martedì 19 ottobre 2021

Pieraccini, AI Assistants


 
Copertina di Roberto Pieraccini, AI Assistants
A parer mio, i moderni assistenti digitali sono prodotti di estremo interesse per la linguistica e potrebbero avere sviluppi rivoluzionari in particolare nell’insegnamento delle lingue. Quasi quattro anni fa (!) ne avevo parlato nel mio Lingue e intelligenza artificiale, ma negli anni seguenti lo sviluppo è stato notevolissimo. Tanto per dirne una, quando il mio libro è uscito non erano ancora arrivati in Italia gli altoparlanti intelligenti, come i sistemi Alexa di Amazon e Google Home, e i sistemi di dialogo in commercio avevano appena iniziato a mantenere il contesto della conversazione…
 
Eppure, nonostante gli sviluppi e le promesse, le pubblicazioni in proposito sono state ben poche. Solo negli ultimi mesi sono finalmente comparsi alcuni libri che descrivono in modo sistematico i moderni assistenti digitali, che fino a oggi erano descritti in sostanza solo dalle pubblicazioni specialistiche (con molte informazioni rimaste implicite nelle conoscenze dei ricercatori) o da istruzioni per l’uso come quelle di Dialogflow.
 
Del secondo di questi libri, Hey, Cyba!, conto di parlare più avanti. Qui invece vorrei parlare di AI Assistants, che, firmato da Roberto Pieraccini per la collana Essential Knowledge del MIT, finalmente descrive in modo sistematico il funzionamento degli assistenti digitali moderni.
 
Da un certo punto di vista il libro può essere considerato un’appendice o una continuazione dell’ottimo The Voice in the Machine dello stesso autore. Buona parte dello spazio, in effetti, è dedicata, più che agli assistenti digitali in sé, ai loro prerequisiti, cioè allo sviluppo delle tecnologie vocali dal dopoguerra a oggi. Questa storia era già stata raccontata in dettaglio appunto da The Voice in the Machine, ma la sovrapposizione tra i due libri è più ridotta di quanto si potrebbe immaginare: l’autore ha trattato il tema in modo nuovo. E soprattutto, queste informazioni sono importanti per comprendere molti aspetti del funzionamento degli assistenti digitali.
 
Una simile scelta fa sì che le caratteristiche specifiche degli assistenti digitali in quanto tali siano presentate solo nei due ultimi capitoli: il sesto, dedicato a The Dialog Manager, e il settimo, Interacting with an Assistant. Chi si sente già preparato sui modelli di Markov nascosti o sulle difficoltà connesse alla generazione del parlato potrebbe quindi essere tentato di saltare direttamente a questi… ma credo che sarebbe un peccato, perché la descrizione delle fasi precedenti è comunque interessante in questa nuova prospettiva.
 
Inoltre, molte delle informazioni presentate sono sì diffuse nell’ambiente, ma poco formalizzate e descritte. Questo fa sì che il testo fornisca informazioni difficilissime da ricostruire per gli esterni, come questa descrizione dello stato dell’arte per la gestione di pronomi e frasi incomplete:
 
Modern assistants are able to manage referential pronouns and incomplete sentences (called elliptical sentences) based on algorithms that unravel the structure of each query, determine whether the query is incomplete and missing elements such as the specific subject or intent, and try to answer it by resolving the missing elements with the right information. Those algorithms are based on a mix of language rules and the results of data analysis on large corpora of queries done in the past and aggregated over all the users (p. 169).
 
In questo punto, e in molti altri, non ci sono rinvii a fonti di informazione specifiche, e la cosa non mi sorprende. Dove si dovrebbero trovare, del resto?
 
In quanto alle modalità di esposizione, sono fondamentalmente non tecniche (e corrette e approfondite per quanto riguarda le componenti linguistiche). Tuttavia, come già succedeva in The Voice in the Machine, in alcuni punti sono molto sintetiche: nelle parti più tecniche è difficile che il lettore non informato possa comprendere tutto ciò che viene detto.
 
