venerdì 29 dicembre 2017

Escher a Pisa

  
 
In video ci si può vedere seduti su un triangolo di Penrose
Qualche settimana fa sono andato a vedere la bella mostra di M. C. Escher allestita a Palazzo Blu a Pisa. Non mi aspettavo troppe sorprese, perché le opere di Escher sono, come tutti, abituato a vederle ovunque: sui poster, sui puzzle e sulle copertine dei libri. Però, quando si guardano gli originali qualcosa di nuovo si trova sempre – anche nel caso in cui gli originali sono costituiti in buona parte da stampe.
 
Per esempio, è stata una sorpresa vedere il livello di dettaglio in alcune opere. In alcuni casi ci sono iterazioni decrescenti talmente minuscole che mi chiedo quanto tempo e quali tecniche abbiano richiesto per la realizzazione: una lente d’ingrandimento, un buon sostegno per la mano e infinita pazienza? In una riproduzione di dimensioni limitate, per quanto buona sia, questi dettagli si perdono.
 
Dal punto di vista dei contenuti, invece, la scoperta più interessante è stata quella dei paesaggi italiani, risalenti in buona parte agli anni Venti e radicalmente estranei all’iconografia tradizionale. I soggetti esposti provengono soprattutto dalla Campania e dagli Abruzzi; viceversa, mi sembra poco presente lo sfondo che si collegherebbe a Escher in modo più intuitivo, cioè quello della Liguria. Da Genova alle Cinque Terre e a Portofino, scogli, strisce di colore e prospettive dall’alto sarebbero perfette per l’inserimento in alcune delle stampe più famose. Escher comunque ha visitato spesso la Liguria, quindi sarei sorpreso se non ce ne fossero tracce più consistenti in altre opere.
 
L’allestimento della mostra ha lati molto positivi. L’ingresso è a effetto. Una panchina video al primo piano permette di vedersi seduti su un triangolo impossibile, ed è una buona soluzione per dare soddisfazione al visitatore e concretizzare in qualche modo le prospettive impossibili per cui Escher è famoso.

La cascata di Escher

 
Andando in mostra, temevo poi l’affollamento. È un bene che i musei siano affollati… ma a volte le scolaresche sono talmente numerose e vocianti che è davvero difficile veder bene le opere. In questo caso in effetti i gruppi c’erano, ma erano tenuti piacevolmente sotto controllo dagli accompagnatori. Anzi, ho avuto l’impressione che in diversi casi le guide facessero proprio attenzione a non intralciare i visitatori singoli, il che è un ottimo esempio di professionalità.
 
Aggiungo che la sorpresa più gradita in assoluto l’ho avuta in una sala in cui alcuni lavori geometrici di Escher sono messi a confronto con opere medievali e rinascimentali di tema paragonabile, e sorprendentemente simili. Immagino che questo non sia l’allestimento generale della mostra, ma una soluzione trovata ad hoc per Pisa, con opere che fanno parte della collezione permanente di Palazzo Blu. Se è così, è stata veramente un’ottima scelta.
 

mercoledì 27 dicembre 2017

Tavosanis, L’italiano L2 negli elaborati universitari del Corpus ICoN


 
“Quaderni di AIΩN”, n.s., 5
Ho ricevuto da poche settimane l’estratto di un mio contributo dedicato a L’italiano L2 negli elaborati universitari del Corpus ICoN: esempi di analisi. Il contributo è il frutto del lavoro svolto in un Progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN) iniziato nel 2012 e terminato nel 2015. Questo lavoro si è concretizzato in diverse pubblicazioni, in parte già uscite e in parte ancora in stampa, e in un sito web: Corpus ICoN.
 
Il contributo appena uscito era stato presentato in forma orale durante un convegno del PRIN tenuto nella splendida cornice di Procida. Per quanto riguarda i contenuti, all’interno del contributo vengono fornite in primo luogo alcune informazioni di base sul Corpus ICoN. Vengono poi presentati due esempi di analisi eseguite sui materiali del corpus, e su queste mi sembra utile dire qualche parola.
 
Il primo esempio è un confronto tra gli errori nell’uso dell’articolo determinativo da parte di studenti di varia L1. Il secondo, portato avanti con l’uso del programma READ-IT, è un esame di alcuni tratti linguistici negli elaborati di studenti che hanno come L1 spagnolo, greco, portoghese e russo.
 
