mercoledì 16 dicembre 2020

Papa e Tavosanis, Valutazione umana di DeepL a livello di frase per le traduzioni di testi specialistici dall'inglese verso l'italiano


 
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Vale davvero la pena tenere d’occhio gli sviluppi della traduzione automatica… è uno dei rarissimi casi in cui la tecnologia è più avanti di quel che sembra!
 
Adesso è appena uscito un contributo scritto da un bravo studente, Sirio Papa, e da me: Valutazione umana di DeepL a livello di frase per le traduzioni di testi specialistici dall’inglese verso l’italiano. Il contributo appare negli atti del convegno CLiC-it 2020, che avrebbe dovuto tenersi quest’anno ma che è stato spostato al marzo 2021: speriamo possa tenersi in presenza.
 
I risultati del lavoro, per quanto incredibile ciò ancora mi sembri, confermano altri studi recenti, in cui si è parlato molto di raggiungimento della “parità” tra traduzione automatica e traduzione umana. Per quanto riguarda l’“adeguatezza”, cioè in sostanza la correttezza dei contenuti, nel mio campione la traduzione automatica è risultata al livello di quella umana. Non arriva invece al livello di quella umana per la “scorrevolezza”, definendo in questo modo il rispetto di tutte le regole grammaticali, l’uso delle collocazioni tipiche di una lingua, eccetera, ma la differenza è davvero ridottissima. Di tutto questo ho già parlato l’anno scorso, parlando della presentazione fatta a Bari e del contributo pubblicato

In quanto ai risultati del lavoro appena uscito, che confermano e rafforzano i precedenti, sono stati ottenuti sottoponendo a un gruppo di 15 valutatori le traduzioni di 108 frasi inglesi. Di ogni frase sono state valutate due diverse versioni, una tradotta da esseri umani e l’altra tradotta da DeepL. Le frasi sono state divise in due gruppi e presentate ai valutatori in ordine casuale, senza informazioni su chi avesse tradotto ogni singola frase. I risultati complessivi, in scala da 1 a 5, sono stati questi:
 
Adeguatezza 
  • Umano: 4,29 
  • DeepL: 4,31
Scorrevolezza 
  • Umano: 4,17 
  • DeepL: 4,09
Insomma, la traduzione automatica ha ricevuto addirittura un punteggio più alto di quello della traduzione umana per quanto riguarda l'adeguatezza, ma la differenza è tanto ridotta da non essere statisticamente significativa: in pratica, si tratta di parità. È invece statisticamente significativo il vantaggio del traduttore umano per la scorrevolezza… ma, come si vede, il margine è comunque molto, molto ridotto.
 
Se al di là dei numeri interessano gli aneddoti, poi, forse è il caso di raccontarne uno. Quando ho ricevuto il documento con le frasi estratte a caso da traduzioni eseguite da DeepL, l’ho scorsa e ho contattato il mio coautore, dicendo: “ci deve essere un errore! Queste mi sembrano le frasi tradotte da traduttori umani”. La risposta, come si sarà immaginato, è stata: “no, no, sono proprio quelle di DeepL”…
 
Vale poi la pena di precisare due cose importanti. La prima è che la valutazione è stata condotta, a differenza dei miei esperimenti precedenti, su testi specialistici: brevetti, manuali, schede di sicurezza. I settori di provenienza erano “biomedicina e discipline del farmaco” e “ambiente ed energia”. E prima di fare la valutazione, confesso che non avevo idea di che cosa sarebbe venuto fuori: questi testi si prestano bene alla traduzione automatica, perché per esempio la sintassi è più rigida di quella di altri tipi di testo? O si prestano male, perché per esempio le difficoltà nella traduzione della terminologia sono insormontabili? Direi che i risultati, come minimo, garantiscono che le difficoltà non sono insormontabili.
 
La seconda cosa, connessa, è che la valutazione è stata condotta grazie al contributo volontario degli studenti e dei docenti (in particolare, delle professoresse Isabella Blum e Silvia Barra) del Master on line in Traduzione specialistica inglese > italiano erogato dal Consorzio ICoN: li ringrazio tutti sentitamente! Il loro coinvolgimento è stato essenziale perché, com’è ovvio, non si può valutare la qualità della traduzione se non si sa che cosa significa il testo originale, o anche solo se determinate parole esistono o no nell’uso italiano.
 
Prossimi sviluppi? Probabilmente passare a valutare testi interi, non più singole frasi. La cosa è difficile e pone anche problemi metodologici (come si fa a nascondere al valutatore l’origine anche solo di un articolo di giornale? Per rendere evidente la provenienza basta che sia presente all’interno anche un solo errore che un essere umano non commetterebbe mai); ma un paio di idee le ho, e forse potrò provare ad applicarle nel 2021.
 
Aggiungo poi che anche in questo caso sono lieto di aver pubblicato l’articolo in italiano, in un contesto in cui la conferenza accetta sia italiano che inglese, ma, se vedo bene, su 69 articoli accettati quelli in italiano sono solo 4. Meglio dei 2 su 75 dell’anno scorso, peraltro! E chissà che la traduzione automatica non permetta comunque la lettura anche a chi non conosce l’italiano...
 
Sirio Papa e Mirko Tavosanis, Valutazione umana di Google Traduttore e DeepL per le traduzioni di testi giornalistici dall’inglese verso l’italiano, pp. 1-7, in CLiC-it 2020 – Proceedings of the Seventh Italian Conference on Computational Linguistics Bologna, Italy, March 1-3, 2021, a cura di Johanna Monti, Felice Dell’Orletta e Fabio Tamburini, CEUR Workshop Proceedings, Aachen University, ISSN 1613-0073.
 

martedì 24 novembre 2020

Giacche e calzoncini


 
Più passa il tempo, meno mi dà fastidio lasciare le cose del passato. Anzi, alleggerirmi mi fa piacere… e, anche dal punto di vista pratico, negli ultimi giorni ho fatto un bel po’ di pulizia tra vestiti e scarpe. Quello che non posso o non voglio più usare è stato quindi accompagnato al contenitore della San Vincenzo in via Lucchese.
 
Alcune cose però le ho accompagnate meno volentieri. Per esempio, una vecchia giacca antivento della Decathlon, da venti euro o giù di lì. Era una giacca di plastica, di bassa qualità, ma che si è rivelata perfettamente funzionale in un sacco di occasioni. Non so quando l’ho comprata… ce l’avevo già, sicuramente, nell’aprile del 2007 e me la vedo addosso in una foto davanti al ponte del Firth of Forth, in Scozia, nel luglio sempre del 2007:


  
Qualche anno più tardi il suo cappuccio staccabile era rimasto in un bar di Toirano; era tutta chiazzata di vernice e ormai il rivestimento esterno si lacerava da solo. Però ci avevo avvoltolato dentro mia figlia diverse volte, per farla dormire a terra al caldo, quando aveva due o tre anni e la portavo nello zaino a fare lunghe camminate. Per esempio, una indimenticabile – per me – sulle spiagge di Rosignano (24 febbraio 2008) o sul percorso della vecchia ferrovia della Lama (27 agosto 2009). 
  

