche molto diversi fra loro.
Il libro è molto interessante anche se, come si vede fin dai titoli, spesso nasconde concetti semplici e intuitivi dietro a giochini di parole di vario genere: una moda della saggistica statunitense che, con un po’ di fortuna, prima o poi passerà. Un’altra caratteristica, connessa, è la tendenza a complicare la spiegazione di cose del tutto evidenti. Per esempio, un paragrafo dedicato ai diversi modi in cui in quel periodo venivano considerate le conversioni religiose si intitola “Peregrinations in space-time” (!, p. 96). All’interno vengono presentati due diversi modi di motivare e presentare la conversione al cattolicesimo: come una questione di cambiamento di comportamenti, spesso condizionati dalle necessità esterne, per chi veniva dall’Islam, o come una questione di sviluppo di una convinzione interiore per chi veniva dal protestantesimo. La differenza non è certo difficile da descrivere o capire, ma per “elucidarla” (“to elucidate”), l’autrice ricorre al concetto di cronotopo introdotto da Bachtin (p. 97). Il concetto, com’è ovvio, non aggiunge assolutamente nulla alla descrizione della situazione e non aiuta affatto a capirla: è un puro sfoggio di erudizione, nemmeno troppo appropriato visto che il concetto originale di Bachtin si riferiva alle opere letterarie.
 
Un altro limite da tener presente è la comprensione delle fonti italiane, basata su trascrizioni non impeccabili e ogni tanto con veri e propri errori nel testo o nella traduzione. Certo, il senso di regola è presentato correttamente, ma in alcuni casi gli errori portano a fraintendimenti significativi. Per esempio, nella traduzione di una petizione della gilda dei sensali al Senato veneziano del 1587 si dice che gli ebrei “daily devour the blood” (p. 80), e l’autrice la commenta menzionando “Overtones of blood libel”. In effetti, in questa forma, sembra che ci sia un collegamento diretto con la tradizione del “blood libel”, nota in italiano come “accusa del sangue” (la leggenda, a diffusione europea, secondo cui gli ebrei uccidevano i bambini cristiani per berne ritualmente il sangue). Il testo originale italiano, presentato in nota, contiene invece, sia pure espresso in modi che richiamano la tradizione antiebraica, un più pragmatico lamento dei sensali nei confronti della concorrenza economica degli  ebrei, “quali quotidianamente ci divorano il sangue”.
 
Una volta detto che il testo richiede qualche cautela, va però aggiunto che già la prospettiva da cui è scritto aiuta a correggere le deformazioni della tradizione italiana. L’autrice per esempio, fin dal titolo, inquadra quello di Venezia come un “impero veneziano”, contrapposto all’“impero ottomano”. La definizione è del tutto corretta: in Oriente, nel Medioevo e per tutta l’età moderna, fino all’inizio dell’età contemporanea, i veneziani avevano un vero e proprio impero coloniale (anche se di estensione relativamente ridotta). La resistenza italiana a vedere le cose in questo modo è tale che per esempio perfino uno specialista come Francesco Bruni ha potuto caratterizzare l’espansione dell’italiano all’estero come quella di “una lingua senza impero”. In realtà, l’impero c’era, e per buona parte dell’età moderna la sua esistenza influenzò certamente la diffusione della lingua in Oriente – in positivo e in negativo.
 
Soprattutto, poi, il libro ha un fondamento solido: la ricerca in diversi archivi veneziani per testimoniare i processi descritti.
 
Dalla mia prospettiva, linguistica, le informazioni più importanti sono forse quelle riferite ai dragomanni, cioè gli interpreti, e in particolare a quelli che ricoprivano la carica di “dragomanno pubblico”, istituita sul modello di quanto avveniva alla corte ottomana. In pratica, questi dragomanni furono figure “trans-imperiali”, che si muovevano con un certo agio tra i territori veneziani e quelli ottomani. L’autrice descrive in dettaglio la situazione dei nove dragomanni pubblici nominati a Venezia tra il 1534 e il 1701 (tabella riportata a p. 183, da confrontare con quella fornita da Cristina Muru a p. 153 nel suo La variazione linguistica nelle pratiche scrittorie dei Dragomanni, pubbilcato nel 2016):
  • Girolamo Civran 
  • Michiel Membré 
  • Andrea Negroni 
  • Giacomo de Nores 
  • Francesco Scaramelli 
  • Pietro Fortis 
  • Giacomo Fortis
Tutti, a parte Scaramelli, erano nati all’estero (tre a Cipro quando era ancora veneziana, tre a Istanbul) e non erano cittadini veneziani al momento di entrare in servizio. In aggiunta alla conoscenza delle lingue (tra cui la più importante era di gran lunga il turco) avevano però solide reti di relazioni sia a Venezia sia nell’Impero ottomano, e in questo senso possono essere descritti come personaggi “trans-imperiali”.

Dal punto di vista linguistico è poi per me interessante vedere quanto poco numerose fossero, perfino a Venezia, le persone capaci di parlare lingue orientali. Giacomo de Nores, nel 1594, nella sua petizione per ottenere l’incarico di dragomanno dichiarava che gli era “facilissimo il leggere, il scrivere, il compore et tradure” in turco, ma aggiungeva di avere “altrotanta cognitione della lingua Araba, et della Persiana da me solo forsi non da altri in questa Città intesa” (p. 261). L’osservazione, verosimilmente, non sarà stata disinteressata o del tutto oggettiva, ma mi sembra comunque significativa.
 
L’attività dei dragomanni si collega poi ai tempi di Michiel Membré a quella dei sensali, perché, in aggiunta ai servigi per lo stato, a loro viene assegnato il ruolo di assistere i mercanti stranieri nelle trattative. Veniva infatti dato per scontato che questi ultimi, non conoscendo la lingua e le usanze del posto, venissero facilmente raggirati da sensali e mercanti locali. Ma vale la pena riportare qui per intero la sintesi fornita da E. Natalie Rothman (pp. 169-170):
 
Alongside the institutionalization of the office of dragoman attached to the Venetian bailo’s house in Istanbul and the office of chancellery interpreter in the maritime colonies, by the early sixteenth century we see the emergence of the office of Public Dragoman in Venice proper, a position unparalleled in other Italian states. This institution combined the diplomatic functions of the Ottoman Grand Dragoman with the mercantile duties of the bailo’s dragomans (who, in addition to their involvement in diplomatic negotiations were charged with assisting Venetian merchants in Istanbul in their dealings with local merchants and Ottoman magistracies). Unlike the interpreters employed in the Venetian colonial administration, Public Dragomans mediated not between the rulers and the ruled but between government officials and Ottoman and Safavid sojourners, both diplomatic envoys and merchants. Thus, whereas in the Ottoman context dragomans dealt with both subject populations and foreign dignitaries of all provenances, in Venice they dealt primarily with foreigners. Moreover, their position was unique in Venice as well because the only specialized full-time interpreters on record in the Venetian chancellery during this period were for Turkish and Greek. [in nota, rinvio a uno studio di Neff] The very association of the presumed foreignness of Ottoman sojourners with special linguistic needs thus became institutionalized in Venice in ways that the foreignness of the subjects of other neighboring states was not. [in nota: With Latin and Italian the dominant languages of European diplomacy well into the seventeenth century, the Venetian government had only limited use for translation and interpretation to and from most other vernacular languages. Sanuto’s rare references to a chancellery secretary providing translations for German documents sent by the emperor or offering simultaneous interpretation to Russian or Hungarian emissaries confirm the sense that, by and large, Venetian use of interpreters for languages other than Turkish was unusual. On the dominance of Latin and Italian in the linguistic training of Renaissance diplomats, see Roland (1999, 44).]
 
