A volte compaiono libri il cui successo è difficile da spiegare. L’editoria non è una scienza esatta... ma a quale ragione si può ricondurre la diffusione di The meaning of tingo di Adam Jacot de Boinod (sottotitolo: And other extraordinary words from around the world, Penguin, London 2005 – anche in traduzione italiana come Il senso del tingo)?
La semplicità dell’idea certo è stata un fattore. The meaning of tingo vorrebbe essere una raccolta di “wonderful words with no equivalent in the English language” (p. viii). Con questo, l’autore apparentemente intende: “parole che esprimono concetti che non sono espressi da una singola parola in inglese”. Condizione che impressiona molto i non addetti ai lavori, ma che ai linguisti e ai traduttori risulta del tutto normale. Sembra infatti diffusa l’idea che “tutti i concetti più importanti devono una parola dedicata”... ma questa in realtà è solo un’illusione. Per esempio, perfino per le relazioni di base della vita, cioè i legami di parentela, l’italiano moderno non distingue tra “figli dei fratelli o delle sorelle” e “figli dei figli o delle figlie” e chiama tutti, indistintamente, “nipoti”; né d’altra parte riesce a trovare parole per descrivere sinteticamente rapporti tipo “figlio nato da un coniuge poi divorziato” o “ex marito della madre” (per non parlare di mestieri comunissimi, da “donna delle pulizie” in poi). Non c’è quindi da stupirsi se qualche lingua esprime un concetto usando una parola dedicata, e qualche altra usando una perifrasi più o meno fissa.
The meaning of tingo dovrebbe quindi presentare lunghe serie di parole che, come l’italiano sprezzatura (p. 109), pare all’autore non abbiano una traduzione inglese fatta comodamente di una sola parola. L’autore però non è un linguista, e si vede. Né apparentemente la Penguin si è procurata un redattore in grado almeno di smussare gli strafalcioni più vistosi – giusto per dare un’idea, a p. 98 si legge che “Much linguistic research has led to the theory of an Ur-language (Indo-European) spoken some fifty thousand years ago, from which most other languages are descended”... Ma per favore!
La conseguenza più vistosa di questa ignoranza è data dal fatto che la premessa del libro (presentare “parole”) viene immediatamente ignorata. Molte delle “parole” presentate non sono in realtà unità lessicali isolate, ma polirematiche, o frasi fatte, o metafore, o proverbi, eccetera. All’italiano va meglio di altre lingue, ma, giusto per dare un’idea e limitandosi alle “parole” per cui l’autore propone una definizione all’interno di liste, tra i 25 elementi italiani ne troviamo 19 formati da parole uniche:
sventole (17), padella (25), sgasata (41), abbozzare (46), scrostarsi (48), slampadato (63), biodegradabile (66), carezza (69), movimento (71), mammismo (84), capoclaque (88), bustarella (93), sola (93), piottaro (94), squadretta (97), alba (97), sprezzatura (109), segature (110), slappare (120)
Gli altri 6 (cioè ¼ del totale) sono invece espressioni formate da più di una parola, come:
andare in camporella (67), cavoli riscaldati (67), film a luci rosse (182), romanzo rosa (182), andare in bianco (183), al verde (184).
Alla fine, a occhio, in queste pagine ci saranno due o tremila “oggetti” del genere (non ci sono indici delle forme, o delle lingue di riferimento, né strumenti che facilitino la consultazione), prelevati da diverse lingue e raggruppati per aree tematiche costruite, diciamo così, alla buona (tipo Eating and drinking). Nonostante questa sistematica confusione, il libro potrebbe ancora essere interessante dal punto di vista linguistico, come dimostrazione del fatto che tutte le parole del mondo, anche le più strane, si possono tradurre in inglese con una, due, al massimo (e raramente) tre righe di spiegazione. Insomma, potrebbe mostrare che ogni singola parola (o espressione più ampia), per quanto esotico sia il concetto che essa esprime, si rende perfettamente con poche parole inglesi, e che quindi gli esseri umani, tutto sommato, creano i propri vocabolari secondo regole precise e universali.