Alla fine un po’ mi ero affezionato a quella giacca. Oppure ai calzoncini leggeri che avevo comprato nel 2012 per andare a Hong Kong in treno: leggerissimi, si asciugavano al volo e si sono rivelati praticissimi. Anche lì il tessuto ormai era logoro; per qualche anno ho coperto buchi e strappi con toppe adesive, ma quest’estate le lacerazioni hanno vinto.
 
Un po’ alla volta poi toccherà al resto, credo. L’accappatoio Bassetti (comodissimo) che ho da trent’anni ma che ormai ha ceduto in modo impossibile da riparare. La giacca Sisley in cotone nero, comprata usata per € 15 al Mercatone anni fa e che mi ha tenuto caldo in un safari in Kenya, mi ha fatto da coperta e cuscino su treni in India e in Giappone, mi ha accompagnato a innumerevoli lauree, matrimoni, consigli di Dipartimento… I vestiti sono attrezzi, e quando arriva la loro stagione è il momento di lasciarli andare. Però qualcuno mi fa piacere ricordarlo.
 

venerdì 20 novembre 2020

Ripartenza?


 
Locandina della conferenza EL COMIC ITALIANO
Dal punto di vista del lavoro, il 2020 per me è stato un anno eccezionalmente difficile. La ragione principale, forse, è stata la più ovvia: il Covid-19 e tutti gli impegni connessi con lo spostamento del lavoro a distanza hanno portato a un forte aumento del carico per le attività normali.
 
Inoltre, non ci sono state solo le attività normali! Parlando anche solo dell’insegnamento… Per il mio Laboratorio di scrittura del II semestre dell’anno accademico 2019-2020 avevo chiesto supporto per gestire il carico di lavoro, ma per una perversa congiuntura di eventi il supporto non è arrivato. La ripetizione del corso, che avrebbe dovuto tenersi nel II semestre dell’anno accademico 2020-2021, è stata anticipata al primo semestre, cioè a questo. I corsi OFA a distanza di cui mi occupo si sono moltiplicati e, anche se questa è una soddisfazione, perfino qui all’inizio non è stato possibile avere un supporto. In aggiunta, in questo semestre ho gestito e in parte tenuto un corso di Italian linguistics, ovvero di Linguistica italiana in inglese (!) per studenti stranieri. In circostanze normali, gestire tutto questo sarebbe stato impegnativo ma ragionevole. Nelle attuali circostanze… diciamo che sono stati mesi molto impegnativi!
 
Mi è anche spiaciuto non poter partecipare tanto quanto in passato alla Settimana della lingua italiana nel mondo, che quest’anno ovviamente si è tenuta tutta a distanza. Mi è spiaciuto particolarmente perché il tema della Settimana, quest’anno, era particolarmente bello: L’italiano tra parola e immagine: graffiti, illustrazioni, fumetti.
 
Per fortuna, grazie a un gentile invito di Marco Marica e Matteo Cattaneo, direttori rispettivamente degli Istituti Italiani di Cultura di Città del Messico e Città del Guatemala, ho avuto se non altro la possibilità di fare una conferenza sul rapporto tra lingua italiana e fumetti e un corso per docenti. La conferenza era in spagnolo: ho scritto il testo in italiano, i traduttori degli IIC l'hanno tradotto e poi io l'ho letto in spagnolo... mi chiedo che impressione ne abbiano avuto gli ascoltatori! Ma i docenti che hanno partecipato al corso si sono confermati davvero bravi (avevo già conosciuto diversi di loro nel 2018) e hanno anche proposto diverse attività molto interessanti. Per inciso, i fumetti più usati, sia nel corso sia nella loro pratica normale di insegnamento, si sono rivelati la Pimpa e Mafalda (che, anche se non è italiano, è talmente popolare nei paesi di lingua spagnola da rappresentare un punto di riferimento).
 
Per finire, poi, alla fine di ottobre sono stato eletto presidente dei Corsi di studio (triennale e magistrale) in Informatica umanistica qui a Pisa. È indubbiamente un onore – e anche un impegno molto consistente.
 
In questa veste, giusto ieri ho presieduto la mia prima sessione di laurea. Tra triennale e magistrale, i laureandi erano 19 – e io ho fatto da relatore per sei di loro. Anche questo è stato un bell’impegno, ma alla fine è andato tutto benissimo e le tesi, al solito, sono state una splendida fonte di motivazione. Se è possibile fare tutto questo lavoro nel mezzo della seconda ondata, qualche possibilità di miglioramento ce l’abbiamo! E spero che da adesso in poi, un po’ alla volta, tante altre situazioni possano migliorare.
 

mercoledì 30 settembre 2020

Tavosanis, Le discussioni di Wikipedia

  
 
Intestazione di Lingue e culture dei media

A pochi mesi dal precedente, è uscito un nuovo numero della rivista Lingue e culture dei media, diretta da Ilaria Bonomi e Mario Piotti. All’interno c’è un mio contributo che si intitola Le discussioni di Wikipedia: una lunga descrizione, in prospettiva linguistica e non solo, del modo in cui funzionano le discussioni su Wikipedia in lingua italiana.
 
Quello della rivista, stavolta, è un numero monografico, curato da Angela Ferrari, Letizia Lala e Filippo Pecorari e dedicato ad Accordi e disaccordi in rete: aspetti linguistici, comunicativi e psicosociali. All’interno si trovano contributi nati a partire degli interventi dal convegno di Basilea dedicato lo scorso anno allo stesso tema, affrontato da diverse angolazioni: le attività online dell’Accademia della Crusca, le recensioni ai libri e agli hotel, le discussioni dei politici, gli insulti… Il quadro che ne risulta mostra bene quanto la comunicazione in rete sia differenziata al proprio interno, e spesso interessante proprio per questa differenziazione.
 
Il mio lavoro, poi, si inserisce in un filone di cui avevo già parlato: analisi di Wikipedia in lingua italiana, in cui lo studio linguistico si ricollega anche ad altre questioni.
 
In quanto al merito, non tutti sanno che su Wikipedia le (discussioni, pubbliche, frequenti e condotte in spazi dedicati), sono uno strumento centrale per la vita della comunità collegata. Wikipedia fornisce inoltre regole esplicite e molto dettagliate per la gestione dei disaccordi e la ricerca del consenso. L’operato degli autori sembra però motivato più dal dissenso che dal consenso: il desiderio di mostrare di aver ragione è probabilmente una delle principali motivazioni per scrivere sul sito.
 