The duties of the Public Dragoman in Venice were multiple: to translate official letters sent to the doge by the sultan, as well as internal Ottoman correspondence intercepted by the Venetians; to accompany Ottoman dignitaries on official audiences and produce authoritative reports on such occasions; to travel to the Venetian-Ottoman borderlands to negotiate in border disputes; and most, frequently, to assist Ottoman and Safavid merchants in Venice in their interactions with often less-than-scrupulous merchants and commercial brokers. The Public Dragoman’s Position can thus be summarized as two-pronged; he was a civil servant, expected to keep tabs on Ottoman and Safavid foreigners and report on their whereabouts to his patrician employers, the Senate and the Board of Trade; at the same time, he was charged with safeguarding Ottoman merchants’ interests under the assumption that they were vulnerable and in need of special protection due to their lack of connections in the city.
 
L’attività dei dragomanni veniva compensata attraverso la tassa del terzo sui compensi dei sensali, e ciò generava anche reazioni: particolarmente istruttiva è quella dei mercanti armeni, che nel 1650 chiesero di essere esentati dal coinvolgimento del dragomanno nei loro affari perché dichiaravano di essere tutti in grado di parlar bene l’italiano (il caso è descritto nella quarta sezione, alle pp. 196-197). Viceversa, nel caso di molte altre nazioni – tra cui a volte, sorprendentemente, i greci – le necessità di supporto linguistico erano dichiarate in modo esplicito. Tutte informazioni che è importante tener presente guardando alla situazione dell’italiano nel Mediterraneo.
 
E. Nathalie Rothman, Brokering Empire. Trans-Imperial Subjects between Venice and Istanbul, Ithaca, Cornell University Press, pp. 538, ISBN 978-0-8014-7996-0. Letto nella copia della Biblioteca Centrale dell’Università di Bologna – Campus di Forlì e Cesena, ricevuta per prestito interbibliotecario.
 

giovedì 30 settembre 2021

Tavosanis, L’ideologia linguistica e le pratiche di Wikipedia in lingua italiana


   
Copertina di Le ideologie linguistiche
Un nuovo contributo sul rapporto tra Wikipedia e la lingua italiana? Ebbene, sì… prosegue la serie di lavori che sto dedicando, da diverse angolazioni, a questo argomento. Negli ultimi anni ne sono usciti diversi, e un altro ancora è in corso di stampa.
 
Questo ultimo arrivato si intitola comunque L’ideologia linguistca e le pratiche di Wikipedia in lingua italiana e dal punto di vista editoriale si colloca all’interno di un interessantissimo e corposo volume trilingue: Le ideologie linguistiche: lingue e dialetti nei media vecchi e nuovi / Les idéologies linguistiques : langues et dialectes dans les médias traditionnels et nouveaux / Ideologías lingüísticas: lenguas y dialectos en los medios de comunicacion antiguos y nuevos. Il volume, curato da Ana Pano Alamán, Fabio Ruggiano e Olivia Walsh, contiene una selezione di contributi presentati durante il convegno ILPE 4 a Messina: evento di cui ho uno splendido ricordo, fin dal viaggio di arrivo!
 
Come dice il titolo, il mio contributo è dedicato a presentare l’ideologia linguistica, implicita ed esplicita, di Wikipedia in lingua italiana, e le pratiche connesse. È un caso specifico di ideologia linguistica che mi sembra molto interessante, per varie ragioni. La più importante tra queste è, direi, il fatto che su Wikipedia una comunità composta sostanzialmente da non specialisti deve gestire questioni linguistiche complesse, spesso attraverso discussioni pubbliche. Ne risulta una serie di posizioni in gran parte di buon senso, anche se non sempre documentate o portate al livello ottimale di approfondimento.
 
Questa ideologia si manifesta innanzitutto nelle norme esplicite, codificate nel Manuale di stile di Wikipedia e in una moltitudine (o pulviscolo) di pagine di presentazione e di aiuto. Non sempre però le norme esplicite sono rispettate – secondo uno schema che su Wikipedia si ripresenta anche in molti altri ambiti. Esiste infatti un buon numero di norme implicite, che sembrano assimilate dai collaboratori più assidui soprattutto attraverso una lunga procedura di apprendistato.
 
In quanto alla sostanza, le soluzioni adottate nel loro assieme non presentano sorprese: sono legate al normale uso dell’italiano in ambito editoriale e scolastico. Presentano però alcune caratteristiche peculiari e una logica propria, che mi sembra interessante vedere in dettaglio. La gestione che ne risulta è molto sofisticata, ma al tempo stesso è condizionata dalla resistenza a fare riferimento esplicito a criteri già sviluppati all’esterno della comunità.
 
Mirko Tavosanis, L’ideologia linguistica e le pratiche di Wikipedia in lingua italiana, in Le ideologie linguistiche: lingue e dialetti nei media vecchi e nuovi / Les idéologies linguistiques : langues et dialectes dans les médias traditionnels et nouveaux / Ideologías lingüísticas: lenguas y dialectos en los medios de comunicacion antiguos y nuevos, a cura di Ana Pano Alamán, Fabio Ruggiano e Olivia Walsh, Berlino, Peter Lang, 2021, pp. 505, ISBN 978-3-631-83717-7, pp. 413-434. Copia ricevuta come autore.
 

martedì 24 agosto 2021

Fatland, Sovietistan


 
Copertina di Sovietistan di Erika Fatland
Dicevo di testo e immagini… un genere in cui la scelta mi sembra abbastanza libera è quello delle relazioni di viaggio.
 
Un esempio interessante è un libro che ho ricevuto come graditissimo regalo: Sovietistan, della norvegese Erika Fatland. Pubblicato in edizione originale nel 2014, il libro è il resoconto, come dice il sottotitolo di “Un viaggio in Asia Centrale”, tra le repubbliche ex sovietiche dell’area. Area in cui ho avuto anch’io occasione di andare, anche se meno sistematicamente, e che non sono riuscito a raccontare qui... posso comunque confrontare le mie esperienze con quelle descritte nell’ultima sezione del libro, che riguarda l’Uzbekistan (Nukus, Khiva, Bukhara, Samarcanda e Tashkent: pp. 425-518), mentre l’unico posto che ho visitato in Kazakistan, Shymkent, è sì menzionato anche qui, ma senza dettagli (alle pp. 178-180).
 
Il libro è bello, e si legge di corsa. Strutturalmente, ha le caratteristiche di una raccolta di articoli di giornale (anche se non mi pare che i contributi siano stati inizialmente pubblicati in quella forma). I capitoli iniziano quindi spesso con un attacco in medias res senza informazioni di contesto, per disorientare il lettore e attirare la sua curiosità immediata. La tecnica funziona, a parere di molti, negli articoli di giornale o simili; io ne sono un po’ meno convinto per quanto riguarda appunto i capitoli di un libro: nel caso di classici come Kaputt di Malaparte, per esempio, le soluzioni non sono altrettanto estreme.
 
I temi sono di conseguenza variatissimi, dalla storia dell’allestimento del Museo Savickij di Nukus (pp. 451-461) fino alle pratiche di falconeria turistica in Kirghizistan (pp. 375-385). Le visite usbeche riguardano una successione di mete turistiche ovvie (e l’Uzbekistan che ho conosciuto io è molto diverso: decisamente più vitale e spontaneo di quello descritto qui), mentre la sezione sul Turkmenistan descrive un luogo che ben pochi visitatori hanno visto. Soprattutto, c’è molta attenzione alla vita delle donne, con tutte le difficoltà che si possono incontrare in ambienti come quelli descritti!
 
