martedì 19 maggio 2020

Pieranni, Red mirror


 
Copertina di: Simone Pieranni, Red mirror
Il 14 maggio è uscito il nuovo libro di Simone Pieranni, Red mirror. Non ho resistito e nel fine settimana l’ho comprato (su Kindle) e l’ho letto al volo.
 
Ragioni di interesse: Pieranni, che ha vissuto a lungo in Cina e adesso scrive di esteri per “il Manifesto”, è uno dei più attenti osservatori italiani della realtà cinese (e asiatica). Il suo lavoro si basa su una conoscenza di prima mano e su una prospettiva ampia che va molto al di là degli stereotipi così diffusi nel giornalismo nostrano.
 
Red mirror, poi, compare al momento giusto. Il sottotitolo del libro è: “il nostro futuro si scrive in Cina”. Fino a pochi mesi fa questa espressione poteva far venire in mente soprattutto questioni economiche e politiche; adesso è entrata in gioco la biologia. E nel libro, in effetti, l’ultima sezione (5.5) è dedicata a La prima emergenza sanitaria globale nell’era dell’intelligenza artificiale cinese. Le informazioni fornite lì si fermano però alla fine di gennaio, quindi prima che l’epidemia diventasse pandemia e colpisse duramente l’Italia, dando una percezione nuova del rapporto del mondo con la Cina.
 
Anche nella prospettiva pre-Covid, però, le descrizioni di Pieranni sono interessantissime. Quello che raccontano è un universo in cui lo sviluppo delle tecnologie informatiche sta influenzano in profondità la vita sociale in Cina – molto più di quanto succedesse ai tempi del mio soggiorno, nell’ormai remoto 2012.
 
Particolarmente interessante è il modo in cui quell’universo è indipendente dalla tecnologia occidentale. A me piace molto pensare a modi diversi di fare le cose, e interessa quindi molto la storia di un mondo in cui l’interazione online si è sviluppata soprattutto attraverso un’app, Weixin (微信) nota all’estero come WeChat, e raccontata in dettaglio in alcune pagine vivide del primo capitolo; mondo in cui, viceversa, realtà familiari come Google, Facebook o Wikipedia hanno un peso marginale. Ma più in generale, mi interessa molto vedere il modello di una società che da un lato si fa denudare e razionalizzare dal controllo elettronico, e al tempo stesso resta molto corrotta e affidata a reti informali (cap. 5). In un confronto con l’Occidente, si trovano inaspettate divergenze e anche inaspettate convergenze.
 
In effetti, va ricordato che nemmeno quello cinese è un modello puro di tecnocrazia, riconducibile a una formula semplice. La realtà è complicata, e Pieranni racconta bene molte sfaccettature della Cina di oggi. Il libro risente un po’ del suo taglio giornalistico, da somma di pezzi brevi più che da ricerca unitaria, ma resta una testimonianza importante proprio per questa percezione della complessità delle cose.
 
Su questo va anche detto che, rispetto all’autore, mi trovo un po’ scettico sulla centralità di molte delle tecnologie descritte, che vedono la Cina in posizione di punta. Non c’è dubbio che il riconoscimento facciale onnipervasivo – oggi improponibile in Occidente! – possa avere effetti sociali immensi senza bisogno di altri sviluppi tecnologici, o che lo sviluppo di veicoli a guida autonoma (su cui la Cina viceversa sta investendo poco) possa rivoluzionare il settore dei trasporti. Tuttavia, mi sembra molto dubbio che alcune delle tecnologie di cui si parla molto nel libro, dal 5G alla crittografia quantistica, possano essere così centrali. Distinguere bene tra sostanza e dettaglio, al di là della retorica cinese, sembra molto importante.
 
Nel contrasto dell’attuale pandemia, per esempio, è importante notare che tecnologie celebrate sono state cospicuamente assenti: i famosi “Big Data” hanno dato un contributo poco diverso dallo zero (se c’è qualche settore importante in cui si sono rivelati utili, sarei curioso di sapere qual è). Quelle che hanno funzionato, al di là delle retoriche, sembrano combinazioni di soluzioni tecniche e organizzative diverse da paese a paese. Sarà quindi bene riflettere sul fatto che alcune tecnologie di moda, per quanto importanti e promettenti, sono circondate da un fitto strato di fumo. Io sono forse di parte, ma mi sembra che in tutta Europa la capacità – o l’incapacità – di comunicare chiaramente con il pubblico durante questa crisi sia stata assai più importante di qualunque app o analisi di “Big Data”. Cosa di cui sarà bene tenere conto ogni volta che si decide su come assegnare risorse allo studio e all’insegnamento, o in generale al futuro.
 
