Sul Domenicale del Sole-24 ore della settimana scorsa, all'interno di una sezione dedicata agli e-book, Roberto Casati apre un articolo: "Non mi risultano dati scientifici che comparino l'esperienza di leggere un e-book a quella di leggere un libro su carta" (a p. 22). I dati, però, ci sono e possono essere considerati ormai assestati.
Naturalmente, il modo in cui Casati parla della lettura è molto generico. Che cosa si intende per "comparino l'esperienza"? Per esempio, potremmo intendere una descrizione delle diversità di comportamento. E qui le cose cambiano molto da un tipo di testo all'altro. I romanzi - beh, si leggono su Kindle e iPad esattamente come su carta: una pagina alla volta, dall'inizio alla fine.
Diversa è la situazione per i libri di studio. Per esempio, Jenny Lau ha sintetizzato in questo modo la bibliografia recente in un articolo intitolato Students’ experience of using electronic textbooks in different levels of education (Scroll, 1, 1, 2008):
Learning behaviour changes when one accesses text in electronic format. Students are accustomed to scan through the text to get an overview of the material. This, however, becomes difficult while using an electronic version (Waycott & Kukulska-Hulme, 2003). Instead of scanning through the text, students may skim it. When reading electronic text, students prefer to start from the table of contents to determine which chapters seem relevant (Hernoon, Hopper, Leach, Saunders, & Zhang, 2007). Highlighting, underlining, and note taking, activities that are considered to support active reading, are not equally represented in digital form. For instance, medical students found that taking notes in electronic format was not as natural as with paper (Morton, Foreman, Goede, Bezzant, & Albertine, 2007) (p. 5).
Oppure, potremmo decidere di rispondere a Casati su questo punto cercando di capire non tanto se le esperienze sono diverse quanto se il gradimento è diverso. Lau ritrova in bibliografia una maggiore accettazione (ovvia) dei testi elettronici da parte delle generazioni più giovani. Se dalle preferenze relative si passa a quelle assolute, però, le cose cambiano, come risulta da uno studio originale di William Douglas Woody, David B. Daniel e Crystal A. Baker, E-books or textbooks: Students prefer textbooks, pubblicato su Computers & Education, 55 , 2010, pp. 945–948 (purtroppo, accessibile solo a pagamento o da reti abbonate). L'abstract dice già tutto:
Previous research has demonstrated that the experience of reading e-books is not equivalent to reading textbooks. This study examines factors influencing preference for e-books as well as reported use of e-book content. Although the present student cohort is the most technologically savvy to ever enter universities, students do not prefer e-books over textbooks regardless of their gender, computer use or comfort with computers. No significant correlations existed between the number of e-books previously used and overall preference of e-books: Participants who had previously used an e-book still preferred print texts for learning. Despite the ability to easily access supplemental content through books via hyperlinks and other features, students were more likely to use special features in print books than in e-books.
In sostanza, potendo scegliere, gli studenti preferiscono studiare su libri su carta. E, poiché reagiscono in questo modo anche studenti che hanno già usato e-book, la causa probabile di questa preferenza non è l'abitudine ma la semplice usabilità. Gli addetti ai lavori lo sanno, ma ci vorrà un po' di tempo prima che queste osservazioni diventino di dominio comune...
Appunti sul linguaggio e sulla scrittura, con particolare attenzione al linguaggio del web. Un blog di Mirko Tavosanis.
lunedì 20 dicembre 2010
martedì 14 dicembre 2010
Kamkwamba, The boy who harnessed the wind
Domanda: è possibile imparare qualcosa solo leggendo? Sì, chiaramente; ma fino a quale punto?
The boy who harnessed the wind, raccontato direttamente dal ragazzo del titolo (William Kamkwamba, in collaborazione con Bryan Mealer), è anche una risposta a questa domanda. Il libro, infatti, è la storia di come pochi anni fa un ragazzo del Malawi si sia in testa, in un villaggio quasi del tutto privo di corrente elettrica, di realizzare un generatore a vento per portare la luce in casa. Senza avere a disposizione incoraggiamenti o insegnanti, ma solo una biblioteca con qualche scaffale di libri in inglese arrivati per donazione.