L’esposizione arriva però anche al personale nell’ultimo capitolo. Pieraccini, viareggino, laureato in Ingegneria a Pisa, ha lavorato a Torino al CSELT per poi spostarsi oltreoceano ai mitici Bell Labs e da lì a molte delle principali aziende del settore, avendo occasione di contribuire in prima persona a molti degli sviluppi descritti qui (adesso è Director of Engineering per Google Assistant a Zurigo). Uno di questi contributi ha riguardato lo sviluppo del “robot sociale” Jibo, che ha avuto una storia complessa e ha lasciato un segno importante, apparentemente, sia nella comunità degli sviluppatori sia tra gli utenti. Le pagine dedicate a questo argomento, oltre a essere tra le più interessanti nella mia prospettiva, mostrano un coinvolgimento non superficiale.
 
In definitiva: il libro è caldamente raccomandato a chiunque sia interessato a questi argomenti.
 
Roberto Pieraccini, AI Assistants, Cambridge (Massachusetts), MIT Press, 2021, pp. 288 (edizione tascabile), ISBN (edizione tascabile) 978-0-26254255-5, letto nell’edizione Kindle, ASIN B08PY9X5YF, € 10,99.
 

lunedì 11 ottobre 2021

Rothman, Brokering Empire


 
Copertina di Brokering Empire
Brokering Empire
di E. Natalie Rothman è un libro che nasconde molti contenuti interessanti dietro un titolo poco trasparente. Il sottotitolo resta sul vago, ma precisa un po’ meglio i contenuti: “Trans-Imperial Subjects between Venice and Istanbul”. All’interno non si parla infatti di mediazione (o “brokeraggio”?) di imperi, ma più modestamente di alcuni esempi dei diversi modi in cui a Venezia, tra Cinque e Seicento, venivano gestite diverse categorie di “stranieri”. Il libro si divide in quattro sezioni, di estensione grosso modo equivalente:
 
  • Mediation: la gestione della mediazione commerciale a Venezia, in particolare dopo che nel 1503 era stata istituita la gilda dei sensali, che assegnò a cento cittadini veneziani il monopolio di queste attività a Rialto – creando anche il problema di distinguere, cosa non facile, tra gli stranieri che svolgevano normali attività di supporto ai connazionali e quelli che provavano davvero a fare da mediatori professionisti.
  • Conversion: i processi di conversione al cattolicesimo visti attraverso la Pia Casa dei Catecumeni. Le modalità di questi processi erano molto diverse a seconda che i convertiti fossero ebrei (spesso residenti da tempo in città, ben integrati e padroni della lingua) e musulmani (spesso presenti come schiavi); l’autrice nota però che, anche se a volte la conversione consentiva un miglioramento delle condizioni di vita, il ruolo sociale del convertito restava di regola immutato, così come le sue reti di relazioni.
  • Translation: l’istutizione dei dragomanni pubblici a Venezia e i modi in cui la loro attività veniva definita (ne parlo più in dettaglio più sotto).
  • Articulation: i vari modi per caratterizzare gli stranieri a Venezia (anche ai fini del pagamento delle tasse sui dragomanni) e in particolare l’ambiguità dell’etichetta di “levantini”, che si riferiva a referenti anche molto diversi fra loro.
Il libro è molto interessante anche se, come si vede fin dai titoli, spesso nasconde concetti semplici e intuitivi dietro a giochini di parole di vario genere: una moda della saggistica statunitense che, con un po’ di fortuna, prima o poi passerà. Un’altra caratteristica, connessa, è la tendenza a complicare la spiegazione di cose del tutto evidenti. Per esempio, un paragrafo dedicato ai diversi modi in cui in quel periodo venivano considerate le conversioni religiose si intitola “Peregrinations in space-time” (!, p. 96). All’interno vengono presentati due diversi modi di motivare e presentare la conversione al cattolicesimo: come una questione di cambiamento di comportamenti, spesso condizionati dalle necessità esterne, per chi veniva dall’Islam, o come una questione di sviluppo di una convinzione interiore per chi veniva dal protestantesimo. La differenza non è certo difficile da descrivere o capire, ma per “elucidarla” (“to elucidate”), l’autrice ricorre al concetto di cronotopo introdotto da Bachtin (p. 97). Il concetto, com’è ovvio, non aggiunge assolutamente nulla alla descrizione della situazione e non aiuta affatto a capirla: è un puro sfoggio di erudizione, nemmeno troppo appropriato visto che il concetto originale di Bachtin si riferiva alle opere letterarie.
 