Per quest’ultimo punto, a parità di condizioni, sarebbe intuitivo che l’uso dell’italiano fosse più flessibile ed evoluto da parte degli studenti che hanno una L1 più vicina all’italiano. Facendo controlli quantitativi, però, le scale risultano diverse dal previsto. Prendiamo per esempio la lunghezza media delle frasi, dando per scontato che frasi più lunghe indichino una maggiore confidenza con la sintassi italiana. I risultati nel campione preso in esame, espressi in token, sono stati:
 

  • Spagnolo 39 
  • Greco 35 
  • Portoghese 31 
  • Russo 28
 
Se le posizioni estreme di spagnolo e russo non sorprendono, è più strano che la confidenza risulti maggiore negli studenti greci che in quelli portoghesi.

Il campione usato è piuttosto ridotto, circa 30.000 token per ogni lingua, ed è bene non trarre conclusioni affrettate su questa base. Disponendo di  informazioni quantitative, è però adesso possibile allargare i confronti e vedere se lo stesso fenomeno si ritrova in altri contesti.

Mirko Tavosanis, L’italiano L2 negli elaborati universitari del Corpus ICoN: esempi di analisi , in Scritture brevi: segni, testi e contesti. Dalle iscrizioni antiche ai tweet, a cura di Alberto Manco e Azzurra Mancini, “Quaderni di AIΩN”, n.s., 5 , 2016 (ma 2017), pp. 177-187, ISSN 1825-2796, ISBN 978-88-6719-140-6. Estratto.
 

martedì 5 dicembre 2017

Intervista per Wikimedia

  
 
Sono stato intervistato per il blog di Wikimedia Italia. L’intervista è stata pubblicata il 4 dicembre 2017 con il titolo Scrittura scientifica? Si impara con Wikipedia e naturalmente riguarda le attività del mio Laboratorio di scrittura. Spero soprattutto che un po’ di promozione aiuti il coordinamento con iniziative simili, e che il modello possa essere ripreso in altri contesti e migliorato… nel frattempo in questo semestre il Laboratorio, nonostante sia molto oneroso, continua a darmi discrete soddisfazioni.

 

martedì 28 novembre 2017

Barbieri, Semiotica del fumetto

 
Daniele Barbieri, Semiotica del fumetto
Dalla storia alla teoria… tre anni fa avevo parlato della Breve storia della letteratura a fumetti di Daniele Barbieri. Adesso ho ricevuto la Semiotica del fumetto dello stesso autore. L’oggetto della trattazione è immutato, ma viene affrontato da un’angolazione diversa, simile a quella che Barbieri aveva già affrontato nel classico I linguaggi del fumetto (1991).
 
Rispetto ai Linguaggi del fumetto, qui il termine di confronto inevitabile è diventato il Système de la bande dessinée del belga Thierry Groensteen, di cui ho parlato a suo tempo. In alcuni casi Barbieri descrive anche in modo esplicito i suoi punti di accordo e disaccordo con la trattazione di Groensteen. In altri le divergenze di opinione sono implicite. Io per esempio apprezzo molto la scelta di Barbieri di far notare che la semplice presenza di “balloon che contengono parole” è sufficiente a dare uno spessore temporale al disegno. Groensteen nega che le vignette singole possano essere “fumetto”, perché prive di una successione di eventi. Tuttavia, è evidente che la presenza del linguaggio parlato crea sempre una successione, per quanto minima, di eventi... e che quindi anche alcune vignette singole possono essere “fumetto” a pieno titolo.

Come quello di Groensteen, anche il nuovo libro di Barbieri ha una portata globale: il fumetto viene descritto dal punto di vista teorico e nel suo assieme. Il che significa che sono presi in esame esempi da tutte le tradizioni e da tutte le epoche - anche se per fortuna una buona percentuale degli esempi viene dall’Italia.
 