Un libro in particolare, Explaining physics (sembrerebbe questo), gioca un ruolo fondamentale, perché fornisce le indicazioni necessarie: a capire i principi alla base della dinamo, o la differenza tra corrente continua e corrente alternata, o il modo per cambiare la tensione. Non che il protagonista non abbia già qualche base, dall'inglese all'algebra (imparati in scuole con i buchi nel pavimento, senza libri né attrezzature); però in un contesto in cui nessuno, dalla famiglia ai pochi proprietari di biciclette e luci elettriche, ha la minima idea di come funzioni la corrente.
Il libro, insomma, è la storia di un successo. Con una storia che però prende forma solo a metà del testo, perché le prime sezioni raccontano la vita di William Kamkwamba, la storia della sua famiglia e, soprattutto, la carestia del 2001, che (assieme alla vendita, fatta poco prima, delle riserve nazionali di grano, e alla sparizione dei profitti risultanti...) porta alla fame l'intero villaggio e il resto del paese. Dopodiché, nel giro di qualche anno, abbandonata la scuola, il protagonista si trova quasi per caso a creare il suo mulino a vento. Dopo il successo, la radio e i giornali locali lo notano, e da lì a una conferenza TED il passo - beh, non è breve, ma è rapido:
Il racconto è avvincente. Soprattutto, però, fa ricordare che i libri permettono a volte di fare cose sorprendenti, quando incontrano un lettore preparato a prenderli sul serio.
The boy who harnessed the wind, raccontato direttamente dal ragazzo del titolo (William Kamkwamba, in collaborazione con Bryan Mealer), è anche una risposta a questa domanda. Il libro, infatti, è la storia di come pochi anni fa un ragazzo del Malawi si sia in testa, in un villaggio quasi del tutto privo di corrente elettrica, di realizzare un generatore a vento per portare la luce in casa. Senza avere a disposizione incoraggiamenti o insegnanti, ma solo una biblioteca con qualche scaffale di libri in inglese arrivati per donazione.
Un libro in particolare, Explaining physics (sembrerebbe questo), gioca un ruolo fondamentale, perché fornisce le indicazioni necessarie: a capire i principi alla base della dinamo, o la differenza tra corrente continua e corrente alternata, o il modo per cambiare la tensione. Non che il protagonista non abbia già qualche base, dall'inglese all'algebra (imparati in scuole con i buchi nel pavimento, senza libri né attrezzature); però in un contesto in cui nessuno, dalla famiglia ai pochi proprietari di biciclette e luci elettriche, ha la minima idea di come funzioni la corrente.
Il libro, insomma, è la storia di un successo. Con una storia che però prende forma solo a metà del testo, perché le prime sezioni raccontano la vita di William Kamkwamba, la storia della sua famiglia e, soprattutto, la carestia del 2001, che (assieme alla vendita, fatta poco prima, delle riserve nazionali di grano, e alla sparizione dei profitti risultanti...) porta alla fame l'intero villaggio e il resto del paese. Dopodiché, nel giro di qualche anno, abbandonata la scuola, il protagonista si trova quasi per caso a creare il suo mulino a vento. Dopo il successo, la radio e i giornali locali lo notano, e da lì a una conferenza TED il passo - beh, non è breve, ma è rapido:
Il racconto è avvincente. Soprattutto, però, fa ricordare che i libri permettono a volte di fare cose sorprendenti, quando incontrano un lettore preparato a prenderli sul serio.
mercoledì 8 dicembre 2010
Presentazione di Eisner, 9 dicembre
Will Eisner (1917-2005) è stato uno dei più importanti autori di fumetti del Novecento. Oggi è celebrato soprattutto per il suo stile personale e per i suoi personaggi di grande successo, a cominciare da Spirit, oltre che per essere stato il creatore della graphic novel moderna. In aggiunta alla sua attività di soggettista e disegnatore, però, Eisner è stato anche un insegnante e un importante teorico del fumetto. A partire dagli anni Ottanta ha quindi realizzato manuali che sono allo stesso tempo riflessioni d’artista su questo mezzo di comunicazione e, grazie a un’imponente quantità di esempi grafici e di tavole di grandi autori, vere e proprie gallerie di immagini.
Come già raccontato questo blog, Fabio Gadducci e il sottoscritto hanno tradotto i due manuali più famosi di Eisner (Comics and Sequential Art e Graphic Storytelling and Visual Narrative), pubblicati quest'anno da Rizzoli in un volume unico con il titolo L'Arte del Fumetto. Giovedì 9 dicembre presenteremo il lavoro al Museo della Grafica di Pisa (Palazzo Lanfranchi) alle 17.30.
giovedì 2 dicembre 2010
Smolderen, Naissances de la bande dessinée
Nel dibattito sulla nascita del fumetto, il recente Naissances de la bande dessinée di Thierry Smolderen (Les impressions nouvelles, s. l., 2009) è un contributo non perfetto ma molto importante.