Il prodotto di questa e di altre spinte contrastanti sono discussioni spesso molto articolate e dettagliate, lontanissime da quelle che si possono trovare nelle reti sociali. Al tempo stesso, va detto che la loro natura è probabilmente legata al profilo sociolinguistico degli interlocutori: impossibile da definire fino in fondo, ma evidentemente di livello socioeconomico superiore alla media, con titoli di studio spesso legati all’informatica o all’ingegneria. Sia per la centralità del sito nella vita contemporanea, sia per la peculiarità delle forme, credo che studiare queste discussioni valga la pena – e, spero, ulteriori approfondimenti in futuro.
 
Mirko Tavosanis, Le discussioni di Wikipedia , in Lingue e culture dei media 4, 2, 2020, ISSN 2532-1803, pp. 59-77, liberamente consultabile e scaricabile in linea. 
ORCID: https://orcid.org/0000-0002-4730-3901 
DOI: https://doi.org/10.13130/2532-1803/14333 
 

mercoledì 5 agosto 2020

Tavosanis, L’italiano di Wikipedia e la didattica della scrittura

  
 
Intestazione di Lingue e culture dei media

È uscito la settimana scorsa il nuovo numero della rivista Lingue e culture dei media, diretta da Ilaria Bonomi e Mario Piotti; rivista che tra l’altro ha il merito di rendere i contenuti liberamente disponibili con licenza CC BY 4.0. All’interno di questo numero (4, 1) c’è anche un mio contributo che si intitola L’italiano di Wikipedia e la didattica della scrittura e che, ovviamente, descrive il tipo di italiano usato su Wikipedia, dando ampio spazio alle applicazioni didattiche.
 
Il lavoro per me è particolarmente importante perché è il primo di una serie di contributi dedicati a Wikipedia; contributi che, con un po’ di fortuna, dovrebbero uscire con regolarità nei prossimi mesi. In passato avevo già descritto in un intervento a Pisa e in un altro a Siena le mie esperienze con l’uso di Wikipedia nei miei corsi, ma qui inizio ad allargare il campo, descrivendo le caratteristiche generali della scrittura di Wikipedia in lingua italiana.
 
Si tratta ancora di primi assaggi, visto che le dimensioni di Wikipedia richiedono un bel po’ di lavoro per disegnare un quadro accurato, ma intanto è importante partire. Ciò che si può dire ora, per esempio, è che le indicazioni esplicite fornite dalla comunità nel Manuale di stile dell’enciclopedia sono ben compatibili con la tradizione italiana di lavoro sulla chiarezza e comprensibilità della scrittura. E, per quanto riguarda la pratica, gli assaggi fatti mostrano una ragionevole capacità di applicare la teoria. L’indice Gulpease è 50,3 e, anche se le tipiche voci di Wikipedia sono brevi e schematiche, in un sondaggio su 10 voci estratte a caso ne è comparsa solo una con forti problemi espressivi. 
 
Inoltre, è proprio la migliorabilità di Wikipedia a rendere lo strumento interessante dal punto di vista didattico! Con un po’ di pratica, gli studenti delle scuole e dell’università possono essere coinvolti, a livelli diversi, nella correzione e nell’ampliamento di tanti aspetti delle voci. Il contributo propone quindi, sulla base delle esperienze che ho avuto in questi anni, spunti per una serie di attività su piani che vanno dalla correzione ortografia alla scrittura di voci complete.
 
I prossimi lavori (con un po’ di fortuna) riguarderanno poi l’ideologia linguistica di Wikipedia, il modo in cui si svolgono le discussioni al suo interno e le implicazioni linguistiche della parafrasi di testi al servizio dell’enciclopedia.
 
Mirko Tavosanis, L’italiano di Wikipedia e la didattica della scrittura, in Lingue e culture dei media 4, 1, 2020, ISSN 2532-1803, pp. 8-26, liberamente consultabile e scaricabile in linea.
 

venerdì 24 luglio 2020

Tavosanis, Misurazione del lessico specialistico nei sistemi per il trattamento automatico del parlato

  
 
Copertina di: Linguaggi settoriali e specialistici
Ho appena ricevuto una copia del corposo volume Linguaggi settoriali e specialistici curato da Jacqueline Visconti, Manuela Manfredini e Lorenzo Coveri. Il volume presenta gli atti del XVI congresso della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, tenuto a Genova nel 2018, e al suo interno c’è anche un mio contributo.
 
Il contributo è dedicato alla Misurazione del lessico specialistico nei sistemi per il trattamento automatico del parlato. In pratica, presenta i risultati di due indagini sul modo in cui la terminologia specialistica in italiano viene gestita dai sistemi commerciali di riconoscimento del parlato.
 
La prima indagine ha riguardato la capacità di definizione di terminologia specialistica da parte di Google Home: su 21 termini selezionati a caso nel dizionario di De Mauro, per 13 è stata fornita la definizione corretta; per 8 è stata fornita la definizione di una parola sbagliata ma affine foneticamente; per 4 è stato fornito un messaggio di errore. Non c’è niente di sorprendente in questo, visto che spesso anche gli esseri umani, fuori contesto, hanno problemi a decidere se una richiesta di chiarimento riguarda la catàstasi o la catarsi, il floccaggio o il bloccaggio, il widia o la lìbia, ‘donna libica’. Semmai, migliorare la capacità di definizione richiede fare ricorso a una base dati più ampia (questa funzione di Google si basa sul dizionario Devoto-Oli ripreso da WordReference). Inoltre, i dubbi di pronuncia potrebbero venir risolti spiegando chiaramente all’utente che può dettare le parole lettera per lettera (una possibilità già attiva); e questo è solo un problema di interfaccia, non di distanza dalla prestazione umana.
 
La seconda indagine ha riguardato la trascrizione attraverso le Google Cloud Speech API di due video tutorial tecnici pubblicati su YouTube. I video riguardavano rispettivamente:


In entrambi i video, la registrazione è semiprofessionale e i parlanti presentano un accento regionale non forte ma ben percepibile. Il WER complessivo, cioè il numero di parole trascritte male, o non trascritte, è stato del 21,8% in un caso, del 12,3% dell'altro, ma il grosso degli errori riguarda interiezioni o parole poco rilevanti. Per quanto riguarda la terminologia, invece, gli errori sono stati pari solo al 6,25% nel primo caso e assenti nel secondo. Questo è molto incoraggiante per quanto riguarda le possibilità di sottotitolatura automatica… che del resto, nel frattempo, sono state potenziate da Google proprio su YouTube (le mie misurazioni risalgono al 2018, e spero che adesso il livello sia più alto).
 
In conclusione, la terminologia sembra gestita da questi strumenti in modo soddisfacente quando è presentata in un contesto. In ciò non c’è nulla di sorprendente; però, per valutare davvero la qualità, e capire se ci sono sviluppi interessanti o meno, è importante fare valutazioni quantitative ed esaustive.
 