Rispetto al Système, tuttavia, la trattazione di Barbieri è molto più breve e selettiva. L’autore l’ha ripartita in tre capitoli:

  • Capitolo primo (pp. 11-57): Racconti senza racconto: enunciazione e narratività. L’argomento centrale è qualcosa cui non avevo mai pensato, cioè la ridotta importanza della figura del “narratore” in una presentazione per immagini, fumetto o film che sia. All’interno delle presentazioni per immagini conta invece il punto di vista”.
  • Capitolo secondo (pp. 58-88): Disegni di segni: immagini e scritture. Buona parte del capitolo si basa sul celebre schema di Scott McCloud dedicato alla classificazione delle possibilità espressive del disegno. La sezione per me più interessante è però quella iniziale, dedicata ai Segni di scrittura (2.1, pp. 58-66); sono poche pagine, ma si parla in particolare di Rumori e grida, segni d’espressione e di movimento (2.1.1, pp. 59-63) e de Il lettering (2.1.2, pp. 63-66), con diversi esempi interessanti.
  • Capitolo terzo (pp. 88-14): Leggere con leggerezza: tensione e ritmo. L’argomento centrale è qui il modo in cui tensione e ritmo possono essere dati ai fumetti, specie in rapporto alla presenza o meno di umorismo e ai diversi generi editoriali. I concetti introdotti nella prima parte del capitolo sono poi usati nella seconda parte per analizzare casi specifici: nelle pp. 122-126 una tavola di Asterix, nelle pp. 126-141 una storia di Dino Battaglia, l’<i>Omaggio a Lovecraft</i> del 1970.
 
Dal punto di vista generale, il libro è una sintesi di alto profilo, che riesce a coniugare una serie di novità e un taglio divulgativo (anche se la veste editoriale non rende giustizia a tutti gli esempi presentati). Nel complesso, una notevole acquisizione per gli studi italiani sul fumetto.
 
Daniele Barbieri, Semiotica del fumetto, Roma, Carocci, 2017, pp. 143, € 12, ISBN 978-88-430-8881-2. Copia ricevuta in omaggio dall’editore.
 

martedì 24 ottobre 2017

Palermo, Italiano scritto 2.0

  
 
Massimo Palermo, Italiano scritto 2.0
Ho letto con molto interesse l’ultimo libro di Massimo Palermo, Italiano scritto 2.0. Il tema è centrale per il mio lavoro ed è comunque molto stimolante: in che modo affrontare i nuovi testi prodotti dalla comunicazione elettronica?
 
Massimo Palermo ha deciso di farlo in primo luogo attraverso gli strumenti della linguistica testuale. Oggi (per fortuna) sembra ormai intuitivo che non esista un “italiano della rete” (p. 77), ma per approfondimenti occorre entrare un po’ più nel dettaglio. 
 
Procedendo in ordine di lettura, il primo capitolo del libro, Breve storia delle tecnologie della parola (pp. 15-49), sintetizza nella sua prima parte una visione ancora molto diffusa sui rapporti tra scrittura e oralità, secondo l’impostazione di Walter Ong. Nella seconda, affronta vari tipi di testo digitale e le modalità con cui questi testi sono fruiti.
 
Il secondo capitolo, Il testo, i testi (pp. 50-76), presenta le basi dell’esame linguistico dei testi: importanza dell’interpretazione, ruolo dei contenuti impliciti, coerenza, coesione, ruolo del canale, intertestualità, tipi e, appunto, generi testuali.
 
L’ultimo argomento mi sembra quello centrale (valutazione non sorprendente, visto che i miei lavori propongono come chiave dello studio proprio i generi testuali e i vincoli pragmatici a essi collegati). Qui Palermo propone una separazione netta tra “testi nativi digitali, cioè concepiti per una fruizione esclusivamente telematica e ipertestuale e testi e-migrati, concepiti come testi tipografici e che vivono solo per una parte della loro vita nel computer” (p. 74). È senz’altro vero che per molti generi la distinzione è valida, e la presento in questo senso anche nel mio libro su L’italiano del web. Tuttavia, va notato che una contrapposizione netta non è facile: per esempio, l’articolo di giornale oggi spesso non viene mai stampato ma è un genere testuale che nasce per la carta stampata; lo stesso avviene per l’articolo di enciclopedia o la definizione di dizionario. In tutti questi casi la continuità è molto forte, al di là di qualche piccolo adattamento in rapporto al cambiamento dei vincoli pragmatici quando si passa dalla carta allo schermo. 
 
Il terzo capitolo, I testi nella rete: verso una destrutturazione?, esordisce con un paragrafo il cui titolo mi trova molto in sintonia: Perché non esiste un italiano della rete. La motivazione è naturalmente in linea con quanto detto poco sopra: la natura eterogenea dei testi presenti in rete, che vanno esaminati non nel loro assieme ma in rapporto ai “singoli tipi di scrittura” (p. 77; io vedrei appunto come centrali, oltre ai tipi di scrittura, direttamente i generi). I punti di maggior interesse di questi tipi di scrittura, secondo l’autore, sono rappresentati dalla suddivisione in campi, dalla dialogicità, dalla brevità e dalla frammentarietà.
 
