mercoledì 30 aprile 2014

Bianchi e Tavosanis, La lingua non cambia da un canale all’altro

 
Ho appena ricevuto l’estratto elettronico di un contributo firmato da Elisa Bianchi e da me e presentato alla SILFI di Helsinki nel 2012. Il contributo porta un titolo un po’ provocatorio: No, guardando gli esempi disponibili sul web italiano, la lingua non cambia da un canale all’altro: cambia da un genere all’altro (quello del volume, che non ho ancora visto fisicamente, è invece il più tranquillo Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano. Tecniche, materiali e usi nella storia della lingua, Atti del XII Congresso SILFI - Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, a cura di Enrico Garavelli ed Elina Suomela-Härmä, Firenze, Franco Cesati Editore, 2014, pp. 806, € 90.00, ISBN 978-88-7667-472-3; il contributo è alle pp. 575-584).
 
Il titolo del contributo richiede comunque qualche precisazione. Nel senso che lo scopo essenziale dell’intervento è, dal mio punto di vista, evitare che venga sopravvalutato ciò che in linguistica si chiama “variazione diamesica”, cioè il cambiamento della lingua a seconda dei mezzi di comunicazione.
 
Alla base del concetto stesso di variazione diamesica c’è una constatazione elementare: scritto e parlato sono cose diverse. E questo è verissimo, al punto che alcune cose si possono fare nel parlato ma non nello scritto (per esempio, variazioni di tono e di intensità) e altre si possono fare nello scritto ma non nel parlato (per esempio, sottolineature e variazioni di carattere). Tuttavia, a Elisa e a me sembra che la linguistica contemporanea abbia avuto la tendenza a estendere indebitamente la portata di questo fatto. Per cui spesso si considera la scrittura elettronica come una novità radicale e si dà per scontato che il passaggio dalla carta allo schermo corrisponda a una “variazione” paragonabile a quella dallo scritto al parlato e si trascini dietro di necessità cambiamenti radicali nella lingua.
 
Beh, le cose non stanno così e l’intervento cerca di essere una prima dimostrazione sistematica di questo stato di cose. La scrittura è scrittura, e il modo in cui si scrive una lingua è determinato alla radice dal sistema di scrittura adottato (per esempio, caratteri logografici o alfabeto latino). Il resto è marginale e ricade in una vasta tipologia di vincoli pragmatici, di regola non molto rilevanti: per esempio, la disponibilità o meno di uno specifico carattere sulla tastiera permette di scrivere con maggiore facilità quel carattere, eccetera. Ben più importanti sono i vincoli imposti dal genere testuale.
 
Caso principe, secondo me, è quello della scrittura dei giornali. Un articolo di giornale si può scrivere allo stesso modo con macchina da scrivere e computer e si può leggere allo stesso modo su carta e su tablet. Inoltre, la struttura produttiva del giornalismo non è cambiata negli ultimi anni. Conseguenza? Oggi qualunque lettore italiano istruito può prendere un capoverso proveniente da un articolo di giornale e, leggendolo, dire “ah, questo viene da un articolo di giornale”. Ma non può capire (se non grazie a informazioni di contesto) se l’articolo è stato scritto con una macchina da scrivere tradizionale o un computer, oppure se è stato pensato in primo luogo per la pubblicazione online e solo in secondo momento per quella su carta, o viceversa. Semplicemente, né dal punto di vista del lettore né da quello dello scrittore il cambio di supporto produce effetti abbastanza forti.
 
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