Mirko Tavosanis, Misurazione del lessico specialistico nei sistemi per il trattamento automatico del parlato, in Linguaggi settoriali e specialistici. Sincronia, diacronia, traduzione, variazione. Atti del XV Congresso SILFI – Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Genova, 28-30 maggio 2018), a cura di Jacqueline Visconti, Manuela Manfredini e Lorenzo Coveri, Firenze, Cesati, 2020, pp. 451-456, € 45, ISBN 978-88-7667-817-2. Copia autore ricevuta dall’editore.
 

martedì 19 maggio 2020

Pieranni, Red mirror


 
Copertina di: Simone Pieranni, Red mirror
Il 14 maggio è uscito il nuovo libro di Simone Pieranni, Red mirror. Non ho resistito e nel fine settimana l’ho comprato (su Kindle) e l’ho letto al volo.
 
Ragioni di interesse: Pieranni, che ha vissuto a lungo in Cina e adesso scrive di esteri per “il Manifesto”, è uno dei più attenti osservatori italiani della realtà cinese (e asiatica). Il suo lavoro si basa su una conoscenza di prima mano e su una prospettiva ampia che va molto al di là degli stereotipi così diffusi nel giornalismo nostrano.
 
Red mirror, poi, compare al momento giusto. Il sottotitolo del libro è: “il nostro futuro si scrive in Cina”. Fino a pochi mesi fa questa espressione poteva far venire in mente soprattutto questioni economiche e politiche; adesso è entrata in gioco la biologia. E nel libro, in effetti, l’ultima sezione (5.5) è dedicata a La prima emergenza sanitaria globale nell’era dell’intelligenza artificiale cinese. Le informazioni fornite lì si fermano però alla fine di gennaio, quindi prima che l’epidemia diventasse pandemia e colpisse duramente l’Italia, dando una percezione nuova del rapporto del mondo con la Cina.
 
Anche nella prospettiva pre-Covid, però, le descrizioni di Pieranni sono interessantissime. Quello che raccontano è un universo in cui lo sviluppo delle tecnologie informatiche sta influenzano in profondità la vita sociale in Cina – molto più di quanto succedesse ai tempi del mio soggiorno, nell’ormai remoto 2012.
 
Particolarmente interessante è il modo in cui quell’universo è indipendente dalla tecnologia occidentale. A me piace molto pensare a modi diversi di fare le cose, e interessa quindi molto la storia di un mondo in cui l’interazione online si è sviluppata soprattutto attraverso un’app, Weixin (微信) nota all’estero come WeChat, e raccontata in dettaglio in alcune pagine vivide del primo capitolo; mondo in cui, viceversa, realtà familiari come Google, Facebook o Wikipedia hanno un peso marginale. Ma più in generale, mi interessa molto vedere il modello di una società che da un lato si fa denudare e razionalizzare dal controllo elettronico, e al tempo stesso resta molto corrotta e affidata a reti informali (cap. 5). In un confronto con l’Occidente, si trovano inaspettate divergenze e anche inaspettate convergenze.
 
In effetti, va ricordato che nemmeno quello cinese è un modello puro di tecnocrazia, riconducibile a una formula semplice. La realtà è complicata, e Pieranni racconta bene molte sfaccettature della Cina di oggi. Il libro risente un po’ del suo taglio giornalistico, da somma di pezzi brevi più che da ricerca unitaria, ma resta una testimonianza importante proprio per questa percezione della complessità delle cose.
 
Su questo va anche detto che, rispetto all’autore, mi trovo un po’ scettico sulla centralità di molte delle tecnologie descritte, che vedono la Cina in posizione di punta. Non c’è dubbio che il riconoscimento facciale onnipervasivo – oggi improponibile in Occidente! – possa avere effetti sociali immensi senza bisogno di altri sviluppi tecnologici, o che lo sviluppo di veicoli a guida autonoma (su cui la Cina viceversa sta investendo poco) possa rivoluzionare il settore dei trasporti. Tuttavia, mi sembra molto dubbio che alcune delle tecnologie di cui si parla molto nel libro, dal 5G alla crittografia quantistica, possano essere così centrali. Distinguere bene tra sostanza e dettaglio, al di là della retorica cinese, sembra molto importante.
 
Nel contrasto dell’attuale pandemia, per esempio, è importante notare che tecnologie celebrate sono state cospicuamente assenti: i famosi “Big Data” hanno dato un contributo poco diverso dallo zero (se c’è qualche settore importante in cui si sono rivelati utili, sarei curioso di sapere qual è). Quelle che hanno funzionato, al di là delle retoriche, sembrano combinazioni di soluzioni tecniche e organizzative diverse da paese a paese. Sarà quindi bene riflettere sul fatto che alcune tecnologie di moda, per quanto importanti e promettenti, sono circondate da un fitto strato di fumo. Io sono forse di parte, ma mi sembra che in tutta Europa la capacità – o l’incapacità – di comunicare chiaramente con il pubblico durante questa crisi sia stata assai più importante di qualunque app o analisi di “Big Data”. Cosa di cui sarà bene tenere conto ogni volta che si decide su come assegnare risorse allo studio e all’insegnamento, o in generale al futuro.
 
Simone Pieranni, Red Mirror: il nostro futuro si scrive in Cina, Bari-Roma, Laterza, 2020, edizione Kindle, € 9,99, ISBN 978-88-85814204-2.
 

giovedì 14 maggio 2020

Tavosanis, L’italiano su Facebook fuori d’Italia

 
Copertina di «LId’O – Lingua italiana d’oggi», 14, 2017
Sull’ultimo numero della rivista «LId’O – Lingua italiana d’oggi» è uscito un mio contributo intitolato L’italiano su Facebook fuori d’Italia: emigrazione recente ed emigrazione di ritorno.
 
Sono molto soddisfatto della pubblicazione, perché mi sembra sia uno dei pochissimi tentativi di parlare, appunto, degli effetti linguistici dell’emigrazione recente e dell’emigrazione di ritorno. Cioè, in sostanza, del modo in cui mantengono l’uso dell’italiano da un lato i tantissimi italiani che negli ultimi anni sono andati all’estero, e dall’altro le tantissime persone di varia nazionalità che, pur avendo passato in Italia un periodo consistente (o addirittura tutta la vita!), se ne sono poi andate, rientrando spesso nel paese da cui venivano, o da cui venivano i loro genitori.
 
Quest’ultimo punto mi sembra particolarmente interessante, perché in Italia di questo tipo di parlanti si sa davvero poco – e aggiungerei che, almeno in alcuni casi, si vuole sapere poco. Per esempio, non sono riuscito a trovare nessuna stima affidabile su quante persone siano passate dall’Italia in questo modo, e quanto si siano fermate… Certo, più o meno si sa quanti sono gli stranieri residenti in un dato periodo. Non esiste però nessuna stima complessiva su quante persone, e di quale origine, abbiano trascorso per esempio almeno un anno in Italia. Eppure, da Facebook si ricava l’esistenza di un milione di persone che, nei paesi del Mediterraneo o in Europa orientale, si servono regolarmente della lingua italiana per comunicare. È quindi forte il sospetto che il numero si spieghi grazie all’emigrazione di ritorno, e che testimoni un buon grado di contatto con la comunità di lingua italiana anche da lontano.
 
