Continuando la schedatura del Meridiano di Maraini, il punto chiave è naturalmente il saggio Gli ideogrammi (1965). Qui si trova una delle rare descrizioni italiane del funzionamento del sistema di scrittura giapponese:
Messi l'uno accanto all'altro i due sistemi, quello alfabetico brilla subito per semplicità. Questo è indubbiamente vero. Trenta segni, o quaranta, o anche cento, s'imparano in poche settimane; duemila, per bene che vada, in alcuni anni. D'altra parte gli ideogrammi, una volta imparati, offrono incomparabili vantaggi di chiarezza, evidenza, compattezza sintetica. Una nozione, od una serie di nozioni, trasmesse lungo l'alfabeto viaggiano per posta, trasmesse per ideogrammi si può dire che t'arrivino in testa col telegrafo (p. 1465).
Il punto viene considerato "fondamentale". E, del resto, lo è. Secondo Maraini, "Colui che scrive per segni fonetici ha dinanzi a sé un cammino lungo e tortuoso" (p. 1468). Con gli ideogrammi, invece, "la nozione viene trasmessa dal segno in maniera folgorante, saltando tutta la deviazione dell'analisi e della sintesi fonetica. Con l'ideogramma si piomba per mezzo della vista nel cuore stesso del significato" (pp. 1468-9).
Sarà vero? Oppure anche nel caso dell'ideogramma (che, in fin dei conti, è un logogramma) c'è una fase di mediazione fonetica? I libri sulla scrittura non descrivono, mi pare, studi su questo punto. Però sicuramente qualcuno se ne sarà occupato. La differenza non è di poco conto: la scrittura ideografica in questa ricostruzione si presenta tanto diversa da quella alfabetica da suggerire che, sì, in questo caso si arriva a una specie di "diverso modo di pensare". Dovrò approfondire...
Fondamentali sono anche, su un altro piano, le pagine in cui Maraini descrive il modo in cui l'uso degli ideogrammi ha modificato la lingua giapponese, spingendola al monosillabismo. "Oggi, a rigore, non esiste tanto una lingua giapponese quanto un composto sino-giapponese; un mezzo espressivo nel quale i due elementi si fondono inestricabilmente, come le componenti germanica e latina si sposano nell'inglese" (p. 1474).
E, per ultima, interessante l'osservazione sul fatto che la traduzione di una lingua "diventa più difficile, spesso quasi impossibile, ai due estremi semantici d'ogni patrimonio linguistico: quando si toccano i massimi valori dello spirito, e quando si trattano le minime vicende della vita quotidiana e domestica (p. 1467): per esempio karma, buddha, tao, jen, veritas, charitas, grazia, oppure mozzarella, flamenco, champagne, twist, gemütlich, hiraeth, sukiyaki, geisha, curry, sherpa.
Appunti sul linguaggio e sulla scrittura, con particolare attenzione al linguaggio del web. Un blog di Mirko Tavosanis.
martedì 19 febbraio 2008
lunedì 18 febbraio 2008
... e la Muwaššaha
Un'altra scoperta dalla sessione di laurea di oggi: la muwaššaha, una forma poetica usata in al-Andalus a partire più o meno dall'anno Mille (durante il califfato omayyade). I testi sono in arabo, ma con sezioni in volgare romanzo, e a volte con la mescolanza delle lingue. Per esempio:
šabeš ya mio amor
ke kaţa-me el morire
imši, ya imši, habībī,
non še šin te ber dormire
(muwaššaha XLIV).
Con questo ci avviciniamo al maltese, o a una canzone dei Radiodervish... ma sono frequenti anche casi di "ibridismo sintattico", con costruzioni ripetute in arabo e romanzo (kon bi per dire "con"). E qui siamo nella zona del Mongibello, e simili.
Ovviamente i testi sono scritti usando l'alfabeto arabo o quello ebraico, e quindi senza vocali.
šabeš ya mio amor
ke kaţa-me el morire
imši, ya imši, habībī,
non še šin te ber dormire
(muwaššaha XLIV).
Con questo ci avviciniamo al maltese, o a una canzone dei Radiodervish... ma sono frequenti anche casi di "ibridismo sintattico", con costruzioni ripetute in arabo e romanzo (kon bi per dire "con"). E qui siamo nella zona del Mongibello, e simili.
