Appunti sul linguaggio e sulla scrittura, con particolare attenzione al linguaggio del web. Un blog di Mirko Tavosanis.
martedì 11 novembre 2008
Anathem
Ieri ho finito di leggere il nuovo romanzo di Stephenson, Anathem. Ottocentonovanta pagine di romanzo vero e proprio, più appendici. C'è voluto un po', in effetti!
Il romanzo in sé è il solito Stephenson: interesse per i personaggi, zero, al di là di un "pacchetto" di tratti che si ripetono da un libro all'altro e che è comunque dignitoso. Nessuno, penso, può non identificarsi con Fraa Erasmas, il protagonista di questo libro, così come nessuno poteva non identificarsi con Daniel o Jack nel Baroque Cycle. Per il resto, quel che conta sono le idee.
Il risultato finale è leggibile, ma più banale rispetto a Cryptonomicon e al Baroque Cycle. Probabilmente perché in questo caso non c'è la storia vera a fare da sfondo, con tutti i suoi dettagli e le sue sfaccettature, ma c'è la storia di un pianeta inventato, anche se molto simile al nostro. E c'è poco da fare: un conto è scoprire come funzionava il sistema del Galeone di Manila, un conto venire a sapere com'è che i clandestini migrano da un continente di Arbre all'altro (= passando per il polo). Le connotazioni, e la densità informativa, sono ben diverse nei due casi. Diciamo quindi che non mi sono annoiato, ma neanche appassionato oltre un certo punto.
I motivi per cui questo libro mi interessa dal punto di vista linguistico sono poi due, a parte qualche lacuna sulla fonetica... all'inizio del romanzo Stephenson cerca di spiegare come si deve pronunciare Arbre, e non è un bel vedere...
Le cose interessanti sono però, per l'appunto:
1. L'inventività nei sostantivi. Ogni tanto, le parole in lingua Orth sono ben strutturate, con i loro echi latini: provener, voco, apert... Ma soprattutto, i nomi gergali per una tecnologia simile alla nostra a volte riescono proprio bene: cartabla (navigatore con GPS), jeejah (telefonino), monyafeek (rudimentale veicolo spaziale, come adattamento di magnifique), eccetera.
2. Le riflessioni sulla pluralità e compresenza dei mondi, che nella parte finale vengono gestite abbastanza bene anche dal punto di vista narrativo - con l'idea che tutte le possibilità siano compresenti, e che il nostro cervello possa potenzialmente scegliere la migliore. In effetti, è interessante notare che il nostro cervello apparentemente procede proprio in questo modo per assegnare un significato alle parole nel contesto: quando si parla di "rete" attiva tutti i significati possibili della parola e poi, quando arrivano altre informazioni, sceglie retrospettivamente quello corretto nel contesto ("attrezzo da pesca", "sistema informatico"... o perlomeno, questo sembra il risultato delle ricerche pubblicate da David Swinney nel 1979, che conosco solo di seconda mano). Che Stephenson stia mettendo a fuoco qualcosa di importante?
Nessun commento:
Posta un commento