In un racconto del genere, che ruolo possono avere le immagini? In questo libro non ce ne sono. O meglio, ci sono diverse cartine (una dell’area e una per ognuna delle cinque repubbliche attraversate), ma il livello di dettaglio è minimo. Anzi, in alcuni casi i caratteri dei pochi nomi presenti sulle cartine sono così piccoli da essere indecifrabili – specie quelli presentati in corsivo – e la disposizione a doppia pagina rende illeggibile ciò che si trova proprio sulla cucitura. Ma se ci fossero per esempio fotografie di buona qualità, il racconto ne uscirebbe migliorato o peggiorato?
 
Innanzitutto, non sembra opportuno, anche per ragioni di sicurezza, pubblicare per esempio la foto di Bekdury, una guida che esprime opinioni non del tutto positive sul regime del Turkmenistan (pp. 81-82); o quelle delle donne kirghise rapite e costrette a sposarsi che raccontano la propria storia in uno dei capitoli più drammatici e dolorosi (pp. 361-373). E in generale, in molti casi scattare foto distrugge la naturalezza di un dialogo. Il libro è bello e funziona in quanto tale. Non ha bisogno di immagini per raccontare la propria storia.
 
Credo però comunque che vedere qualche faccia e qualche luogo farebbe bene. Le parole sono potenti, ma anche le immagini lo sono. Nei racconti di viaggio che ho fatto, anche su questo blog, io ho sempre cercato di integrare i due canali usando le immagini soprattutto per dare la percezione generale di un ambiente. Una specie di ancora per l’immaginazione, insomma. Non è l’unica soluzione possibile, ma è quella che mi sembra più naturale.
 
Erika Fatland, Sovietistan. Un viaggio in Asia Centrale., Marsilio, Venezia e Milano, Feltrinelli, 2019, pp. 538, ISBN 978-88-297-0282-4 (traduzione di Eva Kampmann di Sovjetistan. En reise gjennom Turkmenistan, Kasakhstan, Tadsjikistan, Kirgisistan og Usbekistan, 2014). Ricevuto in regalo.
 

martedì 10 agosto 2021

Sobel e Andrewes, The Illustrated Longitude

  
 
Copertina di The Illustrated Longitude di Dava Sobel e William J. H. Andrewes
Tornando al rapporto tra testo e immagine… nei mesi scorsi ho letto anche The Illustrated Longitude di Dava Sobel e William J. H. Andrews. Il titolo e il doppio nome degli autori richiedono una spiegazione. The Illustrated Longitude è infatti la versione illustrata del libro Longitude (senza illustrazioni) di Dana Sobel, che ottenne una discreta popolarità al momento della sua uscita, nel 1995. La versione illustrata è stata pubblicata nel 1998, con la collaborazione di William J. H. Andrews e l’aggiunta di 180 immagini (questo è il numero dichiarato; non le ho contate, anche perché alcune sono presentate in varianti o duplicate, ma mi fido).
 
La pubblicazione di una versione illustrata ha senso. Non sono rari i casi in cui un testo praticamente chiede di avere immagini; eppure, le convenzioni editoriali e i problemi di costo e/o gestione dei diritti connessi fanno sì che molti testi abbiano meno immagini di quelle che molti lettori riterrebbero necessarie. E a monte, gli autori spesso non hanno cultura delle immagini, non sanno come fare a cercarle o sceglierle o riprodurle – e soprattutto, come usarle… Su problemi simili ragiono spesso a proposito di voci di Wikipedia. Nei prossimi giorni parlerò poi forse di un altro libro che non ha immagini ma che ne avrebbe vistosamente bisogno. Intanto, notiamo che, mentre si realizzano spesso edizioni di lusso con illustrazioni, casi come quello di Longitude, in cui le immagini sarebbero state necessarie fin dall’inizio, sono relativamente rari. Il testo di partenza, se ben capisco, includeva addirittura il confronto dettagliato di due ritratti di John Harrison… senza riprodurli. Un bell’atto di fede nel potere descrittivo delle parole – ma perché arrivare a questi punti?
 
Comunque, in entrambe le versioni Longitude racconta una storia interessantissima: quella dei tentativi di trovare un modo affidabile per determinare la longitudine. In un’era di GPS nei telefoni è difficile immaginarselo, ma fino alla fine del Settecento non esisteva un metodo affidabile per determinare la longitudine di una nave (o di un qualunque punto sul pianeta). Determinare la latitudine era relativamente semplice… bastava e basta misurare con precisione l’altezza del Sole nel punto più alto del suo percorso, a mezzogiorno… ma per la longitudine non esisteva nulla di equivalente.
 
Con questo rompicapo si misurarono alcuni dei principali matematici e astronomi dell’età moderna, da Galileo a Flamsteed. Tuttavia, una vera soluzione pratica arrivò solo nel Settecento, e da una via inaspettata: non attraverso calcoli matematici sui movimenti celesti (che comunque furono perfezionati in contemporanea), ma con la realizzazione di orologi tanto precisi e affidabili da permettere di capire con sicurezza quanto la nave si era allontanata dal meridiano di riferimento. A sviluppare simili meccanismi fu l’inglese John Harrison a metà Settecento, con un’impresa che richiese lunghi anni di lavoro – e anni ancora più lunghi per far riconoscere la bontà del sistema e ottenere la ricompensa messa in palio dal governo britannico per chi avesse risolto il problema della longitudine.
 
Ora, nel raccontare questa storia affascinante, Dana Sobel si concentra soprattutto sulle vicende umane… anche con diverse libertà rispetto a ricostruzioni storiche rigorose (per esempio, nel raccontare alle pp. 15-17 il disastro navale delle isole Scilly del 1707 vengono riportate come verità storie di dubbia origine). In fin dei conti, si tratta di un testo divulgativo, non di una sintesi scientifica! E qui le parole sono sufficienti.
 
L’orologio H-4 di Harrison, a p. 131

L’orologio H-4 di Harrison, a p. 131.

Anche la parte sui più antichi tentativi astronomici di risolvere il problema mi sembra funzionale. La spiegazione dei ragionamenti di Galileo e di Roemer, per esempio, mi sembra ben comprensibile per molti lettori senza bisogno di immagini (anche se indubbiamente le immagini aiutano).
 
Il racconto invece diventa meno chiaro quando si inizia a parlare di meccanica, e in particolare degli orologi di Harrison. Qui le indicazioni sono spesso tanto generiche da generare un po’ di frustrazione. Per esempio, a p. 86 si citano due importanti innovazioni di Harrison, il pendolo a griglia e lo scappamento a cavalletta. Solo per la prima, però, viene data una spiegazione minimamente approfondita. Per la seconda viene fornito un testo che spiega l’origine del nome ma che non chiarisce assolutamente niente del modo in cui funzionava il meccanismo:
 
The grasshopper escapement – the part that counted the heartbeats of the clock’s pacemaker – took its name from the motion of its crisscrossed components. These kicked like the hind legs of a leaping insect, quietly and without the friction that bedeviled existing escapement design (p. 88).
 