Ovviamente i testi sono scritti usando l'alfabeto arabo o quello ebraico, e quindi senza vocali.
Contro-sintassi
Oggi sono stato impegnato tutto il pomeriggio in sessione di laurea: discuteva la tesi triennale una mia laureanda che ha esaminato la Storia do Mogor di Niccolò Manucci. Però in queste discussioni si imparano sempre (beh, quasi sempre) un sacco di cose utili. Da una tesi su Tozzi ho ricavato un paio di rimandi bibliografici alla cosiddetta "contro-sintassi" di Tozzi stesso e Pirandello, creata attraverso la punteggiatura. Che, un po' come negli articoli di giornale di Ilvo Diamanti, spezza il normale flusso del periodo. Usando però il punto e virgola, e non il punto.
Tozzi: "Si allontanò dal cassettone; a cui s'era un poco appoggiata entrando."
Pirandello: "... andava così anche con una piccina per mano, sua figlia; e non pensava neppure che..."
Rimandi: Introduzione di Romano Luperini a Giovani e altre novelle di Tozzi (p. 42) e Gino Tellini, La tela di fumo. Saggi su Tozzi novelliere (p. 72). Di sicuro vale la pena tener presenti gli esempi tratti da Tozzi.
Tozzi: "Si allontanò dal cassettone; a cui s'era un poco appoggiata entrando."
Pirandello: "... andava così anche con una piccina per mano, sua figlia; e non pensava neppure che..."
Rimandi: Introduzione di Romano Luperini a Giovani e altre novelle di Tozzi (p. 42) e Gino Tellini, La tela di fumo. Saggi su Tozzi novelliere (p. 72). Di sicuro vale la pena tener presenti gli esempi tratti da Tozzi.
giovedì 14 febbraio 2008
Ore giapponesi: il capitolo sugli ideogrammi
Rieccomi su Maraini. Nella sezione di Ore giapponesi dedicata a Kyoto, sognatori e ribelli compare anche un "Capitoletto sulla lingua e sugli ideogrammi". Che tanto capitoletto non è (pp. 1017-1033).
La sintesi sulla lingua giapponese è, per quel che ne posso dire, buona (lingua agglutinante, etc.). La parte veramente interessante è però quella dedicata agli ideogrammi in sé: di gran lunga la più pertinente per qualunque discorso di "linguaggio del web". Dice Maraini:
I giapponesi, di una pagina della loro lingua voltata in alfabeto romano, dicono "pinto-ga awanai", non è a fuoco; infatti la scrittura ideografica - a parte la fatica che richiede per venire appresa - presenta cose, idee, sentimenti all'occhio, al pensiero, alle emozioni con un'immediatezza ed una vivacità nettamente superiori alla normale mediazione fonetica, specialmente in una lingua dove ormai sono numerosi gli omofoni" (pp. 1029-1030).
Poche parole (a cui si possono aggiungere altre osservazioni in un saggio successivo), che però sono centrali per il tema del blog. Le alternative alla scrittura in alfabeto latino comportano un diverso rapporto con il pensiero? Per quel che posso capire, la risposta è: in parte. In piccola parte, probabilmente, perché il cervello funziona per tutti più o meno allo stesso modo.
Intanto ho visto come codificare gli ideogrammi (per semplicità continuo a usare questo termine): 丐. Oppure, con 5 tratti di pennello: freccia, 矢. La codifica in sé è ovviamente una stupidaggine... la cosa difficile è orientarsi tra le 81 pagine che compongono la tabella Unicode dei "CJK unified ideographs". Mi chiedo se, per capire meglio il rapporto tra scrittura e pensiero, sia il caso di investire un paio d'anni nello studio del cinese o del giapponese!
Intanto ho scoperto il concetto di Unihan: la codifica unitaria e comune, attraverso Unicode, dei segni usati per il cinese, il giapponese, il coreano e il cantonese.
La sintesi sulla lingua giapponese è, per quel che ne posso dire, buona (lingua agglutinante, etc.). La parte veramente interessante è però quella dedicata agli ideogrammi in sé: di gran lunga la più pertinente per qualunque discorso di "linguaggio del web". Dice Maraini:
I giapponesi, di una pagina della loro lingua voltata in alfabeto romano, dicono "pinto-ga awanai", non è a fuoco; infatti la scrittura ideografica - a parte la fatica che richiede per venire appresa - presenta cose, idee, sentimenti all'occhio, al pensiero, alle emozioni con un'immediatezza ed una vivacità nettamente superiori alla normale mediazione fonetica, specialmente in una lingua dove ormai sono numerosi gli omofoni" (pp. 1029-1030).