Una ricerca è utile solo nella misura in cui sono affidabili i dati. Purtroppo, le informazioni provenienti da Facebook non sono pensate per uso linguistico: sono i numeri ricavabili dalla stima delle coperture delle campagne pubblicitarie in lingua italiana, e il modo in cui sono generati non è del tutto chiaro… Tuttavia, il confronto con situazioni in cui è possibile una conferma esterna fa pensare che siano piuttosto credibili, e che (con le dovute cautele) possano essere estesi anche alle altre situazioni di cui ho parlato.
 
Soprattutto, però, spero che questa ricerca preliminare, con tutti i suoi limiti, possa rappresentare uno stimolo per portare avanti il lavoro. Non sarebbe male se questo primo sguardo inducesse indurre altri a gettare luce su una realtà così poco conosciuta, e al tempo stesso così importante per il futuro della lingua italiana.
 
Mirko Tavosanis, L’italiano su Facebook fuori d’Italia: emigrazione recente ed emigrazione di ritorno, «LId’O – Lingua italiana d’oggi», 14, 2017 (ma 2020), pp. 113-127, € 20, ISBN 978-88-6897-193-9.
 

sabato 2 maggio 2020

Peyronie, Le mouvement Freinet

  
 
Copertina di di Henri Peyronie, Le mouvement Freinet: du fondateur charismatique à l’intellectuel collectif
Da molto tempo mi interessa il movimento Freinet, sia in sé sia in rapporto alle esperienze italiane che a esso hanno fatto in vario modo riferimento, da Mario Lodi a Bruno Ciari. Le ragioni per questo interesse sono semplici da motivare. Infatti, non solo mi trovo in accordo con molte delle idee alla base del movimento, ma, come i lettori di questo blog forse immaginano, mi piace molto un punto chiave: usare le tecnologie della comunicazione scritta per lavorare e fare didattica. Nel caso del movimento Freinet, la tecnologia chiave è – o era alle origini – la stampa tipografica; oggi però abbiamo molte possibilità in più. Ci si può quindi chiedere quale sia stata l’evoluzione. In fin dei conti, la società è molto cambiata, dai tempi dei primi esperimenti di Célestin ed Elise Freinet negli anni Venti, ma il movimento Freinet è ancora molto attivo.

Una buona risposta per me è arrivata dall’interessante libro di Henri Peyronie Le mouvement Freinet: du fondateur charismatique à l’intellectuel collectif. Il testo è una raccolta di contributi che Peyronie, autore anche di diversi altri lavori in materia, aveva pubblicato nel corso di più di vent’anni. Il suo contenuto non è quindi una sintesi sistematica della pedagogia Freinet, ma qualcosa di altrettanto interessante: i risultati di una serie di ricerche sull’evoluzione del movimento Freinet, che a differenza di molti altri movimenti simili è riuscito a sopravvivere alla scomparsa dei fondatori.
 
Gli argomenti indagati sono molto diversi fra loro. Per esempio, una sezione riferisce i risultati di un’indagine sull’origine sociale e biografica delle persone che entrano a far parte del movimento; un’altra descrive il modo in cui sono andati i rapporti tra i maestri del movimento Freinet e intellettuali di altra provenienza nel periodo di pubblicazione della rivista Techniques de vie negli anni Sessanta; un’altra ancora si interroga sull’evoluzione da “educazione popolare” a pedagogia per i figli delle “nouvelles classes moyennes”. All’evoluzione degli strumenti tecnologici vanno soltanto pochi cenni; ciò, nella mia prospettiva, è un peccato, ma spero ci siano occasioni future di approfondimento. Nel frattempo, il libro fornisce molte informazioni importantissime sul contesto.
 
Il modo in cui vengono presentati i risultati è molto discorsivo. A me piace vedere numeri, ma in questo caso è chiaro che le sfaccettature sono tante e tali da rendere priva di senso una quantificazione, e la scelta è del tutto ragionevole. Mi è piaciuta particolarmente, in quest’ottica, la sezione intitolata Quelles traces de leur scolarité ches des adultes, anciens élèves de classes Freinet? Come nota giustamente l’autore, la domanda posta nel titolo è fondamentale per una valutazione del metodo e del movimento Freinet. In fin dei conti, l’idea è che il metodo pedagogico aiuti a formare quelli che nella prospettiva delle origini potevano essere definiti i figli del popolo e gli intellettuali organici, e nella prospettiva di oggi possono forse essere definiti i cittadini attivi e consapevoli. Vedere se questo è successo davvero è quindi fondamentale.
 
La risposta data da Peyronie è del tutto ragionevole. Le vicende della vita e della scolarizzazione, infatti, sono tanto diversificate da rendere molto difficile misurare le conseguenze di un intervento pedagogico o didattico, qui e in infiniti altri contesti. In che misura chi ha seguito un percorso Freinet è stato plasmato da quello, invece che dalle circostanze successive e dall’evoluzione successiva della società? Impossibile dare certezze. Peyronie riporta soprattutto i risultati di interviste fatte agli ex allievi Freinet da adulti, e giustamente nota che è difficile trarne conclusioni precise. Quelle che si leggono sono però considerazioni fatte da persone che, qualunque fosse il loro ruolo sociale al momento dell’intervista, sembrano molto consapevoli e capaci di esprimersi in modo molto articolato. Non è una dimostrazione di nulla, ma è qualcosa che lascia un gradevole ricordo e, soprattutto, speranze per il futuro.
 
Henry Peyronie, Le mouvement Freinet: du fondateur charismatique à l’intellectuel collectif: Regards socio-historiques sur une alternative éducative et pédagogique, Caen, Presses universitaires de Caen, 2016, edizione Kindle, € 8,99, ASIN B01N3SDIHT.
 

giovedì 16 aprile 2020

Giaccai, Come diventare bibliotecari wikipediani

  
 
Copertina di Susanna Giaccai, Come diventare bibliotecari wikipediani
Negli ultimi anni ho lavorato molto su Wikipedia in lingua italiana, soprattutto in rapporto ai miei Laboratori di scrittura. Tuttavia, mi era sfuggito fino a poche settimane fa un utile libretto di Susanna Giaccai: Come diventare bibliotecari wikipediani.
 
Come mai mi era sfuggito? Beh, in parte forse perché il titolo non comprende la parola “Wikipedia”, ma solo la parola “wikipediani”, e questo forse mi ha ingannato nelle ricerche. E poi perché il libro è stato pubblicato da una casa editrice specializzata in testi per bibliotecari – una realtà che purtroppo non riesco a seguire quanto vorrei.
 