Oppure, il funzionamento del quadrante di Hadley viene descritto in questo modo:
 
thanks to a trick done with paired mirrors, the new reflecting quadrant allowed direct measurement of the elevation of two celestial bodies, as well as the distances between them. Even if the ship pitched and rolled, the objects in the navigator’s sights retained their relative positions vis-à-vis one another (p. 109).
 
Tutto bene, ma in che cosa consisteva il trick? Non viene fornita nessuna informazione. Certo, gli autori di un libro possono scegliere il livello di approfondimento che desiderano – ma in questo caso si ha la sensazione che manchi proprio qualcosa di centrale.
 
E qui entrano in gioco le immagini. Io farei rientrare quelle dell’edizione illustrata in tre tipologie diverse:
  1. Immagini quasi solo ornamentali (come la statua di Atlante al Rockefeller Center a New York a p. viii) 
  2. Immagini, e sono la maggioranza, che corredano il testo mostrando visivamente protagonisti, luoghi, eventi e oggetti descritti a parole (come il capolavoro di Harrison, l’orologio H-4 del 1759, presentato a dimensioni naturali a p. 131); va aggiunto che le didascalie, realizzate da Andrewes, includono spesso spiegazioni aggiuntive articolate e complesse 
  3. Immagini (inclusi grafici e simili) che, anche in questo caso con l’assistenza delle didascalie, aggiungono al testo informazioni e spiegazioni del tutto assenti nell’originale (come il diagramma presentato a p. 88, che mostra appunto l’aspetto e il funzionamento dello scappamento a cavalletta - anche se nemmeno questa illustrazione riesce a far capire fino in fondo il modo in cui funziona il meccanismo).
La selezione delle immagini è comunque, nel suo complesso, impressionante per estensione e qualità. Di sicuro, il testo che ne viene fuori è molto più completo e più soddisfacente della presentazione fatta solo a parole.

Il diagramma di p. 88 che illustra il funzionamento dello scappamento a cavalletta

Il diagramma di p. 88 che illustra il funzionamento dello scappamento a cavalletta.
 
Tuttavia, a parte alcune immagini schematiche realizzate appositamente, l’apparato iconografico privilegia di gran lunga l’effetto estetico rispetto alla chiarezza. Per esempio, ci sono fotografie che presentano oggetti complessi, ma senza evidenziazioni, indicazioni, frecce che indichino i componenti e così via. Quindi, per esempio, a p. 104 una foto dell’orologio H-2 di Harrison viene accompagnata da una didascalia che dice: “This side view of H-2 shows the remontoire, a device that Harrison designed to provide a more constant source of power to the escapment”. Sì, ma non solo il lettore non viene informato del modo in cui funziona esattamente il remontoire, ma non ha nemmeno modo di capire quale parte del complesso meccanismo in foto è il remontoire. Qualcuno lo può capire da questa foto?

L'orologio H-2 presentato a p. 104

Lorologio H-2 presentato a p. 104.

Oppure: alla p. 139 si presenta un diagramma d’epoca che descrive il transito di Venere davanti al Sole, ma la didascalia che lo spiega è presentata, per ragioni estetiche, a p. 138, cosa che rende difficile seguire con l’occhio il collegamento tra un elemento del diagramma e la spiegazione – e, soprattutto, le dimensioni della riproduzione sono tali da rendere troppo piccole (almeno per me) le lettere che indicano i punti di riferimento in una parte dello schema.
 
Insomma, sia il testo sia le immagini si fermano all’inizio di un lungo percorso di spiegazione. In parte la cosa è inevitabile (le questioni trattate sono spesso complesse). Tuttavia, in molti punti sarebbe stato non solo possibile, ma facile, fare diversamente. Un libro divulgativo illustrato può essere più approfondito di così, senza alienare il pubblico cui si rivolge? Io darei una risposta positiva e avrei spinto il punto di equilibrio diversi passi più in là.
 
Dava Sobel e William J. H. Andrewes, The Illustrated Longitude. The True Story of a Lone Genius Who Solved the Greatest Scientific Problem of His Time, New York, Walker and Company, 1998, ISBN 0-8027-1344-0, pp. 216. Comprato usato (copia già delle Josephine Community Libraries di Grants Pass, Oregon.
 

giovedì 5 agosto 2021

Ágoston, Guns for the Sultan


Dopo il libro di Andrade di cui ho parlato la settimana scorsa ho letto anche Guns for the Sultan di Gábor Ágoston. Sottotitolo: Military Power and the Weapons Industry in the Ottoman Empire. Lettura interessante e con un risvolto linguistico preciso.
 
Anche questo libro (uscito nel 2005) si colloca nel filone di studi storici che collocano molto tardi la “grande divergenza” tra Europa e resto del mondo. Lo fa però da un’angolazione particolare, in quanto è ben noto che, sul piano militare, l’Impero Ottomano è stato sempre in grado di confrontarsi con le potenze europee. Per tre secoli, in sostanza, vincendo: dalla conquista dei Dardanelli fino alla sconfitta alle porte di Vienna, nel 1683. E poi, per due secoli e mezzo, perdendo… ma non senza numerosi momenti di successo, fino alle disastrose sconfitte inflitte all’Impero Britannico nel corso della Prima guerra mondiale.
 
In ogni caso, per il periodo che oggi mi interessa di più, cioè il Seicento, sul piano militare gli ottomani si mostrarono di regola superiori agli europei. Un po’ per la loro capacità organizzativa e logistica, e un po’ anche per l’uso esperto delle armi da fuoco. Ciononostante, la storiografia è stata costellata di
tentativi di ridimensionare queste capacità, assegnando agli ottomani un ruolo minore, arretrato, non innovativo.
 
A queste posizioni Ágoston oppone lo studio delle fonti ottomane, da cui escono i dati numerici per 31 tabelle inserite nel testo e 69 collocate in appendice. Gli argomenti coperti sono molto vari: stime sulle produzioni annuali di salnitro e polvere da sparo, sul numero dei giannizzeri in servizio, sulla produzione di singole fonderie di cannoni… Una ricostruzione quantitativa così dettagliata smentisce, secondo l’autore, diverse leggende: che l’Impero Ottomano non fosse in grado per esempio di produrre al proprio interno armi in quantità sufficiente ai propri bisogni; che le armi ottomane fossero di scarsa qualità; che i processi lavorativi fossero meno efficienti di quelli europei; e così via. In particolare, fino al Seicento il complesso militar-industriale ottomano se la giocava alla pari con quello veneziano – a sua volta, probabilmente il più efficiente d’Europa.
 
Mi interessano molto anche le osservazioni di Ágoston sugli errori di prospettiva generati dall’uso come unica fonte delle relazioni di viaggio d’epoca. Nelle parole dell’autore, “assumptions regarding Ottoman weapons technology have been based on random and often atypical evidence without respect for chronology”, cosa avvenuta “Following contemporary narrative sources’ obsession with giant Ottoman cannons” (p. 61). In altre parole, i viaggiatori europei rimanevano colpiti dai pezzi di artiglieria di maggiori dimensioni. Dai loro racconti passò agli storici l’idea, ripresa anche da Carlo Maria Cipolla, che gli ottomani in fatto di artiglieria fossero afflitti da gigantismo, e che impiegassero le loro risorse in armi enormi ma poco pratiche, a differenza di quel che accadeva in Europa. Esaminando la produzione degli arsenali, Ágoston mostra che non era così e che la distribuzione di armi di vario calibro non era probabilmente molto diversa da quella europea (capitolo 6).
 