Poche parole (a cui si possono aggiungere altre osservazioni in un saggio successivo), che però sono centrali per il tema del blog. Le alternative alla scrittura in alfabeto latino comportano un diverso rapporto con il pensiero? Per quel che posso capire, la risposta è: in parte. In piccola parte, probabilmente, perché il cervello funziona per tutti più o meno allo stesso modo.
Intanto ho visto come codificare gli ideogrammi (per semplicità continuo a usare questo termine): 丐. Oppure, con 5 tratti di pennello: freccia, 矢. La codifica in sé è ovviamente una stupidaggine... la cosa difficile è orientarsi tra le 81 pagine che compongono la tabella Unicode dei "CJK unified ideographs". Mi chiedo se, per capire meglio il rapporto tra scrittura e pensiero, sia il caso di investire un paio d'anni nello studio del cinese o del giapponese!
Intanto ho scoperto il concetto di Unihan: la codifica unitaria e comune, attraverso Unicode, dei segni usati per il cinese, il giapponese, il coreano e il cantonese.
lunedì 11 febbraio 2008
Inglese e italiano
Interrompo la schedatura di Maraini per qualche osservazione sul libretto di Andrea Chiti-Batelli. L'avevo già citato qualche giorno fa; adesso ho finito di leggerlo (sono solo 84 pagine, molto ripetitive) e devo dire che se all'inizio l'avevo trovato divertente, a lettura finita l'aggettivo più appropriato mi sembra "irritante".
L'autore stesso provvede a riportare una "breve sintesi finale" (p. 79) delle proprie tesi. Vale la pena commentarle al volo:
Sezione I, tesi 1: "L'Europa e il mondo necessitano di una lingua unica, la sola che può garantire col minimo sforzo la 'trasparenza' della comunicazione internazionale a tutti i livelli."
E su questo si può essere d'accordo, anche se chi conosce il modo in cui le lingue operano sa che quel "necessitano" si può parafrasare correttamente solo con un "possono beneficiare".
Tesi 2: "Questa lingua, allo stato attuale - dato il peso politico, economico, culturale del mondo anglo-sassone - non può esser se non l'inglese."
Su questo, poco da dire.
Tesi 3: "Essa però - come tutte le lingue imposte da un potere dominante - distruggerà in radice le altre lingue, se l'attuale situazione di squilibrio, e in conseguenza di tale egemonia, continuerà. La storia parla in proposito un linguaggio troppo univoco perché possa sussister il menomo dubbio."
E qui invece ci si sbraca. Non è affatto una regola che "le lingue imposte da un potere dominante" distruggano le altre. Lasciamo da parte il caso del latino, di cui spero di scrivere in dettaglio tra pochi giorni (esaurito un gruppetto di schedature). C'è lingua e lingua, c'è potere e potere. Perfino la conquista delle Americhe non ha "distrutto in radice" buona parte delle lingue precolombiane: le ha cacciate in una posizione marginale, ma solo perché l'importazione delle lingue europee ha prodotto veri e propri genocidi e travasi di popolazione. E questo è, negli ultimi secoli, il caso più estremo.
Nel resto del mondo, invece, che cosa vediamo? Alinei, credo, ha più ragione di quanto si ammetta di solito, e buona parte delle "invasioni" e sostituzioni linguistiche oggi date per scontate in realtà non sono mai avvenute. Anche assumendo il quadro concettuale tradizionale, però, il discorso cambia poco. La conquista araba e l'importazione di una religione basata sull'arabo hanno portato alla scomparsa delle lingue preesistenti solo in una parte del Medio Oriente. Né le conquiste islamiche né quelle britanniche hanno fatto cambiare lingua all'India. Il greco non ha ceduto né ai romani né ai turchi (che hanno dominato la Grecia per sei secoli). Il russo non ha soppiantato le lingue di innumerevoli popolazioni entrate a far parte, in tempi diversi, dell'impero russo o sovietico. E via dicendo.