Diciamo, “potrebbe”. Perché, cosa ovvia date le premesse, il libro è in buona parte una gigantesca farsa anche da questo punto di vista (e, d’altra parte, non è affatto vero che tutte le parole si possano spiegare in tre righe; la terminologia tecnica e scientifica offre infiniti controesempi). Non solo le parole non-inglesi sono presentate “all’inglese”, senza uno straccio di diacritico, ma i significati sono in buona parte sbagliati o inventati o scambiati. Giusto per dare un’idea, quanti italiani chiamano le orecchie larghe “sventole” (come si pretende a p. 17, pensando evidentemente all’espressione “a sventola”)? O pensano che il “mammismo” sia “maternal control and interference that continues in adulthood” (p. 84)?
Insomma, un disastro editoriale. Un mesetto o due di lavoro da parte dell’autore e di un redattore avrebbe permesso di conservare la formula base del testo (tanto irrilevante e vacua quanto di successo), eliminando però gli errori oggettivi. Oh, beh. Chi vuol riflettere sul lessico delle lingue del mondo farà bene a tenersi accuratamente alla larga da questo mucchietto di pagine, che ha più o meno la stessa serietà di quelli che nelle librerie più smaliziate si mettono in posizione strategica accanto alla cassa – roba tipo Coniglietti suicidi, insomma.
Appunti sul linguaggio e sulla scrittura, con particolare attenzione al linguaggio del web. Un blog di Mirko Tavosanis.
venerdì 30 settembre 2011
Jacot de Boinod, The meaning of tingo
mercoledì 28 settembre 2011
Dalla Cilicia alla Cappadocia, e ritorno
La scorsa settimana ho partecipato a uno scambio Socrates / Erasmus e sono andato a fare qualche ora di lezione sull’italiano del web alla Çukurova Üniversitesi di Adana in Turchia (in Cilicia, cioè quasi al confine con la Siria). Ne ho approfittato per attraversare in un comodo autobus le Porte di Cilicia e fare un salto anche in Cappadocia: un giorno e mezzo nei classici posti da turisti – Göreme, Ürgüp, Uçhisar.
Ma, per quanto sia divertente andare in giro in sandali tra i pinnacoli e le chiese bizantine scavate nella roccia, naturalmente la parte interessante del viaggio consiste nel cercare di capire qualcosa delle altre università. Da questo punto di vista, gli scambi Socrates / Erasmus mi sembra svolgano perfettamente il loro ruolo, consentendo di dare un’occhiata da vicino a realtà che altrimenti non ci sarebbe modo di conoscere.
Più in dettaglio, non essendoci alla Çukurova un insegnamento di italiano, io ho fatto lezione a studenti del dottorato in didattica dell’inglese. Ho anche cercato di costruire le presentazioni in quest’ottica, ed è stato un po’ imbarazzante presentare alcune informazioni elementari a persone che conoscono l’inglese meglio di me, e che di sicuro lo parlano molto meglio. Però è andata, le discussioni sono state vivaci, e alla fine gli argomenti coperti dovrebbero essere utili per chi si trova poi a fare didattica...
Comunque, parlando coi colleghi e con gli amministrativi, ho scoperto che ogni tanto non ci capivamo sul rapporto con gli studenti. In effetti, io davo per scontato che lì si insegnasse in turco, e loro davano per scontato che a Pisa si insegnasse in inglese – almeno per argomenti come la linguistica. Eh, beh, non è così! Il sito web della Çukurova Üniversitesi spiega che:
The language of instruction in almost all the programs of the university is Turkish. However, the language of instruction in the Electric-Electronics and Mechanical Engineering Departments of the Faculty of Engineering and Architecture is English.
Io ho avuto la sensazione che l’uso sia più ampio, ma comunque la cosa dà da pensare. È un bel taglio di competenze, rispetto a quello che si può fare (e di regola si fa) nei principali paesi occidentali.
Soprattutto, colpisce la differenza tra questo stato di cose e quello della strada. Non solo ad Adana, ma anche nel cuore turistico della Cappadocia non ho trovato nessuno che sapesse parlare inglese al livello di sostenere una conversazione – solo qualche tassista e la receptionist di un albergo di lusso per stranieri. Per cui, sull’autobus o per strada, ci si intende solo a gesti; e dopo aver detto “Italia” si rimane muti. Non so se arriveremo tanto presto al momento in cui tutti, in tutto il mondo, saranno in grado di chiacchierare un po’ in inglese, ma se ci arriveremo, sarà un grande momento. Viceversa, non credo che sarebbe un grande momento quello in cui tutte le università del mondo insegnassero unicamente in inglese. Non sarebbe neanche una grande catastrofe, beninteso; ma, a differenza dell’altro, non è un obiettivo sensato da raggiungere.
sabato 24 settembre 2011
Malaparte, Kaputt e l'alfabetizzazione
È preoccupante se ritengo che Kaputt sia un bel libro? Di sicuro è importante come documento storico (anche se molto di parte) scritto nel mezzo di una delle massime tragedie dell’umanità; ma bello? Con il suo dannunzianesimo di terza mano, la prosa d’arte, i lunghi pranzi dagli ambasciatori, le mani diafane, le digressioni artistiche e musicali tra un massacro e l’altro? Le ipocrisie più o meno nascoste dell’autore?
