venerdì 14 agosto 2009

Rheingold, Tools for Thought

La mia bibliografia sulle interfacce utente comprendeva anche Tools for Thought. Pure questo è un libro che, nonostante la relativa notorietà dell'autore dalle nostre parti, non ha mai avuto una traduzione italiana. Forse perché in anticipo, o in ritardo, sui tempi: la prima edizione risale addirittura al 1985, mentre quella che ho ordinato io è la seconda, pubblicata dalla MIT Press nel 2000 e dotata di ventiquattro pagine finali (Afterword) di aggiornamento. Nel 2009, peraltro, l’aggiornamento dovrebbe essere a sua volta aggiornato... approfittando dell’occasione anche per cambiare l’orrenda copertina.

L’aspetto più datato del libro è però la sua definizione del contenuto. Per metà si parla dell’evoluzione dei computer, e per metà dell’evoluzione delle loro interfacce (l’argomento che interessa a me): due temi non tanto distinguibili all’epoca. Da un certo punto in poi i due filoni si intrecciano, ma ovviamente il secondo entra in gioco tardi. Vale a dire, a pagina 132, capitolo 7, attraverso la figura di J. C. R. Licklider. Il quale, nella primavera del 1957, esaminando il proprio impiego del tempo decise che “most of the task (...) of any technical thinker would be performed more effectively by machines” (134). Come nota Rheingold, l’idea che il computer potesse rimpiazzare non lo scienziato, ma i suoi aiutanti, a quel tempo era già venuta in mente a Engelbart e forse a qualcun altro. Licklider si trovò però presto in una posizione che gli permetteva di concretizzare l’idea: responsabile per l’assegnazione nel settore informatico dei fondi di ricerca del Ministero della Difesa statunitense.

Per il resto, il libro traccia il profilo dei soliti noti: Engelbart, Taylor, Kay... e Ted Nelson. Già nella prospettiva del 1985 erano queste le figure chiave per l’evoluzione delle interfacce informatiche fino al modello-Alto. I protagonisti degli altri capitoli sono invece i fondatori dell’informatica, da Ada Byron a Robert Shannon, e un gruppetto di persone che aveva qualche speranza nel 1985 ma è finito a percorrere strade decisamente marginali: chi si ricorda oggi di nomi come Rodman, Laurel e Barr? O della tecnologia dei “sistemi esperti”? Rheingold perde invece l’occasione di mettere a fuoco il ruolo degli imprenditori che già nel 1985, e molto di più in seguito, hanno plasmato l’evoluzione del computer: Bill Gates viene ricordato in tre pagine, Steve Jobs in due. E la parola “Internet” non è nell’indice analitico (compare invece nell’Afterword), nonostante che già nel 1985 la rete fosse una realtà consolidata nel suo ambiente.

Di questo genere di sorprese, peraltro, era già consapevole Rheingold. Come per esempio a p. 192, quando parlando di Engelbart si dice che:

It is almost shocking to realize that in 1968 it was a novel experience to see someone use a computer to put words on a screen, and in this era of widespread word processing, it is hard to imagine today that very few people were able to see in Doug’s demonstration the vanguard of an industry.

Effettivamente... Ma questo è il motivo per cui, più che quelli che fanno predizioni sul futuro dell’informatica, negli ultimi tempi mi interessano quelli che raccontano il suo passato. Le proiezioni dei singoli profeti sono sempre destinate a essere smentite, e spesso non sono comunque gran che coinvolgenti; il ricordo dei lavori già fatti, e delle strade che non sono state percorse, viceversa, è uno splendido trampolino di lancio.

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