La storia linguistica, insomma, non parla affatto un linguaggio "univoco". Anzi, la regola sembra essere la continuità: perché un popolo abbandoni una lingua a favore di un'altra occorrono invasioni, massacri e secoli di dominio. Se per assurdo gli attuali rapporti di forza potessero mantenersi senza opposizione e includessero per esempio l'incorporazione in un Impero Americano (il che è, come dire, improbabile), quanto impiegherebbe l'inglese per imporsi come lingua generale d'Italia? In Egitto la lingua copta si è mantenuta per almeno settecento anni dopo la conquista araba. Probabilmente è questa la scala temporale più realistica.
Saltiamo però al secondo gruppo delle tesi di Andrea Chiti-Batelli, che propone come alternativa all'inglese l'uso dell'esperanto, "una lingua pianificata, la sola che l'esperienza e la storia mostrano esser priva dell'effetto glottofagico proprio delle lingue vive" (p. 80). Soluzione, come si vede, improbabile al massimo. Ma qui mi interessa un altro aspetto del discorso: di quale esperienza e di quale storia si sta parlando? Nessuna comunità umana significativa ha mai adottato una "lingua pianificata" (o forse sì, ma in un senso completamente diverso da quello adottato in questo libro, in cui evidentemente l'autore ha in mente "rinascite" linguistiche come quelle dell'ebraico o del catalano, peraltro basate sempre su lingue spontanee... ma anche di questo spero di parlare più avanti). E quindi tutta questa sicurezza da che cosa viene? Non c'è nessun dato a suggerire che, divenuto lingua della comunicazione internazionale, l'esperanto non cancellerebbe le altre lingue.
Va anche detto che Chiti-Batelli, per assicurare che l'esperanto non divenga una lingua viva, va a imporre leggi e divieti (come ovviamente succede in tutte queste formulazioni utopiche) : "è fortemente sconsigliabile che si formino fanciulli aventi l'Esperanto come lingua materna" (p. 34). Ovvio che questo cancellerebbe le premesse del discorso. Ma come si potrebbe raggiungere questo risultato? Arrestando i genitori che osassero parlare esperanto con i bambini? Inserendo microspie in tutte le case?
Insomma, al di là della scarsa praticabilità della soluzione proposta al "problema" del dominio dell'inglese, in questo libro è molto irritante l'atteggiamento dell'autore. Che oltre a questo libretto, si dice in quarta di copertina, ha scritto opere come le Perplessità sulla pena di morte (e vabbè) o Si devono riaprire le case chiuse? (!); ma soprattutto, "è stato per venticinque anni, quale Consigliere parlamentare del Senato, Segretario delle Delegazioni parlamentari italiane alle Assemblee europee". Insomma, non mostra una grande conoscenza del modo in cui le lingue si sono distribuite nel mondo, ma è ben introdotto a livello politico. Non è un mix accattivamente, per me, quando si parla di politica linguistica.
L'autore stesso provvede a riportare una "breve sintesi finale" (p. 79) delle proprie tesi. Vale la pena commentarle al volo:
Sezione I, tesi 1: "L'Europa e il mondo necessitano di una lingua unica, la sola che può garantire col minimo sforzo la 'trasparenza' della comunicazione internazionale a tutti i livelli."
E su questo si può essere d'accordo, anche se chi conosce il modo in cui le lingue operano sa che quel "necessitano" si può parafrasare correttamente solo con un "possono beneficiare".
Tesi 2: "Questa lingua, allo stato attuale - dato il peso politico, economico, culturale del mondo anglo-sassone - non può esser se non l'inglese."
Su questo, poco da dire.
Tesi 3: "Essa però - come tutte le lingue imposte da un potere dominante - distruggerà in radice le altre lingue, se l'attuale situazione di squilibrio, e in conseguenza di tale egemonia, continuerà. La storia parla in proposito un linguaggio troppo univoco perché possa sussister il menomo dubbio."
E qui invece ci si sbraca. Non è affatto una regola che "le lingue imposte da un potere dominante" distruggano le altre. Lasciamo da parte il caso del latino, di cui spero di scrivere in dettaglio tra pochi giorni (esaurito un gruppetto di schedature). C'è lingua e lingua, c'è potere e potere. Perfino la conquista delle Americhe non ha "distrutto in radice" buona parte delle lingue precolombiane: le ha cacciate in una posizione marginale, ma solo perché l'importazione delle lingue europee ha prodotto veri e propri genocidi e travasi di popolazione. E questo è, negli ultimi secoli, il caso più estremo.