Il rapporto tra Wikipedia e biblioteche merita poi un discorso a sé. A Wikipedia e alla gestione dell’informazione si può arrivare da almeno due direzioni: dalla parte di chi produce testi e dalla parte di chi li cataloga. A me è sempre sembrata più naturale la prima… ma oggi in Italia, e non solo, sembra che le integrazioni più importanti e riuscite siano quelle provenienti dalla seconda, che in parte rientrano nel progetto GLAM di Wikimedia. Qualche cosa su questo tema conto comunque di aggiungerlo presto!
 
In quanto al libro in sé, nonostante la sua brevità l’ho trovato molto utile. Scrivere voci su Wikipedia è oggi un’attività molto complicata, sottoposta a un numero elevatissimo di regole. Il materiale informativo sul sito è sì abbondante, ma sparpagliato in decine e decine di pagine diverse, risultando quindi (come nota anche Susanna Giaccai: pos. 35) decisamente disorientante per i nuovi arrivati. La combinazione tra questo stato di cose e l’incoraggiamento ai visitatori, anche occasionali, perché si lancino nella scrittura di nuove voci è probabilmente la causa di una parte significativa dei conflitti tra collaboratori regolari e nuovi utenti di Wikipedia.
 
Non si può quindi che accogliere favorevolmente un testo che, organizzando e dando struttura a molte informazioni, facilita senz’altro il lavoro di chiunque voglia avvicinarsi alla scrittura su Wikipedia. Inoltre, il lavoro di sintesi compiuto è davvero di alto profilo, ed è accompagnato da una serie di collegamenti che permettono – soprattutto a chi legge la versione elettronica – di risalire facilmente alle pagine ufficiali di presentazione. Questo è un grande aiuto per il corso che sto tenendo in questo semestre, e, avendo appena terminato la lettura, segnalerò senz’altro il libro ai miei studenti.
 
Susanna Giaccai, Come diventare bibliotecari wikipediani, Milano, Editrice Bibliografica, 2015, edizione Kindle, pp. 58, € 4,99, ISBN 978-88-7075-881-8.
 

lunedì 9 marzo 2020

Lettera ai miei studenti sulle lezioni a distanza


L’Università di Pisa da oggi fa didattica usando lezioni a distanza. Visto che non tutti hanno confidenza con questo genere di attività, ho pensato di mandare ai miei studenti una lettera di spiegazione e di condividerla qui.

Cari studenti,

come sapete, a partire da questa settimana le lezioni dell’Università di Pisa saranno svolte a distanza. Qui all’Università faremo di tutto per far funzionare questa soluzione per tutto il periodo che sarà necessario, sperando che sia molto breve. Una situazione del genere sarà però nuova per molti di voi, e per questo vorrei condividere qui qualche osservazione basata sull’esperienza – dato che lavoro nel settore da vent’anni e ho realizzato e seguito molte attività di formazione a distanza.

Come tutte le tecniche, anche le lezioni a distanza presentano vantaggi e svantaggi. Ci sono ottimi motivi se, dopo molti decenni di diffusione delle tecnologie informatiche, oggi anche i corsi di laurea più votati all'informatica preferiscono operare, in condizioni normali, con lezioni in presenza!

Non entrerò nel dettaglio degli svantaggi, che coinvolgono aspetti tecnici, sociali, comunicativi e didattici. Mi limito ora al problema che potrebbe essere più importante nei prossimi giorni: le lezioni richiedono strumenti a cui non tutti possono accedere. Purtroppo, durante la chiusura delle strutture, non tutti i nostri studenti hanno a disposizione uno spazio tranquillo dove ascoltare una lezione per un’ora e mezza senza interruzioni, un collegamento con banda sufficiente, un computer o un dispositivo adatto per l’ascolto e così  via.

Io spero che questi numeri siano molto ridotti. Tuttavia, non ci sarebbe nulla di sorprendente se una buona parte di chi frequenta regolarmente le mie lezioni avesse difficoltà a seguirle on line, o a partecipare in modo più attivo. Queste difficoltà saranno senz’altro maggiori nei primi giorni.

La cosa principale che vorrei dirvi è: non preoccupatevi troppo. Tutti questi problemi, purtroppo, sono ben noti a chi lavora nel settore. L’Università di Pisa, assieme a molte altre, sta facendo un enorme esperimento grazie alle capacità e al lavoro di molte persone esperte e dedicate, che dobbiamo ringraziare per il loro impegno. In un caso del genere ci sono appunto inconvenienti, ma ciò non vuol dire che chi incontra difficoltà sarà trascurato. 

Per quel che riguarda il mio corso, ci sarà senz’altro la massima attenzione agli aspetti critici, con l’obiettivo di non penalizzare nessuno. Come minimo, le lezioni saranno registrate, in modo da permettere di seguirle anche in seguito – e comunque tutti i corsi possono essere seguiti anche da non frequentanti, nei modi indicati nel programma.

In sostanza, vi invito quindi a stare tranquilli. Se emergeranno problemi, li risolveremo in spirito di collaborazione! Nei prossimi giorni vedremo spesso i limiti delle attuali soluzioni informatiche, ma intanto cerchiamo di vederne i vantaggi. E soprattutto, ricordiamo la cosa più importante: le lezioni a distanza ci offrono uno strumento, che fino a poco tempo fa non esisteva, per mantenere una continuità degli insegnamenti in una situazione difficile. Questa continuità sarà importante anche per chi dovesse avere problemi con l'accesso in una fase iniziale.

A presto, e buon lavoro,

Mirko Tavosanis

Appendice: le lezioni a distanza come saranno fatte nei prossimi giorni sono piuttosto lontane dalla vera formazione a distanza, concepita per superare appunto le difficoltà della semplice riproposizione delle lezioni frontali via internet. Tuttavia, sui corsi già esistenti è molto difficile cambiare modello didattico in poco tempo, e la soluzione realizzata è l'unica possibile con poche settimane di preavviso: io condivido quindi completamente la scelta fatta dall'Università di Pisa. Più avanti, spero, ci sarà tempo per dedicare la giusta attenzione a soluzioni più sofisticate.

venerdì 14 febbraio 2020

Programma di inizio primavera

  
Particolare della locandina per la Giornata Galileiana del 15 febbraio
Una rapida panoramica sulle prossime presentazioni che conto di fare in giro per l'italia: del resto, arriva la primavera e viaggiare diventa più gradevole! Sia per chi parla sia (si spera) per chi ascolta...

Domani, sabato 15 febbraio, non mi sposterò molto perché parteciperò alle iniziative organizzate dall’Università di Pisa per la Giornata galileiana. A partire dalle 14:30, al Complesso delle Benedettine in Piazza San Paolo a Ripa d’Arno, ci sarà una serie di presentazioni rivolte alla cittadinanza e collegate ai lavori e agli studi musicali di Vincenzo e Galileo Galilei. Io parlerò di Suono, linguaggio e Intelligenza Artificiale, ma la serie degli interventi affronta una rete molto ampia di argomenti connessi.
 