Simone Pieranni, Red Mirror: il nostro futuro si scrive in Cina, Bari-Roma, Laterza, 2020, edizione Kindle, € 9,99, ISBN 978-88-85814204-2.
 

giovedì 14 maggio 2020

Tavosanis, L’italiano su Facebook fuori d’Italia

 
Copertina di «LId’O – Lingua italiana d’oggi», 14, 2017
Sull’ultimo numero della rivista «LId’O – Lingua italiana d’oggi» è uscito un mio contributo intitolato L’italiano su Facebook fuori d’Italia: emigrazione recente ed emigrazione di ritorno.
 
Sono molto soddisfatto della pubblicazione, perché mi sembra sia uno dei pochissimi tentativi di parlare, appunto, degli effetti linguistici dell’emigrazione recente e dell’emigrazione di ritorno. Cioè, in sostanza, del modo in cui mantengono l’uso dell’italiano da un lato i tantissimi italiani che negli ultimi anni sono andati all’estero, e dall’altro le tantissime persone di varia nazionalità che, pur avendo passato in Italia un periodo consistente (o addirittura tutta la vita!), se ne sono poi andate, rientrando spesso nel paese da cui venivano, o da cui venivano i loro genitori.
 
Quest’ultimo punto mi sembra particolarmente interessante, perché in Italia di questo tipo di parlanti si sa davvero poco – e aggiungerei che, almeno in alcuni casi, si vuole sapere poco. Per esempio, non sono riuscito a trovare nessuna stima affidabile su quante persone siano passate dall’Italia in questo modo, e quanto si siano fermate… Certo, più o meno si sa quanti sono gli stranieri residenti in un dato periodo. Non esiste però nessuna stima complessiva su quante persone, e di quale origine, abbiano trascorso per esempio almeno un anno in Italia. Eppure, da Facebook si ricava l’esistenza di un milione di persone che, nei paesi del Mediterraneo o in Europa orientale, si servono regolarmente della lingua italiana per comunicare. È quindi forte il sospetto che il numero si spieghi grazie all’emigrazione di ritorno, e che testimoni un buon grado di contatto con la comunità di lingua italiana anche da lontano.
 
Una ricerca è utile solo nella misura in cui sono affidabili i dati. Purtroppo, le informazioni provenienti da Facebook non sono pensate per uso linguistico: sono i numeri ricavabili dalla stima delle coperture delle campagne pubblicitarie in lingua italiana, e il modo in cui sono generati non è del tutto chiaro… Tuttavia, il confronto con situazioni in cui è possibile una conferma esterna fa pensare che siano piuttosto credibili, e che (con le dovute cautele) possano essere estesi anche alle altre situazioni di cui ho parlato.
 
Soprattutto, però, spero che questa ricerca preliminare, con tutti i suoi limiti, possa rappresentare uno stimolo per portare avanti il lavoro. Non sarebbe male se questo primo sguardo inducesse indurre altri a gettare luce su una realtà così poco conosciuta, e al tempo stesso così importante per il futuro della lingua italiana.
 
Mirko Tavosanis, L’italiano su Facebook fuori d’Italia: emigrazione recente ed emigrazione di ritorno, «LId’O – Lingua italiana d’oggi», 14, 2017 (ma 2020), pp. 113-127, € 20, ISBN 978-88-6897-193-9.
 

sabato 2 maggio 2020

Peyronie, Le mouvement Freinet

  
 
Copertina di di Henri Peyronie, Le mouvement Freinet: du fondateur charismatique à l’intellectuel collectif
Da molto tempo mi interessa il movimento Freinet, sia in sé sia in rapporto alle esperienze italiane che a esso hanno fatto in vario modo riferimento, da Mario Lodi a Bruno Ciari. Le ragioni per questo interesse sono semplici da motivare. Infatti, non solo mi trovo in accordo con molte delle idee alla base del movimento, ma, come i lettori di questo blog forse immaginano, mi piace molto un punto chiave: usare le tecnologie della comunicazione scritta per lavorare e fare didattica. Nel caso del movimento Freinet, la tecnologia chiave è – o era alle origini – la stampa tipografica; oggi però abbiamo molte possibilità in più. Ci si può quindi chiedere quale sia stata l’evoluzione. In fin dei conti, la società è molto cambiata, dai tempi dei primi esperimenti di Célestin ed Elise Freinet negli anni Venti, ma il movimento Freinet è ancora molto attivo.