Tuttavia, è anche certo che il trasferimento di informazioni tecniche andava in una direzione sola: non ci sono innovazioni tecnologiche ottomane che siano arrivate in Europa, perché non c’erano alla base. E lo testimonia, appunto, anche il fattore linguistico: “many of the gun names in the Empire derived from European types of guns, an apparent sign of acculturation”, anche se “Ottoma pieces differed from guns of similar names, and these differences seem to have been more profound than dissimilarities among European guns of the same kind” (p. 64): quest’ultimo punto a testimonianza che un po’ di differenziazione c’era (l’autore insiste per esempio sulla minor standardizzazione dei calibri ottomani rispetto a quelli europei).
 
In pratica, i nomi normalmente dati ai pezzi di artiglieria più grandi, genericamente chiamati kale-kob (dal persiano qal’eh-kub, ‘distruttori di castelli’: p. 73), erano (con numerose varianti): şayka, balyemez, bacaluşka, canon (p. 74). Tra questi, şayka viene dalla parola “slava” chaika, ‘gabbiano’ (p. 75); balyemez è parola di origine incerta (p. 77); e gli altri due sono “europeismi” di varia trafila (pp. 79-81; su questi si può vedere anche il famoso lavoro dei Kahane sulla “lingua franca”, che con la lingua franca non ha a che fare, ma con gli italianismi sì…).
 
I pazzi di artiglieria di medio e piccolo calibro erano invece kolunburna, darbzen, şâhî. I più piccoli in assoluto erano saçma, eynek, prangıs, misket e şakaloz. Il celebre moschetto dei giannizzeri era invece chiamato tüfenk. Ágoston non fornisce informazioni su tutte queste parole, ma dal punto di vista linguistico è ovvio il rapporto di kolunburna con l’europeismo colubrina, mentre şakaloz deriva dall’ungherese szakállas (p. 87). Viceversa, è altrettanto ovvio che nessuna parola turca è entrata nell’italiano (o in altre lingue romanze).
 
Basandosi anche su queste osservazioni, Ágoston nota che la parità tecnologica ottomana si basava in sostanza su un flusso unidirezionale:
 
For the most part European-Ottoman military acculturation involved European military experts who sold their expertise to the Ottomans and not vice versa. Linguistic evidence also supports this observation: Ottoman names for weapons and ships often come from Greek or from western languages, suggesting that ordnance and naval technology primarily flowed from Byzantium and Europe to the Ottomans. The Ottomans thus do not differ from their opponents in the use of foreigners. Where they do differ is that their indigenous experts do not seem to have been in much demand in the West (p. 193; Ágoston nota che gli specialisti ottomani erano comunque molto richiesti nel Medio oriente e in generale in Asia).
 
La parità ottomana non era quindi basata sulla superiorità tecnica in questo specifico settore, ma sull’efficienza in altre aree. Ágoston si allontana esplicitamente sia dal determinismo tecnologico sia dall’idea che la tecnologia fosse irrilevante (p. 190): per gli ottomani, disporre di armi e munizioni di qualità mediamente simile a quella europea, anche con i ritardi dovuti ai tempi del trasferimento tecnologico, era evidentemente sufficiente. La fine della superiorità ottomana a fine Seicento viene quindi attribuita non all’adozione europea di baionette e moschetti a pietra focaia, ma al fatto che nel frattempo gli stati europei erano finalmente divenuti capaci di mettere in campo eserciti comparabili a quelli ottomani, rifornirsi di armi senza problemi, e in generale avevano rinforzato “production capacity, finance, bureucracy, scientific engineering and state patronage” (p. 201). E anche così, all’inizio del Settecento gli ottomani riuscirono rapidamente a riorganizzarsi e a ritornare a vincere… fino all’ascesa della Russia a metà secolo.
 
Gábor Ágoston , Guns for the Sultan. Military Power and the Weapos Industry in the Ottoman Empire, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 2016, ISBN 978-0-521-60391-1, pp. xvii + 277. Letto nella copia della Biblioteca di Filosofia e Storia dell’Università di Pisa.
 

giovedì 29 luglio 2021

Andrade, The Gunpowder Age

 
 
Copertina di Tonio Andrade, The Gunpowder Age
Il libro di Tonio Andrade The Gunpowder Age sembra a prima vista molto lontano dai miei interessi normali: la scrittura, la linguistica italiana, la comunicazione elettronica … In realtà, però, si incrocia con alcuni lavori in corso per diversi aspetti importanti: l’importanza della narrazione nella presentazione di informazioni, il rapporto tra testo e immagine, i rapporti tra Asia ed Europa nel Seicento… Per questo motivo ho preso appunti diffusi. 
 
Il libro racconta la diffusione della polvere da sparo confrontando ciò che avvenne in Cina e in Europa durante il periodo in cui questa tecnologia fu importante, dal Medioevo all’Ottocento. Potrebbe sembrare un argomento logoro! Ma la realtà è che questa storia ancora oggi viene spesso raccontata ripetendo luoghi comuni vecchi di secoli e approssimazioni. Rivedere il quadro a mente fresca è importante e permette anche di ripensare situazioni simili.

La scelta degli argomenti e la narrazione

  
La storia della polvere da sparo viene raccontata da Andrade in ordine cronologico, partendo dalla sua invenzione in Cina. Il racconto descrive poi la diffusione di questa tecnologia in Europa dopo il 1320 e l’arco cronologico si chiude con una specie di rimpatrio: il primo confronto diretto tra gli armamenti cinesi e i loro discendenti europei due secoli più tardi, a partire dal 1511, con l’arrivo dei portoghesi in Oriente. Da qui in poi la trattazione diventa molto più selettiva: non ha più scala globale ma si concentra sulle occasioni di conflitto tra europei e cinesi, mostrando come a un’epoca di conflitti in condizione di “parità” nel Seicento facesse seguito un lungo periodo di pace nel Settecento. Dopodiché, alla riapertura delle ostilità nell’Ottocento, la superiorità occidentale nell’uso degli armamenti era divenuta schiacciante e – fino a oggi – incolmabile.
 
Dei dettagli di contenuto parlerò più avanti. Diciamo però subito che questa impostazione ha l’enorme vantaggio di permettere un racconto coerente, in ordine sostanzialmente cronologico, al servizio dell’argomentazione dell’autore. I diversi capitoli trattano argomenti molto diversi tra di loro, ma sono ben inseriti in un percorso narrativo compatto che, penso, piacerebbe molto a chi come Gino Roncaglia insiste molto sull’importanza della complessità nell’età della frammentazione
 
La quarta di copertina del libro riporta un entusiastico giudizio di Jared Diamond, che definisce l’opera “as exciting, dramatic, and engaging as a novel”. Smorzerei un pochino i toni, ma sottoscriverei la sostanza. Anche se una buona revisione potrebbe togliere alcune ripetizioni e alcuni effetti retorici un po’ troppo facili, è vero che la struttura data al libro consente di leggerlo “come un romanzo”.

I contenuti in dettaglio

 
Come anticipato, il libro parte dalle origini, raccontando ciò che si sa sullo sviluppo, graduale e lento, della polvere da sparo in Cina, incluse le sue applicazioni militari. E qui, i nomi in uso oggi ingannano, suggerendo una continuità che non esiste. Per esempio, poiché le prime formulazioni avevano dei tempi di combustione relativamente lunghi, la polvere da sparo degli esordi veniva di regola usata come semplice sostanza incendiaria, non come esplosivo.
 