Nel resto del mondo, invece, che cosa vediamo? Alinei, credo, ha più ragione di quanto si ammetta di solito, e buona parte delle "invasioni" e sostituzioni linguistiche oggi date per scontate in realtà non sono mai avvenute. Anche assumendo il quadro concettuale tradizionale, però, il discorso cambia poco. La conquista araba e l'importazione di una religione basata sull'arabo hanno portato alla scomparsa delle lingue preesistenti solo in una parte del Medio Oriente. Né le conquiste islamiche né quelle britanniche hanno fatto cambiare lingua all'India. Il greco non ha ceduto né ai romani né ai turchi (che hanno dominato la Grecia per sei secoli). Il russo non ha soppiantato le lingue di innumerevoli popolazioni entrate a far parte, in tempi diversi, dell'impero russo o sovietico. E via dicendo.
La storia linguistica, insomma, non parla affatto un linguaggio "univoco". Anzi, la regola sembra essere la continuità: perché un popolo abbandoni una lingua a favore di un'altra occorrono invasioni, massacri e secoli di dominio. Se per assurdo gli attuali rapporti di forza potessero mantenersi senza opposizione e includessero per esempio l'incorporazione in un Impero Americano (il che è, come dire, improbabile), quanto impiegherebbe l'inglese per imporsi come lingua generale d'Italia? In Egitto la lingua copta si è mantenuta per almeno settecento anni dopo la conquista araba. Probabilmente è questa la scala temporale più realistica.
Saltiamo però al secondo gruppo delle tesi di Andrea Chiti-Batelli, che propone come alternativa all'inglese l'uso dell'esperanto, "una lingua pianificata, la sola che l'esperienza e la storia mostrano esser priva dell'effetto glottofagico proprio delle lingue vive" (p. 80). Soluzione, come si vede, improbabile al massimo. Ma qui mi interessa un altro aspetto del discorso: di quale esperienza e di quale storia si sta parlando? Nessuna comunità umana significativa ha mai adottato una "lingua pianificata" (o forse sì, ma in un senso completamente diverso da quello adottato in questo libro, in cui evidentemente l'autore ha in mente "rinascite" linguistiche come quelle dell'ebraico o del catalano, peraltro basate sempre su lingue spontanee... ma anche di questo spero di parlare più avanti). E quindi tutta questa sicurezza da che cosa viene? Non c'è nessun dato a suggerire che, divenuto lingua della comunicazione internazionale, l'esperanto non cancellerebbe le altre lingue.
Va anche detto che Chiti-Batelli, per assicurare che l'esperanto non divenga una lingua viva, va a imporre leggi e divieti (come ovviamente succede in tutte queste formulazioni utopiche) : "è fortemente sconsigliabile che si formino fanciulli aventi l'Esperanto come lingua materna" (p. 34). Ovvio che questo cancellerebbe le premesse del discorso. Ma come si potrebbe raggiungere questo risultato? Arrestando i genitori che osassero parlare esperanto con i bambini? Inserendo microspie in tutte le case?
Insomma, al di là della scarsa praticabilità della soluzione proposta al "problema" del dominio dell'inglese, in questo libro è molto irritante l'atteggiamento dell'autore. Che oltre a questo libretto, si dice in quarta di copertina, ha scritto opere come le Perplessità sulla pena di morte (e vabbè) o Si devono riaprire le case chiuse? (!); ma soprattutto, "è stato per venticinque anni, quale Consigliere parlamentare del Senato, Segretario delle Delegazioni parlamentari italiane alle Assemblee europee". Insomma, non mostra una grande conoscenza del modo in cui le lingue si sono distribuite nel mondo, ma è ben introdotto a livello politico. Non è un mix accattivamente, per me, quando si parla di politica linguistica.
