Doonesbury è da trent’anni uno dei miei fumetti preferiti. Uno dei motivi per cui mi piace è che il suo creatore Garry Trudeau si inserisce in pieno in una grande tradizione americana: dire, costantemente, cose intelligenti sul mondo. Non si tratta di fare sceneggiate, invettive, grandi sfoghi retorici. No: cose intelligenti. Il che implica anche, come corollario: cose documentate.
Doonesbury è nato quarant’anni fa come fumetto universitario. Si è distaccato molto da questa base, ma chi scrive e disegna in questo modo, negli Stati Uniti, deve regolarmente fare i conti con l’università. I lettori affezionati di Doonesbury si trovano quindi a seguire spesso le vicende del Walden College, l’università frequentata quarant’anni fa dai primi personaggi della serie e in cui oggi si trovano a vivacchiare alcuni degli esponenti della generazione più giovane del cast. Nel frattempo, il Walden College ha preso la fisionomia di eminente “remedial school”: il posto in cui anche i peggiori studenti possono essere tranquillamente ammessi (purché paghino), i voti sono tutti A, si rimanda la laurea il più possibile e nell’attesa non si studia assolutamente nulla.
In linea con questa filosofia, la tavola domenicale di Doonesbury del 14 agosto 2011 mostra il rettore del Walden College alle prese con uno zelante collaboratore che gli mostra i dati di un’indagine recente: dal punto di vista del pensiero critico, della capacità di condurre ragionamenti complessi e della capacità di scrittura, quasi la metà degli studenti americani sembra non ricavi nessun guadagno dai propri studi universitari. La risposta del rettore è cinica, ma, dal punto di vista sociale, secondo Trudeau, un filino inadeguata...
A quale indagine fa però riferimento l’autore? Il fumetto non ha note esplicative, ma direi senz’altro al lavoro condotto da Richard Arum e Josipa Roska i cui risultati sono contenuti nel libro Academically adrift, da cui riprendo le informazioni proposte qui di seguito (i rinvii sono riferiti, al solito, alla location su Kindle). Diciamo poi subito che Trudeau sintetizza benissimo il nucleo del libro. Arum e Roska da un campione di 2322 studenti universitari (loc. 509), provenienti da 24 college di diverso tipo. Le capacità di ogni studente del gruppo sono state misurate poi due volte: nel semestre autunnale del 2005 e in quello primaverile del 2007. In entrambi i casi, gli autori hanno usato per la misurazione il test CLA (Collegiate learning assessment: 529), che è uno strumento pensato appunto per misurare general skills di alto livello – il che significa, in sostanza, comprensione di problemi complessi ma non specialistici, e capacità di scrittura. Agli studenti vengono forniti documenti che riguardano situazioni inventate ma verosimili (per esempio: a un’azienda conviene comprare un determinato tipo di aereo?), e viene chiesto di scrivere al computer, in 90 minuti, una risposta articolata e adeguata.
Ciò che Arum e Roska intendevano misurare non era tanto il livello assoluto degli studenti – la cui adeguatezza è sempre discutibile – quanto il miglioramento. Due anni di università migliorano le prestazioni? La risposta, un po’ sconcertante per alcuni, è: solo nella metà dei casi. Nell’altra metà, il punteggio ottenuto al CLA non migliora.
Gli autori naturalmente precisano che ciò non significa che gli studenti non imparino nulla. Ciò che il CLA misura “is far from the totality of learning or the full repertoire of skills acquired in higher education” (2181). Un medico o un ingegnere possono imparare un sacco di nozioni utili, anche se la loro capacità di comprendere un problema complesso non migliora. Però l’idea che l’università debba anche insegnare a pensare è diffusa negli Stati Uniti (meno, direi, in Italia). E gli autori insistono non a torto sul fatto che le abilità misurate sono comunque key skills:
One could hardly argue that we would not want teachers who are educating our children, or business majors who might be responsible for applying home mortgage loans, to develop the capacity to think critically or reason analitically (2188).
In effetti... ma il discorso degli autori è molto articolato, e merita un post a parte. Anche perché, cosa che mi riguarda direttamente, l’aspetto interessante del CLA è che, come buona parte dei test PISA, misura la capacità basandosi sulla comprensione del testo e sulla capacità di scrittura. In un momento in cui sono impegnato a preparare buona parte dei test d’ingresso per la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, la lettura del libro di Arum e Roska si rivela quindi particolarmente stimolante.
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