Agli inizi del XII secolo le guerre tra i Song e i Jin portarono però allo sviluppo di armi più efficienti, incluse le famose “lance di fuoco” e le bombe in ferro. Nemmeno queste erano però simili alle armi da fuoco in senso moderno. Le “lance di fuoco”, per esempio, usate da Chen Gui durante l’assedio di De’an nel 1132 (pp. 35-39), erano lance a cui venga agganciato un tubo con polvere da sparo. All’accensione, dal tubo usciva una fiammata che in alcuni casi veniva usata anche per scagliare pietre, con forza ridotta a distanze non tanto grandi (più che vere pallottole, le pietre erano “coviativi”, secondo una definizione di Joseph Needham: p. 51).
 
Il passo successivo fu quello di usare canne in metallo, in cui potevano essere infilati proiettili di diametro simile a quello dell’apertura. Questa soluzione permetteva di trasferire molta più energia al proiettile, e il meccanismo inizia ad assomigliare alle armi dei secoli successivi. Il primo esemplare databile con sicurezza di un’arma da fuoco in metallo  risale al 1298 ed è stato trovato nelle rovine di Xanadu, ma altri reperti potrebbero essere anteriori di alcuni decenni (p. 53). Alla metà del Trecento, i Ming usavano regolarmente armi da fuoco di questo tipo, relativamente piccole e concepite solo per l’uso contro la fanteria.
 
In parallelo, però, negli anni Venti del Trecento, le armi da fuoco erano già arrivate in Europa, in forme inizialmente simili a quelle cinesi. La rapidità di questa diffusione, molto superiore a quella di tecnologie come la bussola o la carta, colpisce, così come colpisce il fatto che le altre civiltà asiatiche non vedessero niente di simile. La situazione è sorprendentemente simile a quella della stampa, centocinquant’anni più tardi, e in entrambi i casi rimane la vaga possibilità che quelle europee siano state invenzioni del tutto indipendenti: ma su questi argomenti fa ancora testo Paper and printing di Tsien Tsuen-Hsuin

Comunque, non è chiarissimo che aspetto avessero le prime armi da fuoco europee: i primi esemplari conservati risalgono a fine Trecento, le descrizioni a parole (come quella di Petrarca citata da Andrade) sono confuse e i disegni pochi. Apparentemente, erano attrezzi simili a quelli cinesi:  “cannoncini” di piccole dimensioni, simili a pentole robuste, oppure armi collocate su pali e simili alle “lance di fuoco”.
 
In Europa però a questo punto ci fu un’evoluzione rapida, che portò alla nascita di armi di grandi dimensioni: una vera artiglieria, molto diversa da tutto ciò che era stato creato in Cina. A stimolare la trasformazione, secondo Andrade, fu un fattore esterno. Le città e le fortezze cinesi avevano mura di terra, robustissime, e a nessuna persona ragionevole poteva venire in mente di sviluppare armi da fuoco capaci di abbatterle. In Europa però le mura erano sottili… come quelle che a Pisa devo attraversare ogni giorno per andare in Dipartimento. Ciò rendeva concepibile sviluppare armi in grado di abbattere le mura, oltre che uccidere gli esseri umani, e nella ricostruzione di Andrade ciò è appunto quanto accadde a fine Trecento nel ducato di Borgogna (p. 88). Lo sviluppo successivo fu rapido: attorno al 1480 i grossi cannoni europei – e turchi – avevano già preso l’aspetto che conservarono fino all’Ottocento: armi con canne molto lunghe rispetto al diametro della bocca, che sparavano proiettili in ferro (p. 105).
 
Questi cannoni “classici” (p. 106) si rivelarono efficienti nel fare a pezzi non solo le vecchie fortezze (come in Italia mostrò bene l’arrivo di Enrico VIII) ma anche, imbarcati dai portoghesi, le navi nemiche. I cinesi, nel frattempo, non avevano sviluppato nulla di simile. Per questa divergenza, in aggiunta alla diversa natura delle difese, Andrade propone una spiegazione semplice. La seconda metà del Quattrocento era stata infatti un periodo relativamente pacifico per la Cina (e, aggiungo, per l’Italia), ma non per l’Europa settentrionale. Lì i conflitti avevano dato la spinta giusta al momento giusto.
 
I frutti della divergenza divennero valutabili nel più concreto dei modi nel giro di pochi decenni: nel 1511 gli europei, e più precisamente i portoghesi, arrivarono per la prima volta in Cina via mare, portandosi dietro appunto i cannoni “classici”. L’accoglienza cinese fu assai più interessata di quanto oggi tipicamente si ritiene: i cannoni europei furono subito individuati come una novità di rilievo, degna di imitazione. Nel 1521, grazie alla propria artiglieria, una piccola flotta portoghese ottenne un’insperata vittoria su una più numerosa flotta cinese nell’estuario del Fiume delle Perle. Già nel 1522, però, i cinesi ottennero una rivincita, anche grazie alle proprie armi da fuoco rapidamente migliorate (pp. 124-131).
 
Questi episodi introducono la terza parte del libro, An Age of Parity. Il titolo stesso fa capire che Andrade condivide un’idea presentata da diversi storici contemporanei, tra cui il Pomeranz di cui parlavo giusto dieci anni fa. In sostanza, la superiorità europea di questo periodo sarebbe un’illusione ottica creata dal senno di poi: fino al Settecento, le grandi società dell’Asia si misuravano alla pari con gli europei. E, avendo letto negli ultimi anni un bel po’ di relazioni di viaggio del periodo, anch’io mi sento propenso a concordare.
 
In ogni caso, i  luoghi comuni sul disinteresse dello stato cinese per gli sviluppi tecnologici sembrano, appunto, solo luoghi comuni. L’uso delle fonti cinesi, e in particolare delle storie Ming, mostra che i primi scontri armati produssero un vivo interesse dei letterati verso le novità occidentali. Un alto funzionario confuciano, Wang Hong, per esempio, propose immediatamente di usare i cannoni di modello portoghese per difendere la Grande Muraglia (p. 136). In poco tempo, “The Frankish cannon was, in effect, nativized to China, and (…) the term folangji, or ‘Frankish cannon,’ remained in use, a testament to Confucian bureucrats’ willingness to adopt foreign technologies” (p. 143).
 
A questo punto inizia uno dei blocchi più consistenti del libro, in cui l’autore lascia da parte l’artiglieria e si dedica alle armi da fuoco individuali. Il capitolo 11 spiega il modo in cui, in fanteria, le armi da fuoco divennero particolarmente efficienti quando fu trovato il modo per impiegarle nel “fuoco di fila”. In altri termini, quando i soldati, invece di sparare tutti assieme con le armi individuali e poi passare un tempo lunghissimo a ricaricare, venivano divisi in file che si davano il cambio, con un gruppo che sparava mentre altri gruppi ricaricavano. Questo evitava lunghe pause nel fuoco e permetteva quindi di tenere a distanza i nemici. In Europa, la tecnica venne apparentemente sviluppata nel corso del Cinquecento e nel corso della guerra dei Trent’anni contribuì alla fine del predominio dei tercios spagnoli di cui ho parlato il mese scorso; ma in Cina era stata sviluppata già prima della diffusione delle armi da fuoco, per il tiro con balestre, e fu facile adattare il modello all’uso del moschetto moderno.