sabato 9 febbraio 2008
Maraini: Ore giapponesi
Proseguo con la schedatura del Meridiano su Maraini. Subito all'inizio del secondo testo fondamentale, Ore giapponesi, nell'introduzione, Oltre mezzo secolo tra due copertine (2000), Maraini parla del solito problema degli ideogrammi. Nulla di particolarmente innovativo... ma la risposta è data meglio di qualunque altra risposta simile che mi sia capitato di leggere in italiano:
Spesso da noi ci si domanda come una civiltà tanto avanzata possa valersi "ancora" d'un sistema di scrittura, quello ideografico, all'apparenza così arcaico, del tutto inadatto, si direbbe, alle agili prestazioni richieste oggi a qualsiasi mezzo d'informazione visiva. Una risposta sommaria può prendere questa forma: sostanzialmente l'ideogramma è mezzo di trasmissione del pensiero notevolmente superiore agli alfabeti ed ai sillabari, per la sua efficacia e immediatezza, d'altra parte il codice dei segni (almeno 2000-2500) è pesante: l'alfabeto ed i sillabari sono poco trasparenti, rimandano di continuo al piano dei suoni, ma si fondano su codici elementari. In sostanza, nella pratica, i due sistemi si equivalgono: donde lo stallo millenario. (pp. 559-560).
Meno convincenti le osservazioni successive (p. 560), sul fatto "che gli scolari giapponesi e cinesi, studiando gli ideogrammi, con tutte le minute variazioni e differenze che spesso li distinguono l'uno dall'altro, affinano le proprie capacità di percezione visiva, di abilità manuale" preparandosi quindi alle esigenze del mondo tecnologico moderno.
A livello di aneddoto, ricordo qui il momento in cui molte mie certezze giovanili sugli ideogrammi sono crollate: guardando al cinema L'ultimo imperatore di Bertolucci (1987). C'è una scena in cui appunto all'Ultimo Imperatore viene chiesto dagli inquisitori comunisti di scrivere il proprio nome con un pezzo di gesso, o qualcosa di simile. E lui traccia i complicati logogrammi in un istante - forse meno del tempo che ci vuole per tracciare una firma leggibile usando per esempio la corsiva tonda inglese. Ricordo che all'epoca la cosa mi disturbò: possibile che gli ideogrammi non fossero così poco pratici come avevo pensato fino a quel momento?
Spesso da noi ci si domanda come una civiltà tanto avanzata possa valersi "ancora" d'un sistema di scrittura, quello ideografico, all'apparenza così arcaico, del tutto inadatto, si direbbe, alle agili prestazioni richieste oggi a qualsiasi mezzo d'informazione visiva. Una risposta sommaria può prendere questa forma: sostanzialmente l'ideogramma è mezzo di trasmissione del pensiero notevolmente superiore agli alfabeti ed ai sillabari, per la sua efficacia e immediatezza, d'altra parte il codice dei segni (almeno 2000-2500) è pesante: l'alfabeto ed i sillabari sono poco trasparenti, rimandano di continuo al piano dei suoni, ma si fondano su codici elementari. In sostanza, nella pratica, i due sistemi si equivalgono: donde lo stallo millenario. (pp. 559-560).
Meno convincenti le osservazioni successive (p. 560), sul fatto "che gli scolari giapponesi e cinesi, studiando gli ideogrammi, con tutte le minute variazioni e differenze che spesso li distinguono l'uno dall'altro, affinano le proprie capacità di percezione visiva, di abilità manuale" preparandosi quindi alle esigenze del mondo tecnologico moderno.
A livello di aneddoto, ricordo qui il momento in cui molte mie certezze giovanili sugli ideogrammi sono crollate: guardando al cinema L'ultimo imperatore di Bertolucci (1987). C'è una scena in cui appunto all'Ultimo Imperatore viene chiesto dagli inquisitori comunisti di scrivere il proprio nome con un pezzo di gesso, o qualcosa di simile. E lui traccia i complicati logogrammi in un istante - forse meno del tempo che ci vuole per tracciare una firma leggibile usando per esempio la corsiva tonda inglese. Ricordo che all'epoca la cosa mi disturbò: possibile che gli ideogrammi non fossero così poco pratici come avevo pensato fino a quel momento?
giovedì 7 febbraio 2008
The Italian Web Texts Repository
I have just published the first texts in my "Italian Web Texts Repository":
http://www.humnet.unipi.it/ital/tavosanis/repository.htm
Up to date, it contains only a TEI P5 corpus with 400 posts taken randomly from blogs hosted by Splinder. However, I plan to expand quickly the collections.