Una buona risposta per me è arrivata dall’interessante libro di Henri Peyronie Le mouvement Freinet: du fondateur charismatique à l’intellectuel collectif. Il testo è una raccolta di contributi che Peyronie, autore anche di diversi altri lavori in materia, aveva pubblicato nel corso di più di vent’anni. Il suo contenuto non è quindi una sintesi sistematica della pedagogia Freinet, ma qualcosa di altrettanto interessante: i risultati di una serie di ricerche sull’evoluzione del movimento Freinet, che a differenza di molti altri movimenti simili è riuscito a sopravvivere alla scomparsa dei fondatori.
 
Gli argomenti indagati sono molto diversi fra loro. Per esempio, una sezione riferisce i risultati di un’indagine sull’origine sociale e biografica delle persone che entrano a far parte del movimento; un’altra descrive il modo in cui sono andati i rapporti tra i maestri del movimento Freinet e intellettuali di altra provenienza nel periodo di pubblicazione della rivista Techniques de vie negli anni Sessanta; un’altra ancora si interroga sull’evoluzione da “educazione popolare” a pedagogia per i figli delle “nouvelles classes moyennes”. All’evoluzione degli strumenti tecnologici vanno soltanto pochi cenni; ciò, nella mia prospettiva, è un peccato, ma spero ci siano occasioni future di approfondimento. Nel frattempo, il libro fornisce molte informazioni importantissime sul contesto.
 
Il modo in cui vengono presentati i risultati è molto discorsivo. A me piace vedere numeri, ma in questo caso è chiaro che le sfaccettature sono tante e tali da rendere priva di senso una quantificazione, e la scelta è del tutto ragionevole. Mi è piaciuta particolarmente, in quest’ottica, la sezione intitolata Quelles traces de leur scolarité ches des adultes, anciens élèves de classes Freinet? Come nota giustamente l’autore, la domanda posta nel titolo è fondamentale per una valutazione del metodo e del movimento Freinet. In fin dei conti, l’idea è che il metodo pedagogico aiuti a formare quelli che nella prospettiva delle origini potevano essere definiti i figli del popolo e gli intellettuali organici, e nella prospettiva di oggi possono forse essere definiti i cittadini attivi e consapevoli. Vedere se questo è successo davvero è quindi fondamentale.
 
La risposta data da Peyronie è del tutto ragionevole. Le vicende della vita e della scolarizzazione, infatti, sono tanto diversificate da rendere molto difficile misurare le conseguenze di un intervento pedagogico o didattico, qui e in infiniti altri contesti. In che misura chi ha seguito un percorso Freinet è stato plasmato da quello, invece che dalle circostanze successive e dall’evoluzione successiva della società? Impossibile dare certezze. Peyronie riporta soprattutto i risultati di interviste fatte agli ex allievi Freinet da adulti, e giustamente nota che è difficile trarne conclusioni precise. Quelle che si leggono sono però considerazioni fatte da persone che, qualunque fosse il loro ruolo sociale al momento dell’intervista, sembrano molto consapevoli e capaci di esprimersi in modo molto articolato. Non è una dimostrazione di nulla, ma è qualcosa che lascia un gradevole ricordo e, soprattutto, speranze per il futuro.
 
Henry Peyronie, Le mouvement Freinet: du fondateur charismatique à l’intellectuel collectif: Regards socio-historiques sur une alternative éducative et pédagogique, Caen, Presses universitaires de Caen, 2016, edizione Kindle, € 8,99, ASIN B01N3SDIHT.
 
Creative Commons License
Blog di Mirko Tavosanis by http://linguaggiodelweb.blogspot.com is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia License.