Il fuoco di fila dei moschettieri Ming, di Yprpyqp - Opera propria, dal manuale di Bi Maokang, 1639, CC BY-SA 4.0, 
 
In ogni caso, nel Seicento cinesi, giapponesi e coreani adottarono entusiasticamente prima l’archibugio e poi il moschetto di tipo europeo (il Giappone poi proibì le armi da fuoco nella lunga pace dei Tokugawa). Per tutto il Seicento, questo produsse una parità militare con gli occidentali, che potevano contare su due soli vantaggi tecnologici privi di equivalenti asiatici: le navi da guerra (capitolo 14) e le fortezze di tipo italiano (capitolo 15), quasi impossibili da attaccare per un nemico impreparato. Gli scontri potevano quindi finire in un modo o nell’altro: se i cinesi si dimostrarono incapaci di tener i russi lontani dai propri confini, riuscirono però a riprendere Taiwan agli olandesi nel 1662.
 
La parità venne poi persa, gradualmente, nel Settecento. Per quale ragione? Secondo Andrade, di nuovo la più semplice: mentre gli europei continuarono a combattere tra di loro per tutto il secolo, in Cina e in Giappone ci furono lunghissimi periodi di pace. In particolare, durante la lunga pace dei Qing, tra il 1760 e il 1839, gli eserciti cinesi persero per mancanza di allenamento e motivazione quasi tutta la loro capacità bellica: gli esercizi rimanevano puramente formali e le spade arrugginivano nei foderi. Durante la Prima guerra dell’oppio il dislivello divenne quindi evidente in tutta la sua drammaticità: questo è il tema della quarta parte del libro, The Great Military Divergence (che ricollega la questione militare a quella della “grande divergenza” in generale).
 
Cosa interessante, Andrade attribuisce buona parte della divergenza, già nel Settecento, non solo allo sviluppo sociale e tecnologico ma anche a quello scientifico. In connessione con tutto il resto, certo… ma vale la pena citare qui le conclusioni dell’autore:
 
I came to believe during the writing of this book that one extra-military factor in particular played a vital role in the Great Military Divergence. I used to teach, in my lectures in Chinese history, that arguments about a lack of Chinese science in the Ming and Qing period were overwrought, that indigenous discourses such as the kaozheng school of evidentiary research were analogous to Western science, and that people have been too quick to discount the many writings on nature within the sea of Chinese thought. Certainly there’s still a tendency to underrate the dynamism of intellectual life in Late Imperial China, but today I find myself agreeing with China specialist Mark Elvin, who writes of his own conversion to the view that “something dramatic” was happening in Europe in the seventeenth century (p. 303).
 
Qui non posso che concordare anch’io, forse anche per amor di patria: la scienza galileiana non aveva semplicemente equivalenti nel mondo! E dal punto di vista pratico, leggiucchiando in giro, diventa evidente quanto i miglioramenti graduali ma sistematici nelle tecniche delle armi da fuoco e nel modo di adoperarle si accumularono in questo periodo, anche se visivamente l’aspetto esterno delle armi cambiò poco. Il pendolo balistico inventato nella prima metà del Settecento da Benjamin Robins permise per la prima volta di calcolare con precisione la velocità dei proiettili d’artiglieria e di individuare il ruolo della resistenza dell’aria, portando alla realizzazione di armi molto più pratiche e precise. Da metà Settecento, innovazioni razionali come le carronate diedero il via a una rincorsa alle prestazioni che oggi può risultare invisibile a chi oggi vede nei cortili dei musei pezzi apparentemente tutti simili gli uni agli altri. Pur cambiando poco all’esterno, i cannoni divennero più maneggevoli, si misero a sparare con più efficienza e si fecero molto più micidiali. Nelle parole di Andrade:
 
The British artillerists who fought in the Opium War were able to use ballistics models that took into account the expansion of gas in the gunpowder reaction, the loss of pressure due to the leaking of gas through touchholes and past projectiles, and the effects of wind resistance. The Qing gunners had no such resources (p. 251).
 
Questo significava, in pratica, che i britannici potevano affondare navi, demolire forti e sterminare la fanteria nemica da lontano e in tutta calma. A Ningbo, un centinaio di inglesi riuscì a respingere un attacco di migliaia di soldati Qing, sterminandoli.

Lo shock della Prima guerra dell’oppio portò, beninteso, a un notevole investimento cinese nell’acquisizione dei sistemi europei: cannoni, navi a vapore, nuove tecniche di addestramento. Alla fine dell’Ottocento, la Cina si era da molti punti di vista più “occidentalizzata” del Giappone. Ma le circostanze erano critiche: dalla prima alla seconda guerra dell’oppio, dalla ribellione dei Tai Ping fino a quella dei Boxer, la storia cinese fu una catena di catastrofi ben oltre l’uscita di scena della polvere da sparo come arma da guerra, sostituita da prodotti più efficienti. 

Testo e immagini

 
Il libro di Andrade include molte immagini al servizio del testo: fotografie, ma anche miniature e disegni d’epoca, europei e cinesi. L’importanza di queste immagini per la chiarezza dell’esposizione è evidente. Le illustrazioni delle pagine 80 e 81, per esempio, mostrano rispettivamente una foto del trecentesco cannone di Loshult e una miniatura quattrocentesca di un’arma da fuoco europea simile alle “lance di fuoco”. Queste riproduzioni fanno capire con assoluta chiarezza quanto le armi da fuoco europee del Medioevo fossero diverse da quelle dei periodi successivi, e dall’immaginario comune. Descrivere le stesse differenze a parole, con la stessa incisività, è davvero difficile!
 
Inoltre, le immagini stesse sono fonti primarie. Per esempio, parlando del “fuoco di fila”, le semplici testimonianze scritte d’epoca rendono in diverse occasioni impossibile capire se ciò di cui si parla era un vero “fuoco di fila” o no. Viceversa, lo schema di movimento fornito in una lettera di Gugliemo di Nassau a suo cugino Maurizio nel 1594 presenta con chiarezza la tecnica sperimentale descritta nel testo, permettendo di capire che si tratta di un vero “fuoco di fila”. Le immagini che descrivono il comportamento dei balestrieri e moschettieri Ming nel Jun qi tu shuo di Bi Maokang sono altrettanto importanti nel mostrare che la tecnica descritta era un vero “fuoco di fila”. E così via.
 
Chi poi è interessato ad approfondire questo specifico problema dal punto di vista tecnico può farlo per esempio sulla voce di Wikipedia in lingua inglese dedicata al fuoco di fila, che si basa quasi per intero appunto su questo libro, riproducendo molte delle immagini chiave (su Wikipedia in lingua italiana non esiste nemmeno una voce dedicata al “fuoco di fila”, e in generale tutte le voci su argomenti simili sono di scarsa qualità).

Il messaggio finale

 
In sintesi, mi sono sentito in estrema sintonia con l’impostazione di questo libro. Il senno di poi inganna. Le grandi generalizzazioni ingannano. Le storie che tutti conoscono non sempre sono quelle corrette. E dettagli in apparenza secondari possono cambiare completamente l’utilità di una tecnologia o la situazione sociale.
 
Il senno di poi inganna soprattutto nel Seicento: un’epoca in cui il mondo era già connesso, ma in modo parziale e senza centri di dominio assoluto. Questo è ciò che rende il periodo particolarmente interessante oggi… e, come spero di mostrare nel prossimo futuro, è qualcosa di cui si deve tener conto anche parlando delle lingue in generale, e della lingua italiana in particolare.
 