Un altro limite da tener presente è la comprensione delle fonti italiane, basata su trascrizioni non impeccabili e ogni tanto con veri e propri errori nel testo o nella traduzione. Certo, il senso di regola è presentato correttamente, ma in alcuni casi gli errori portano a fraintendimenti significativi. Per esempio, nella traduzione di una petizione della gilda dei sensali al Senato veneziano del 1587 si dice che gli ebrei “daily devour the blood” (p. 80), e l’autrice la commenta menzionando “Overtones of blood libel”. In effetti, in questa forma, sembra che ci sia un collegamento diretto con la tradizione del “blood libel”, nota in italiano come “accusa del sangue” (la leggenda, a diffusione europea, secondo cui gli ebrei uccidevano i bambini cristiani per berne ritualmente il sangue). Il testo originale italiano, presentato in nota, contiene invece, sia pure espresso in modi che richiamano la tradizione antiebraica, un più pragmatico lamento dei sensali nei confronti della concorrenza economica degli  ebrei, “quali quotidianamente ci divorano il sangue”.
 
Una volta detto che il testo richiede qualche cautela, va però aggiunto che già la prospettiva da cui è scritto aiuta a correggere le deformazioni della tradizione italiana. L’autrice per esempio, fin dal titolo, inquadra quello di Venezia come un “impero veneziano”, contrapposto all’“impero ottomano”. La definizione è del tutto corretta: in Oriente, nel Medioevo e per tutta l’età moderna, fino all’inizio dell’età contemporanea, i veneziani avevano un vero e proprio impero coloniale (anche se di estensione relativamente ridotta). La resistenza italiana a vedere le cose in questo modo è tale che per esempio perfino uno specialista come Francesco Bruni ha potuto caratterizzare l’espansione dell’italiano all’estero come quella di “una lingua senza impero”. In realtà, l’impero c’era, e per buona parte dell’età moderna la sua esistenza influenzò certamente la diffusione della lingua in Oriente – in positivo e in negativo.
 
Soprattutto, poi, il libro ha un fondamento solido: la ricerca in diversi archivi veneziani per testimoniare i processi descritti.
 
Dalla mia prospettiva, linguistica, le informazioni più importanti sono forse quelle riferite ai dragomanni, cioè gli interpreti, e in particolare a quelli che ricoprivano la carica di “dragomanno pubblico”, istituita sul modello di quanto avveniva alla corte ottomana. In pratica, questi dragomanni furono figure “trans-imperiali”, che si muovevano con un certo agio tra i territori veneziani e quelli ottomani. L’autrice descrive in dettaglio la situazione dei nove dragomanni pubblici nominati a Venezia tra il 1534 e il 1701 (tabella riportata a p. 183, da confrontare con quella fornita da Cristina Muru a p. 153 nel suo La variazione linguistica nelle pratiche scrittorie dei Dragomanni, pubbilcato nel 2016):
  • Girolamo Civran 
  • Michiel Membré 
  • Andrea Negroni 
  • Giacomo de Nores 
  • Francesco Scaramelli 
  • Pietro Fortis 
  • Giacomo Fortis
Tutti, a parte Scaramelli, erano nati all’estero (tre a Cipro quando era ancora veneziana, tre a Istanbul) e non erano cittadini veneziani al momento di entrare in servizio. In aggiunta alla conoscenza delle lingue (tra cui la più importante era di gran lunga il turco) avevano però solide reti di relazioni sia a Venezia sia nell’Impero ottomano, e in questo senso possono essere descritti come personaggi “trans-imperiali”.

Dal punto di vista linguistico è poi per me interessante vedere quanto poco numerose fossero, perfino a Venezia, le persone capaci di parlare lingue orientali. Giacomo de Nores, nel 1594, nella sua petizione per ottenere l’incarico di dragomanno dichiarava che gli era “facilissimo il leggere, il scrivere, il compore et tradure” in turco, ma aggiungeva di avere “altrotanta cognitione della lingua Araba, et della Persiana da me solo forsi non da altri in questa Città intesa” (p. 261). L’osservazione, verosimilmente, non sarà stata disinteressata o del tutto oggettiva, ma mi sembra comunque significativa.
 