Il programma connesso non è ancora definitivo, ma probabilmente avrò la possibilità di riprendere questi temi esattamente un mese dopo, domenica 15 marzo, alla Milano Digital Week. Seguiranno aggiornamenti…
 
Nel frattempo, la prossima settimana parteciperò a Roma al III convegno ASLI Scuola che ha come titolo Dal testo al testo. Lettura, comprensione e produzione. Il mio intervento è previsto alle 10:45 di sabato 22 febbraio, e sarà dedicato al Parafrasare fonti in voci di enciclopedia. Naturalmente, parlerò dei lavori fatti in questi anni su Wikipedia dai miei studenti.

 

martedì 4 febbraio 2020

Il nome delle Sundarban

 
Un canale nelle Sundarban
Alla fine dell’anno scorso ho avuto la fortuna di poter tornare una settimana in India. E, tra tante cose positive, ho avuto anche l’occasione di visitare le Sundarban, al confine con il Bangladesh. Spero di raccontare presto questo viaggio… ma prima di iniziare a farlo, mi accorgo che occorre una nota toponomastica! Il nome del luogo è infatti insolitamente oscillante, in italiano e in altre lingue. Per dare un’idea, nella traduzione italiana fatta da Anna Nadotti del romanzo di Amitav Ghosh Il paese delle maree (Neri Pozza, 2005) si parla “dei Sundarban”, al maschile, mentre nella traduzione del secondo romanzo della serie, L’Isola dei fucili, fatta da Anna Nadotti e Norman Gobetti (Neri Pozza, 2019) si parla “delle Sundarban”, al femminile.
 
In pratica, in molti testi italiani oggi si trova Sundarban, in molti altri Sunderban; all’una e all’altra versione c’è poi chi mette la -s finale, generando quattro possibili esiti (Sundarban, Sundarbans, Sunderban, Sunderbans). Ognuno di questi esiti viene poi trattato da alcuni come maschile (per esempio, “i Sundarban”) e da altri come femminile (“le Sundarban”), il che genera otto diverse possibilità. La stessa oscillazione si ha poi per il singolare e per il plurale (“il Sundarban” / “i Sundarban”, eccetera), e con questo siamo a sedici diverse possibilità. Nel 2008 un collaboratore di Wikipedia oggi non più attivo ha fatto una ricerca su Google delle forme con -s finale, dividendole tra maschili e femminili, singolari e plurali e notando che tra le quattro combinazioni possibili le due più comuni risultavano, esattamente a pari merito, “il Sundarbans” e “le Sundarbans”. La parola peraltro è tanto rara che nessuna delle sue varianti compare nel CORIS.
 
A complicare il quadro, le varianti basate sulle coppie <a> ed <a>, <-s> o non <-s>, maschile e femminile, non sono le uniche: esistono anche grafie oggi meno usate, ma importanti dal punto di vista storico. Per esempio, probabilmente ancora oggi la maggior parte dei lettori italiani (come ricorda anche Amitav Ghosh appunto nell’Isola dei fucili) conosce le Sundarban attraverso i Misteri della jungla nera di Salgàri. Un libro che non descrive nemmeno alla lontana qualcosa che somiglia alle vere Sundarban, ma che ha diffuso il nome – facendolo però nella forma (femminile) Sunderbunds. Per quanto riguarda le opere di riferimento, l’Enciclopedia Treccani su carta presenta solo “Sundarbans”; in linea si trova inoltre “Sundarbans” nella voce di Elio Migliorini per l’Enciclopedia italiana del 1936, in cui si dice anche che la pronuncia è “Sanderbans”. In nessuno dei due casi si dice se il nome è maschile o femminile, singolare o plurale. Wikipedia in lingua italiana presenta “le Sundarbans”.
 
In questa oscillazione mi sembra utile ritornare alla lingua di partenza. Le Sundarban sono divise tra India e Bangladesh; in India, lo stato che le ospita è il Bengala occidentale, dove in tutta la zona di interesse si parla lingua bengali, o bengalese. In bengali, oggi, il nome delle Sundarban è scritto সুন্দরবন, che nella trascrizione normale in alfabeto latino è “Sundarban” (su Google traduttore vedo che viene proposta una traslitterazione “Sundarabana”, ma in realtà in bengali le consonanti senza diacritico per le vocali, come র e ন, implicherebbero sì una <a>, ma non quando si trovano in nesso consonantico, come nel primo caso, o in finale di parola, come nel secondo). Tuttavia, l’ortografia del bengali oggi non ha un rapporto molto stretto tra fonemi e grafemi proprio in un punto fondamentale: la rappresentazione delle vocali /a/, /o/ e /ɔ/. Per quanto segue, faccio riferimento alle informazioni sintetiche del Corso di lingua bengali di Mario Prayer, Neeman Sobhan e Carola Lorea, Milano, Hoepli, 2012, in cui si spiega che del bengali esiste la cosiddetta “traslitterazione scientifica”, inventata nel Novecento da Siniti Kumar Chatterji, che prevede nel caso della a implicita dell’ortografia bengali la trascrizione <a>. Tuttavia, oggi la pronuncia corrispondente è in realtà /o/ oppure /ɔ/ (p. 4). La pronuncia effettiva del nome è quindi /'ʃundorbon/, come mi dice chi sa il bengali, e in ortografia italiana questa sequenza si può trasporre come Sciundorbon, in cui entrambe le o sono chiuse. Non ha invece nessuna particolare legittimità una grafia con <e> (Sunderban o simili) che risulta inoltre di uso relativamente ridotto in italiano – e può quindi essere scartata senza problemi dal resto della discussione.
 
Nella pratica, quindi, che fare? A me piacerebbe molto usare la forma più vicina alla lingua originale, ma le possibilità che una grafia Sciundorbon si imponga o anche solo si diffonda mi sembrano ben scarse; un grave problema aggiuntivo è che il lettore troverebbe molto difficile capire che quando si parla di Sciundorbon si fa riferimento a ciò che una leggera maggioranza dei testi chiama Sundarbans. Una maggioranza? I dati lessicali quantitativi su Google vanno sempre presi con beneficio d’inventario, ma oggi, 4 febbraio 2020, i risultati sono questi (la ricerca con preposizione articolata è utile per eliminare i casi di sovrapposizione con il francese):
 
  • delle Sundarban: 143 
  • nelle Sundarban: 433 
  • dei Sundarban: 119 
  • nei Sundarban: 86 
  • Totale senza -s: 781
  • delle Sundarbans: 2.120 
  • nelle Sundarbans: 306 
  • dei Sundarbans: 259 
  • nei Sundarbans: 463 
  • Totale con -s: 3.148
 
Se dovessi consigliare la forma da usare in un’opera di consultazione, sulla base delle poche fonti autorevoli (= Treccani) e dell’uso, non potrei quindi far altro che consigliare “le Sundarbans”, visto che la forma con -s che nelle sue varianti è quattro volte più diffusa dell’alternativa. Però, personalmente, non mi piace per niente quella -s, che non ha nessun rapporto con la lingua originale e, apparentemente, è presente solo perché la parola si è diffusa in Italia attraverso la mediazione dell’inglese.
 