Beh, a me è piaciuto, e me lo sono letto quasi d’un fiato (due anni fa Adelphi ne ha pubblicato una nuova edizione; io mi sono però portato in vacanza quella che ho trovato nella biblioteca del mio Dipartimento, pubblicata da Vallecchi nel 1964, a cura di Enrico Falqui). Alcuni pezzi sembrano frutto di un lampo di genio: la conclusione, per esempio, tranciante e perfettamente appropriata. Ma dal punto di vista letterario, Malaparte ha il vantaggio di aver attraversato il teatro più importante della Seconda guerra mondiale, cioè il lungo fronte dell’Europa dell’Est, dalla Finlandia ai Balcani, e di averlo fatto dall’interno, nella doppia veste di ufficiale dell’esercito italiano e di giornalista e pubblicista di fama internazionale.
In aggiunta a questo, il libro ha poi qualcosa da insegnare anche dalla mia angolazione. Innanzitutto, per gli scorci che apre sulla superba vacuità della cultura “umanistica” tradizionale: le conversazioni cialtronesche (e, temo, ricostruite in modo piuttosto fedele) sugli argomenti più svariati; le velleità intellettuali di gente come il mio concittadino Hans Frank, l’ex avvocato difensore di Hitler promosso a Generalgouverneur della Polonia conquistata; e così via. Si può oggi sorridere delle teorie sulla natura femminile dei dittatori, e sulla teoria che i tedeschi facciano la guerra perché hanno paura di chi è debole o vittima. Ma su queste chiacchiere vuote si è retta – e per certi aspetti si regge ancora – una classe sterminata di persone molto brave a convincere gli altri, ma del tutto incapaci di capire ciò che è vero, o giusto, o umano.
Poi, naturalmente, c’è l’altra faccia della medaglia. Tipo le “lezioni all’aperto” sul fronte russo: Malaparte dice di averne vista una sola, “nel kolkhoz di un villaggio presso Nemirowskoie” (p. 320), con i prigionieri sovietici tenuti immobili dai tedeschi nel cortile, sotto la pioggia. A un certo punto, un Feldwebel annunciando “che ora si sarebbe fatta la prova della lettura, che ciascuno avrebbe dovuto leggere ad alta voce un brano di giornale: e che chi avesse superato la prova con onore sarebbe stato destinato come scrivano negli uffici dei campi di prigionieri; gli altri, quelli che non avessero superato la prova, sarebbero stati mandati a lavorare la terra, o a fare i manovali o gli sterratori” (p. 321).
Dopodiché, i prigionieri si sforzano disperatamente di leggere “vecchi numeri dell’Isvestia o della Pravda” (p. 323). Tra i primi cinque, uno solo viene “promosso”, e ride. I cinque del secondo gruppo “si sforzavano di legger bene, senza inciampar nelle parole, senza sbagliare gli accenti, ma due soli riuscivano a legger correntemente; gli altri tre, rossi in viso per la vergogna, o pallidi d’angoscia, tenevano il giornale stretto fra le due mani, e ogni tanto si leccavano le labbra arse”; e così via (pp. 324-325). Per un’ora, chi non supera la prova arrossisce e si vergogna, chi la supera si schiera dalla parte dei “promossi”, orgoglioso e soddisfatto. Al termine della prova, il Feldwebel conta rapidamente i due gruppi: ottantasette bocciati e trentuno promossi. I promossi, contenti, vengono messi in riga. L’ufficiale li fa marciare fino al muro di cinta; schiera una squadra di SS, e, a manovra terminata, come tutti i lettori di Malaparte hanno immaginato fin dall’inizio della storia, dà l’ordine: Feuer!