L’attività dei dragomanni si collega poi ai tempi di Michiel Membré a quella dei sensali, perché, in aggiunta ai servigi per lo stato, a loro viene assegnato il ruolo di assistere i mercanti stranieri nelle trattative. Veniva infatti dato per scontato che questi ultimi, non conoscendo la lingua e le usanze del posto, venissero facilmente raggirati da sensali e mercanti locali. Ma vale la pena riportare qui per intero la sintesi fornita da E. Natalie Rothman (pp. 169-170):
 
Alongside the institutionalization of the office of dragoman attached to the Venetian bailo’s house in Istanbul and the office of chancellery interpreter in the maritime colonies, by the early sixteenth century we see the emergence of the office of Public Dragoman in Venice proper, a position unparalleled in other Italian states. This institution combined the diplomatic functions of the Ottoman Grand Dragoman with the mercantile duties of the bailo’s dragomans (who, in addition to their involvement in diplomatic negotiations were charged with assisting Venetian merchants in Istanbul in their dealings with local merchants and Ottoman magistracies). Unlike the interpreters employed in the Venetian colonial administration, Public Dragomans mediated not between the rulers and the ruled but between government officials and Ottoman and Safavid sojourners, both diplomatic envoys and merchants. Thus, whereas in the Ottoman context dragomans dealt with both subject populations and foreign dignitaries of all provenances, in Venice they dealt primarily with foreigners. Moreover, their position was unique in Venice as well because the only specialized full-time interpreters on record in the Venetian chancellery during this period were for Turkish and Greek. [in nota, rinvio a uno studio di Neff] The very association of the presumed foreignness of Ottoman sojourners with special linguistic needs thus became institutionalized in Venice in ways that the foreignness of the subjects of other neighboring states was not. [in nota: With Latin and Italian the dominant languages of European diplomacy well into the seventeenth century, the Venetian government had only limited use for translation and interpretation to and from most other vernacular languages. Sanuto’s rare references to a chancellery secretary providing translations for German documents sent by the emperor or offering simultaneous interpretation to Russian or Hungarian emissaries confirm the sense that, by and large, Venetian use of interpreters for languages other than Turkish was unusual. On the dominance of Latin and Italian in the linguistic training of Renaissance diplomats, see Roland (1999, 44).]
 
The duties of the Public Dragoman in Venice were multiple: to translate official letters sent to the doge by the sultan, as well as internal Ottoman correspondence intercepted by the Venetians; to accompany Ottoman dignitaries on official audiences and produce authoritative reports on such occasions; to travel to the Venetian-Ottoman borderlands to negotiate in border disputes; and most, frequently, to assist Ottoman and Safavid merchants in Venice in their interactions with often less-than-scrupulous merchants and commercial brokers. The Public Dragoman’s Position can thus be summarized as two-pronged; he was a civil servant, expected to keep tabs on Ottoman and Safavid foreigners and report on their whereabouts to his patrician employers, the Senate and the Board of Trade; at the same time, he was charged with safeguarding Ottoman merchants’ interests under the assumption that they were vulnerable and in need of special protection due to their lack of connections in the city.
 
L’attività dei dragomanni veniva compensata attraverso la tassa del terzo sui compensi dei sensali, e ciò generava anche reazioni: particolarmente istruttiva è quella dei mercanti armeni, che nel 1650 chiesero di essere esentati dal coinvolgimento del dragomanno nei loro affari perché dichiaravano di essere tutti in grado di parlar bene l’italiano (il caso è descritto nella quarta sezione, alle pp. 196-197). Viceversa, nel caso di molte altre nazioni – tra cui a volte, sorprendentemente, i greci – le necessità di supporto linguistico erano dichiarate in modo esplicito. Tutte informazioni che è importante tener presente guardando alla situazione dell’italiano nel Mediterraneo.
 
E. Nathalie Rothman, Brokering Empire. Trans-Imperial Subjects between Venice and Istanbul, Ithaca, Cornell University Press, pp. 538, ISBN 978-0-8014-7996-0. Letto nella copia della Biblioteca Centrale dell’Università di Bologna – Campus di Forlì e Cesena, ricevuta per prestito interbibliotecario.
 
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