Confortato anche dalle traduzioni dei libri di Amitav Ghosh, ho deciso quindi di optare per Sundarban, che rispetta le traslitterazioni tradizionali del bengalese e si avvicina alla forma originale senza compromettere la comprensibilità. Questa è soprattutto una scelta ideologica (= avvicinarsi alla forma locale, saltando la mediazione dell’inglese), ma in un campo in cui le differenze d’uso non sono troppo marcate mi fa piacere farla, per una volta. Per raccontare del mio viaggio scriverò quindi sempre Sundarban, al femminile plurale. E chissà che questa soluzione non vinca… anche perché nei prossimi anni, nel bene e nel male, credo che dovremo parlare delle Sundarban assai più spesso di quanto non avvenga oggi.
 

giovedì 30 gennaio 2020

Due recensioni a Lingue e intelligenza artificiale

  
Copertina di Lingue e intelligenza artificiale
Negli ultimi mesi sono uscite, su riviste specializzate, due recensioni del mio libro Lingue e intelligenza artificiale. In entrambi i casi si tratta di presentazioni molto articolate, che dedicano ampio spazio a riassumere i contenuti del libro. Ringrazio moltissimo entrambi gli autori per queste manifestazioni di interesse!
 
La prima recensione, di Simona Turbanti, è dedicata per intero al libro ed è stata pubblicata nei “Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari”, 32, 2018, pp. 301-305. In chiusura, Lingue e intelligenza artificiale viene giudicato “una lettura stimolante anche per i non specialisti addentrandosi, con fare agile, in una serie di temi assai complessi ma i cui effetti pratici sono facilmente constatabili da ognuno di noi nella vita quotidiana” (p. 305).
 
 La seconda, di Riccardo Gualdo, è in effetti parte di una “segnalazione” collettiva di tre libri che trattano questioni a cavallo tra scienze umane e informatica. La segnalazione è stata pubblicata su “Lingue e culture dei media”, 3, 1/2, pp. 180-188, e gli altri due libri presi in esame sono L’impronta digitale di Lorenzo Tomasin e L’età della frammentazione di Gino Roncaglia. In questo contesto di altissimo profilo, è per me molto impegnativo leggere che a giudizio dell’autore
 
Sul piano della conoscenza, la bussola di Tavosanis è forse la lettura più utile, perché deriva da dirette sperimentazioni dell’autore, il quale non spiega come” funzionano i programmi che descrive, ma ci dice “che cosa” sono in grado di fare e prova a immaginare quali effetti possano produrre sulla conoscenza e l’uso della lingua (p. 180).
 
Ancora più lusinghiera è una considerazione riassuntiva (e che, per quanto riguarda l’esortazione generale, condivido naturalmente in pieno):
 
Consiglierei senz’altro la lettura di manuali come quello di Tavosanis ai futuri docenti di italiano; se lo Stato saprà cogliere, con adeguati investimenti e una salutare iniezione di docenti più giovani nel sistema scolastico e universitario, l’urgenza di un’“agenda digitale” elaborata con metodo e serietà, forse potremo essere meno pessimisti sul futuro della nostra lingua (p. 182).
 
A prescindere dalla trattazione del mio libro, comunque, le riflessioni d’assieme presentate da Gualdo nella sua “segnalazione” sono ampiamente condivisibili. In particolare, mostrano una notevole attenzione a ciò che accade quando si passa dalla teoria alla pratica, e a “quanta fatica richieda, nella scuola italiana di oggi, sperimentare nella pratica diretta con gli studenti” le idee, anche se brillanti, che emergono da riflessioni più astratte. Questa possibile integrazione tra teoria e pratica è una delle sfide più stimolanti che ci troviamo di fronte oggi; di sicuro, è anche una sfida molto difficile… ma sono sicuro che i bravi docenti riusciranno a vincerla.
 

martedì 28 gennaio 2020

A Basilea

   
La Spalentor a Basilea
Negli ultimi due mesi non sono riuscito ad aggiornare il blog. Troppe attività, e troppo di corsa, anche nel periodo delle vacanze di fine anno… Riprendo adesso, raccontando a ritroso le ultime cose fatte.
 
La settimana scorsa, per esempio, ho avuto la fortuna di partecipare a un evento interessantissimo. Su invito di Angela Ferrari e Filippo Pecoraro, sono andato all’Università di Basilea per contribuire al convegno su Accordi e disaccordi in rete: aspetti linguistici, comunicativi e psicosociali (23 e 24 gennaio 2020). All’evento hanno partecipato molte delle persone che si occupano di comunicazione digitale in Italia: oltre agli organizzatori hanno parlato Elena Pistolesi, Giuliana Fiorentino, Fabio Rossi, Vera Gheno, Massimo Palermo, Letizia Lala, Benedetta Rosi, Raffaella Setti e Stefania Iannizzotto.
 
L’organizzazione è stata perfetta. Soprattutto, poi, il formato dell’incontro (relazioni a invito su un tema ben definito) ha facilitato molto lo scambio di idee. I diversi interventi si sono, credo, rinforzati a vicenda; il quadro teorico di riferimento è diventato senz’altro condiviso – anzi, potrebbe essere utile fare un passo avanti, e formalizzarlo ulteriormente – e gli esempi presentati hanno illustrato una gran varietà di situazioni ed eventi, da Facebook ai profili social dell’Accademia della Crusca, dalle recensioni online ai blog culturali.
 
Lato mio, mi sono occupato della Gestione delle discussioni su Wikipedia in lingua italiana. Ho fornito un po’ di dati di statistica linguistica e di analisi della conversazione, ma buona parte dell’intervento è stata dedicata all’illustrazione dei criteri espliciti e delle pratiche di Wikipedia. Cosa inevitabile, perché ci sono molti tratti che distinguono Wikipedia da altri contesti. Su Wikipedia infatti le discussioni dovrebbero essere finalizzate a un obiettivo pratico preciso, cioè la realizzazione di un’enciclopedia, e sono molto formalizzate. Inoltre, le discussioni dovrebbero essere finalizzate al raggiungimento del consenso, evitando quanto più possibile il ricorso a votazioni nel caso di disaccordo.
 
La presentazione di Basilea rientra in una più ampia serie di interventi in cui ho parlato e parlerò di Wikipedia in lingua italiana. L’anno scorso è uscita una descrizione dei Laboratori di scrittura che ho tenuto negli ultimi anni; a ottobre al convegno ILPE a Messina ho tenuto una presentazione sull’ideologia linguistica di Wikipedia e il mese prossimo spero di partecipare al convegno ASLI Scuola a Roma parlando della parafrasi delle fonti all’interno delle voci di enciclopedia. Insomma, tante occasioni per parlare di uno dei siti che ritengo più importanti del web italiano, e al tempo stesso uno dei più sottovalutati dal punto di vista della ricerca e della didattica.
 
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