Svanita l’eco degli spari, l’interprete (un tedesco maestro di scuola a Melitopol), spiega quindi a Malaparte: “Bisogna ripulir la Russia di tutta questa marmaglia letterata. I contadini e gli operai che sanno leggere e scrivere troppo bene, sono pericolosi. Tutti comunisti.”
- Natürlich, - risposi. - Ma in Germania tutti, operai e contadini, sanno leggere e scrivere benissimo.
- Il popolo tedesco è un popolo di alta Kultur.
- Naturalmente, - risposi, - un popolo di alta Kultur.
- Nicht wahr? - disse ridendo il Sonderführer, e s’avviò verso gli uffici del Comando.
E io rimasi solo in mezzo al cortile, davanti ai prigionieri che non sapevano leggere bene, e tremavo tutto (pp. 327-328).
Ecco, leggere e scrivere, avere una cultura e una letteratura, ha significato anche questo. A volte è bene ricordarsene.
venerdì 9 settembre 2011
Gadducci e Tavosanis, Printers, Poets, Publishers and Painters
Ho appena ricevuto il volume The Printed Media in Fin-de-siècle Italy. Publishers, Writers, and Readers, a cura di Ann Hallamore Caesar, Gabriella Romani e Jennifer Burns (Legenda, London, 2011; ISBN-13: 978-1906540746), che raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Seton Hall nell’ottobre del 2008. All’interno c’è anche un contributo di Fabio Gadducci e mio: Printers, Poets, Publishers and Painters: The First Years of the Giornale per i bambini (pp. 163-176).
L’argomento del nostro articolo è, a mio modesto parere, molto interessante e divertente. In sostanza, siamo andati a leggerci la corrispondenza di Ferdinando Martini e di Guido Biagi, che nel 1881 lanciarono il Giornale per i bambini, primo periodico “moderno” per l’infanzia in Italia. E le lettere, in buona parte conservate alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, mostrano in dettaglio il modo in cui Biagi e Martini assegnavano il lavoro a scrittori e illustratori.
Particolarmente notevole è il rapporto tra testo e immagini che emerge da quelle pagine: come spiega pazientemente Biagi in un memorandum a un avvocato, nel mezzo dello scandalo Oblieght, “le nostre vignette non son fatte per gli articoli, mentre viceversa si fanno far gli articoli sulle vignette”. Cioè, com’era consuetudine nei periodici italiani del tempo, gli editori compravano stock di cliché stranieri per le illustrazioni, e passavano poi le immagini agli scrittori italiani, perché ci lavorassero e producessero storie e articoli su quella base. Poche le eccezioni, tra cui spicca la seconda parte di Pinocchio - storia che, inizialmente senza illustrazioni, apparve sul Giornale fin dal primo numero, contribuendo non poco al successo della pubblicazione, e che a partire dalla seconda parte fu accompagnata dalle (non bellissime) illustrazioni di Ugo Fleres.
Il problema delle immagini non è però l’unico punto d’interesse delle lettere di Biagi e Martini. E, in generale, il lavoro su questo contributo è stato l’occasione per fare una simpatica rimpatriata nella storia d’Italia e ricordare che il modo in cui oggi concepiamo il rapporto tra testi e immagini non è l’unico possibile, e di fatto non era l’unico neanche in epoche relativamente recenti (e poi, non è stata una brutta cosa approfondire la conoscenza di un personaggio come, appunto, Ferdinando Martini: divenuto col tempo, da giornalista e scrittore per il teatro, governatore dell’Eritrea).
mercoledì 7 settembre 2011
Luigi Einaudi e la superstizione degli orari lunghi
Dal 2009, la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa sottopone i nuovi iscritti (quasi mille all’anno) a un test d’ingresso. Al momento i test sono stati ripetuti cinque volte: tre a settembre, nel 2009, nel 2010 e nel 2011, e due a febbraio, nel 2010 e nel 2011, per chi non ha potuto partecipare al test di settembre – che si svolge quando ancora molti studenti non si sono iscritti. In tutti i casi, la prima sezione dei test è stata costituita da una sezione di “Comprensione del testo”, in cui i candidati devono leggere tre estratti da opere in prosa di ambito “umanistico” e rispondere a un totale di quindici domande a scelta multipla basate su ciò che hanno letto.