Tonio Andrade, The Gunpowder Age. China, Military Innovation, and the Rise of the West in World History, Princeton, Princeton University Press, 2016, ISBN 978-0-691-13597-7, pp. ix + 432. Letto nella copia della Biblioteca di Economia dell’Università di Pisa.
 

sabato 19 giugno 2021

Bru, Los tercios


Lo scontro di Bergen op Zoom (Bru, Los tercios, p. 116)
Avevo detto diversi mesi fa che volevo parlare di alcune interazioni tra scrittura e immagine. Anche quel proposito, come tanti altri nell’ultimo anno e mezzo, è poi rimasto sospeso, per la situazione ben nota a tutti. A me è andata meglio che a molti altri, certo... ma di sicuro, fino a oggi sono riuscito a malapena a gestire le emergenze di lavoro, e anche la carta si è accumulata.
 
Iniziando a fare ordine, da una pila di fogli ho estratto un libro fotografico che ho comprato giusto un anno fa, appena è uscito: Los tercios di Jordi Bru e Àlex Claramunt. L’argomento può lasciare qualche dubbio. Com’è possibile, in effetti, che esista un libro fotografico sui tercios? Chi è in grado di ricollegare il nome a qualcosa (non molti, credo, in Italia) sa che i tercios erano unità militari dell’esercito imperiale e spagnolo dell’età moderna. In quanto tali, presero forma tra Quattro e Cinquecento basandosi, oltre che sul professionismo, su un’innovativa combinazione di picche e di armi da fuoco. Il sistema trionfò alla Bicocca e a Pavia, e per più di un secolo i tercios dominarono i campi di battaglia europei. Entrarono in (lenta) crisi solo dopo Rocroi, nel 1643, con graduale la messa a punto della tecnica di fuoco di fila con il moschetto e la sostituzione delle picche con baionette: gli ultimi reparti organizzati nel modo tradizionale furono sciolti agli inizi del Settecento.
 
Come si fa allora a realizzare un libro fotografico a proposito di una struttura militare scomparsa da secoli? Un film storico potrebbe permettersi un cospicuo investimento in costumi e comparse, ma i libri non hanno accesso a bilanci simili. Jordi Bru ha invece fatto ricorso a due risorse: i rievocatori storici e Photoshop.
 
Moschettieri (Bru, Los tercios, p. 12)

Il primo aspetto è quello più spettacolare. In Europa oggi sono numerose le rievocazioni storiche di alto profilo, e molte di esse riguardano il Seicento. Le foto del libro sono state quindi scattate durante rievocazioni tenute in varie località della Spagna e, soprattutto, durante la biennale Slag am Grolle di Groenlo in Olanda, che rievoca uno scontro del 1627 (l’edizione che avrebbe dovuto tenersi nel 2021 è stata rinviata all’ottobre 2022 a causa della pandemia; Bru si è potuto però basare su quelle del 2017 e del 2019). Bru, la cui attività si può seguire anche su Instagram, ha consolidato un rapporto con queste manifestazioni e oggi realizza regolarmente, vedo, immagini e manifesti – per loro e per le forze armate spagnole. 
 
L’altro aspetto è Photoshop. La procedura con cui le immagini vengono ritoccate, riempite di personaggi e rese più drammatiche è descritta in dettaglio alle pp. 138-140, che mostrano i sei stadi attraverso cui Bru è arrivato all’immagine riportata qui. Il lavoro non è sempre perfetto (per esempio, i piedi dei soldati in marcia nell’immagine presentata alle pp. 74-75 sono ben poco integrati con lo sfondo originale), ma il risultato è comunque singolare e di forte impatto. Il modello più diretto sono le scene di battaglia della pittura moderna, a cominciare da quelle di Augusto Ferrer-Dalmau (la scena di Rocroi presentata nel libro alle pp. 132-133 è direttamente modellata sul dipinto Rocroi, el último tercio, per esempio), che a loro volta si portano dietro una storia plurisecolare.
 
In totale, il volume include 27 immagini che presentano in toni drammatici vari periodi della storia dei tercios e varie attività. Ogni immagine è accompagnata da qualche pagina di commento di Àlex Claramunt: testi un po’ dispersivi e frammentati, ma che comunque forniscono un contesto a quelle che altrimenti sarebbero immagini scollegate.
 
Come mai un lavoro del genere, al di là anche delle piccole imperfezioni, colpisce e coinvolge? Difficile dirlo. Per me, però, direi che, semplicemente, le foto avvicinano molto più di quanto non possano fare i dipinti d’epoca, o i film in costume. In questo momento io sto lavorando molto con il Seicento, e qui ho ritrovato situazioni e climi familiari. Ma tutto il periodo storico oggi forse è più vicino di quello che poteva sembrare fino a qualche tempo fa…
 
Jordi Bru, Los tercios, con testi di Àlex Claramunt, Madrid, Desperta Ferro, 2020, ISBN 978-84-120798-7-6, pp. 140. Comprato a € 24.95 su Amazon.
 

venerdì 26 febbraio 2021

McCurry, On reading




Dettaglio di un'immagine a pagina 81 di On reading: Bursa (Brussa) in Turchia
L’anno scorso, un ordine fatto da tempo mi è arrivato in uno dei periodi peggiori dell’isolamento: una copia usata e un po’ ammaccata del libro fotografico On reading di Steve McCurry. Un libro meraviglioso, che consiglio caldamente a tutti.
 
Il tema delle fotografie del libro è ben definito: esseri umani impegnati nella lettura (solo in un caso, a p. 1, nell’inquadratura non ci sono esseri umani). Tuttavia, i soggetti spaziano su entrambi i sessi e tutta la gamma possibile di età, e soprattutto provengono da una varietà di contesti culturali, spesso ben poco familiari al pubblico occidentale. I lettori fotografati includono quindi, accanto a turisti e venditori italiani, ragazzi che si appoggiano ad elefanti in Thailandia, monaci tibetani, scolari africani, e così via, per decine e decine di variazioni. Solo in tre casi (pagine 41, 73, 107) le immagini mostrano qualcosa che non è lettura vera e propria: due bambini che si arrampicano su statue che impugnano un libro o un giornale, una ragazza che stringe al petto libri o quaderni. Se qualcuno è interessato a un campionamento ampio, lo trova per esempio in un bellarticolo sul sito della BBC.
 
On reading è stato pubblicato nel 2016, ma le foto risalgono spesso, evidentemente, a molti anni prima (anche se le didascalie indicano solo il luogo in cui sono state scattate, e non la data). In ogni caso, non compaiono mai dispositivi elettronici: solo in un caso (p. 83) si vede un lettore impegnato con qualcosa che non si riesce a identificare ma che potrebbe anche essere un tablet. Non ci sono nemmeno iscrizioni su pietra, o scritte dipinte sui muri: il supporto di lettura è sempre la carta, o qualcosa di molto simile.
 
Copertina di McCurry, On reading
 
In questo senso, il libro è una selezione parziale: nella realtà, non tutta la lettura avviene, né avveniva, su carta. E non tutta la lettura è individuale, e scollegata dalla scrittura, come quella che si vede nella maggioranza di queste immagini. Alcune delle immagini danno l’idea di essere state scattate dopo lunghi accordi con i soggetti, e di sicuro il fotografo ha privilegiato le situazioni in cui la lettura permette di isolarsi dall'ambiente e ritirarsi in un mondo proprio, separandosi anche dalle persone vicine.

Una foto scattata a Roma


Ma anche tenendo conto di questo, i vari modi in cui si concretizza l’idea astratta di lettura sono bellissimi. E, qualche mese fa, poterli ripercorre mi ha aiutato molto a superare giornate complicate.
 
Steve McCurry, On reading, Londra, Phaidon Press Limited, 2016, ISBN 978-0-7148-7129-5, pp. 140.