http://www.humnet.unipi.it/ital/tavosanis/repository.htm
Up to date, it contains only a TEI P5 corpus with 400 posts taken randomly from blogs hosted by Splinder. However, I plan to expand quickly the collections.
mercoledì 6 febbraio 2008
Maraini: Segreto Tibet
Comincio a mettere un po' d'ordine negli appunti sulle letture recenti. L'ottica è quella del rapporto lingua-scrittura, ovviamente... anche se continuo ad allontanarmi dal discorso sul linguaggio del web. Alcuni punti mi sembrano tuttavia importanti comunque, e credo valga la pena fissarli qui.
Prendiamo intanto il Meridiano dedicato a Fosco Maraini (a cura di Franco Marcoaldi, Milano, Mondadori, 2007). Di qualche cosa ho già parlato. Rivedendo il volume, parto dall'opera che ha meno a che fare con questi discorsi: Segreto Tibet. Racconto molto bello della partecipazione di Maraini alla spedizione di Tucci nel 1948, subito prima dell'occupazione cinese. L'aspetto più pittoresco, peraltro, più che la visita al monastero Kyangphu o al villaggio di Yatung, è il ricordo di Tucci che nel mezzo delle solitudini dell'altopiano non rinuncia a farsi chiamare Eccellenza (in quanto Accademico d'Italia) o a vantarsi del proprio potere accademico... Bisognerà proprio che legga qualcosa di suo! Nel frattempo ho però scoperto un blog (di Enrica Garzilli) dedicato proprio a Tucci.
Tornando a Maraini: nella sua Storia del Tibet (1998) messa in fondo all'opera si parla anche di problemi di lingua e scrittura. Diverse volte nella sua storia il Tibet ha scelto l'India invece della Cina. Il primo di questi "momenti cruciali", secondo Maraini (p. 396), è appunto collegato alla scrittura: nonostante la lingua isolante molto simile al cinese, ai tempi di Songtsen-gampo (569-649) la cultura tibetana ha scelto di adottare per la scrittura un sistema alfabetico / sillabico modellato sulle scritture braminiche (l'enciclopedia di Coulmas ricorda che la grafia tibetana manca di sistemi per rappresentare i toni). Scelta opposta a quella del Giappone:
"Mentre i nipponici, partendo da una lingua fondamentalmente diversa dal cinese, altaica per grammatica e sintassi, malaio-polinesiana per fonetica e per alcuni aspetti del lessico, hanno scelto la scrittura ideografica, entrando con ciò in strettissima simbiosi culturale con la Cina, i tibetani, partendo da una lingua di struttura affine a quella sinica, hanno optato per una scrittura fonetica, sillabica, di origine indiana, volgendo con ciò le spalle all'Estremo Oriente ed immergendosi nel mondo spirituale del sud." (p. 401).
Di qui anche la scelta dell'allineamento di scrittura da sinistra a destra e i libri di formato indiano come caratteristiche della cultura tibetana. Ma oggi, con l'occupazione, "ideogramma e sillabario tibetano si oppongono spesso come due bandiere" (p. 401) e "il Tibet è stato coperto da un velo ideografico" (p. 447). Soprattutto, però, sono l'immigrazione cinese e l'imposizione violenta di un'autorità esterna a minacciare la lingua (e la scrittura):
"Si calcola ormai che Lhasa abbia più residenti cinesi che tibetani. Naturalmente la lingua parlata, anche dai tibetani, se hanno la minima ambizione di farsi avanti, è ormai il cinese; il tibetano è disceso al malinconico rango di lingua provinciale, di dialetto. E compaiono sempre più frequenti le scritte verticali, vergate in ideogrammi, a sostituire le eleganti frasi tracciate in sillabe della lingua di Milarepa o di Thonmi Sambhota, antica d'un millennio e mezzo. A scuola i programmi prevedono qualche ora di tibetano, ma esse vengono impartite da maestri e da professori cinesi, la cui pronuncia lascia ovviamente molto a desiderare." (p. 457).
In questo caso, sì, si va alla rapida glottofagia: riduzione in minoranza della popolazione originaria, emarginazione di una lingua per motivi politici ed economici. Caso drammatico ma per fortuna relativamente raro nel panorama mondiale.