Come mai, "non perfetto"? Semplicemente perché Smolderen dedica molta attenzione a definizioni e cose marginali, o sbagliate. Il libro ha il sottotitolo "de William Hogarth à Winsor McCay", e, appunto, essendo il punto di partenza, l'opera di Hogarth è una delle cose su cui Smolderen si concentra di più. Tuttavia la sua argomentazione è strana: Hogarth è importante non perché le sue incisioni siano fumetti (non lo sono), quanto perché le sue opere sono costruite per essere decifrate (sono "diagrammatiques") e combinano elementi di tradizioni grafiche diverse in un modo che ricorda la polifonia bachtiniana del romanzo dell'epoca. Entrambi questi aspetti diventeranno importanti nel secolo successivo, e saranno alla base del protofumetto dell'Ottocento. In Hogarth convivono, secondo Smolderen, in questo modo:
"Cherchez le diagramme!" est le mot d'ordre, la règle du jeu. Quel que soit son parcours dans l'image, l'oeil découvre à chaque lecture de noveaux rapports, de nouvelles articulations ironiques. Car c'est là que réside toute la modernité d'Hogarth: sa vision polémique de la société anglaise s'exprime par diagramme interposé, en faisant jouer toutes les couches du langage graphique de son temps. La mise en oeuvre de cette "poliphonie" graphique est ce qui le rapproche des inventeurs du roman moderne comme Henry Fielding et Laurence Sterne, qui confrontaient pareillement dans leurs oeuvres toutes les veines, tous les registres du langage parlé et écrit de l'époque (p. 15).
Gli aspetti che non tornano in questa ricostruzione sono evidenti. Innanzitutto, la "decifrabilità" delle opere è una costante delle arte grafiche, non un'invenzione di Hogarth! E la "polifonia", sarà davvero passata da Hogarth ad autori come Doré e Grandville? Può anche darsi; ma in realtà Hogarth non mi sembra molto "polifonico"; in alcuni casi viene chiaramente imitato dai disegnatori successivi, ma dimostrare che sia lui alla base di tutto... beh, ci vorrebbe come minimo un altro libro!
Osservazioni discutibili si trovano poi anche in altri punti del libro. Anzi, è curioso, almeno per me, vedere come Smolderen oscilli spesso tra analisi convincenti (per esempio quando mostra la netta opposizione formale tra il Little Jack e il Little Nemo di McCay) e altre... meno. Ma la sensazione finale non è affatto quella di un libro che non funziona. Al di là dei (numerosi) punti che non convincono, l'autore ha senz'altro centrato il problema principale. In una risposta agli storici del fumetto che nella produzione grafica dell'Ottocento cercano solo embrioni del fumetto moderno, Smolderen ricostruisce un contesto complesso. Individua infatti tutta una serie di "antenati" della narrazione grafica a cui ben pochi hanno pensato in precedenza: dai repertori di espressioni facciali al servizio degli attori fino alle prime sequenze fotografiche create per ricostruire le fasi dei movimenti veloci.
Su questi punti inoltre Smolderen, più che raccontare, mostra: il corredo iconografico del libro è semplicemente fantastico, e sembra tutto frutto di ricerche di prima mano. La copertina non rende giustizia a questa incredibile galleria di immagini, mai viste in giro e spesso molto belle.
Dal mio punto di vista, poi, uno degli aspetti più interessanti (anche se marginali in questa trattazione) è il modo in cui molti autori dell'Ottocento legano il lavoro sulla stilizzazione delle immagini a una riflessione teorica. Alla ricerca, com'è naturale, di una "grammatica" dei gesti e delle espressioni. Gli esempi tratti da Cruikshank e Grandville, alle pp. 36 e 37, sono i più affascinanti, ma non gli unici, e fanno il paio con i molti tentativi dell'epoca di codificare e "scrivere" tante cose che, a differenza del linguaggio, si sono rivelate poi molto refrattarie alla schematizzazione. Tuttavia, anche se il tentativo più di tanto non può spingersi, vedere il modo in cui alcune personalità geniali cercano di affrontare il problema è senz'altro molto istruttivo!