Scegliere le opere per questa prova è piuttosto impegnativo, e, all’interno della sottocommissione che si occupa di preparare i test, questo è un compito che finora è sempre stato assegnato a me. Per la prova del settembre 2011, che si è tenuta ieri, ho scelto tra gli altri un testo interessante, ma forse non troppo noto, di Luigi Einaudi: l’inizio di un articolo intitolato La superstizione degli orari lunghi che il futuro secondo presidente della Repubblica Italiana pubblicò sul Corriere della sera del 21 aprile 1913. Il testo è inserito anche nell’antologia Il buongoverno, pubblicata da Laterza, che oggi forse è la raccolta più diffusa degli scritti di Einaudi (vedo che in rete ne esiste una versione con testo leggermente diverso) – ma chi legge Einaudi, oggi? Mi sa che siamo rimasti in pochi...
A quasi cent’anni dalla sua prima pubblicazione, l’articolo ha purtroppo resistito bene al tempo. Dico “purtroppo” perché, nella sostanza, gli errori didattici e pedagogici di cui parla sono tuttora diffusi, e anche la parte che ho selezionato per i test riguarda in effetti un tema ancora oggi molto vivo: qual è l’orario ideale di lezione? La risposta di Einaudi per le scuole superiori, basata anche sulla sua esperienza personale come docente, è drastica: al massimo, "tre ore con qualche intervallo di riposo". Il resto del tempo deve essere dedicato allo studio personale.
La stima può sembrare pre-scientifica. Tuttavia, non è che la scienza su questo punto sia andata poi molto avanti. Anzi, molte decisioni didattiche recenti sembrano basate su fondamenta empiriche non più solide di quelle di Einaudi, o del tutto assenti.
Prendiamo un esempio che mi tocca da vicino: il rapporto tra ore di lezione e studio individuale nelle università italiane. Dal 2001 la didattica viene suddivisa e misurata in “crediti”, ognuno dei quali corrisponde convenzionalmente a 25 ore di studio da parte di uno studente. Un anno di università corrisponde a 60 crediti, quindi a 1500 ore di studio (pochi fanno poi il calcolo successivo: ammettendo un impegno di 8 ore al giorno, come in un normale orario lavorativo, 1500 ore significherebbero 37 settimane e mezzo, lasciando agli studenti 14,5 settimane libere all’anno, cioè tre mesi di vacanze...). Quante di queste ore di studio devono essere occupate dalle lezioni?
La risposta corretta è ovviamente: “dipende”. Per alcune materie e discipline (tra cui, direi, quelle che si occupano di insegnamento della scrittura, o di abilità simili) il rapporto può essere molto basso... poche parole del docente possono richiedere ore di studio per essere ben comprese. In altri casi, se il corso richiede la presentazione di nozioni facilmente assimilabili, può viceversa essere necessario aggiungere ben poco lavoro personale al tempo trascorso in aula. Il rapporto tra lezione e studio sembra insomma estremamente variabile, e l’unico modo sensato per determinarlo, direi, è basarsi sull’esperienza.
La burocrazia universitaria ha però un funzionamento tutto suo. Nel caso dell’Università di Pisa, per esempio, è stato arbitrariamente stabilito che a partire dall'anno accademico appena trascorso per ogni credito devono essere fatte al minimo 7 ore di lezione in aula (lasciandone quindi, presumibilmente, 18 per lo studio individuale). Lo standard precedente era 6, alcune proposte puntavano a 5... ma ovviamente, a quel che mi risulta, nessuno di questi numeri è stato verificato sul campo (e, se lo fosse, sarei molto sorpreso se si scoprisse che è il valore ottimale per tutte le materie, a cominciare dalle mie). Rispetto alla saggezza di Einaudi la pratica contemporanea non sembra abbia fatto alcun passo avanti.
Nella pratica, però, quanto studiano gli studenti? Il rapporto 7 ore di lezione / 18 ore di studio individuale corrisponde alla realtà? Non conosco dati italiani, ma il già citato Academically adrift di Arum e Roska fornisce le indicazioni di un’ampia ricerca empirica per gli studenti americani. E il risultato, forse un po’ sorprendente, è che nel campione preso in esame, a fronte di 15 ore settimanali di lezione, gli studenti studiano individualmente per solo 12 ore – numero che non aumenta di molto nemmeno nelle istituzioni “selective” e di buona fama (loc. 1975). Sospetto che nel caso italiano le medie siano piuttosto simili... ma, appunto, si tratta solo di un sospetto, in mancanza di dati più solidi.