Il quarto capitolo, Il ruolo della scuola (pp. 99-126), propone una visione decisa per il rapporto tra scuola e tecnologie della comunicazione. Secondo Palermo, sono illusorie sia l’idea “di tener fuori la rete dal processo educativo” (p. 99) sia quella di trasferire in classe “le tecnologie e l’apprendimento informale” (p. 100). Importante, invece, è conservare le abitudini “tipografiche” sviluppando, in parallelo, quelle legate ai testi digitali. Particolarmente importante, in quest’ottica, viene vista la capacità di discutere criticamente le fonti e di aggirare i vincoli della brevità eccessiva.
 
Gli argomenti sono tutti appassionanti, ma, a proposito di brevità, va detto che Italiano scritto 2.0 risulta davvero molto sintetico: in pratica, ogni singolo paragrafo meriterebbe un’espansione in forma di libro. Speriamo che ci sia modo di averla, nel prossimo futuro!

Massimo Palermo, Italiano scritto 2.0. Testi e ipertesti, Roma, Carocci, 2017, pp. 141, € 12, ISBN 978-88-430-8874-4. Copia ricevuta in omaggio dall’editore.
 

martedì 3 ottobre 2017

I miei prossimi convegni

  
 
Napoli fuori dalle finestre del convegno SLI
Tra la fine di settembre e il mese di ottobre, per me, ci sono stati e ci saranno diversi impegni fuori sede.

 
La settimana scorsa sono stato a Napoli per il LI convegno della Società di Linguistica Italiana, dedicato a Le lingue extra-europee e l’italiano. Problemi didattici, socio-linguistici, culturali e caratterizzato anche da molte toccanti commemorazioni della figura di Tullio De Mauro.  Il mio intervento, realizzato insieme a Tanya Roy, illustrava il modo in cui viene usato Il focalizzatore anche nei testi scritti di studenti con lingue indoarie come L1… e naturalmente includeva anche qualche risultato delle mie esperienze di didattica in India.
 
La prossima settimana sarò a Siena per il Convegno ASLI Scuola Scrivere nella scuola oggi. Obiettivi, metodi, esperienze. Lì, sabato 14, nella sessione che va dalle 11:30 alle 13, terrò un intervento dedicato a Scrivere su Wikipedia dall’Università alla scuola.
 
Dal 18 al 20 ottobre sarò invece a Bruxelles per il convegno L’italiano che parliamo e scriviamo, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura. Il mio intervento si terrà giovedì 19 alle 16 e avrà il titolo Dai computer come strumenti di comunicazione ai computer che parlano e scrivono: cambiamenti e stabilità nell’italiano.
 
A Napoli le cose sono andate benissimo, anche grazie all’ottima organizzazione del convegno. Soprattutto, mi sono divertito un sacco e ho imparato un sacco di cose… confido che succeda lo stesso anche con i prossimi convegni.
 

giovedì 21 settembre 2017

Tavosanis, Libraries, Linguistics and Artificial Intelligence

  
 
Da pochi giorni è uscito un mio nuovo articolo sugli intrecci tra informatica e linguistica. L’articolo si intitola Libraries, Linguistics and Artificial Intelligence: J. C. R. Licklider and the Libraries of the Future ed è stato pubblicato dalla rivista JLIS.it, Italian Journal of Library, Archives, and Information Science
 
La base non troppo remota di questo articolo è un intervento che ho tenuto a Parigi nel 2013 a proposito dei pionieristici lavori di Licklider. La base più remota è una serie di riflessioni mie (in parte presentate anche su questo blog) sui vantaggi e sui limiti delle interfacce grafiche per i sistemi informatici. Licklider è stato, in particolare negli anni Sessanta, una delle persone che hanno contribuito di più a creare i moderni sistemi di interazione con i computer… però, prima di incoraggiare il modello poi vincente, aveva fatto numerose sperimentazioni.
 
Il modello vincente ha poi nascosto molte alternative. Tornando indietro nel tempo, quindi, le idee più vecchie di Licklider sono molto interessanti da studiare, per vedere in che modo avrebbero potuto andare le cose. Nel mio articolo mi concentro in particolare su un fondamentale rapporto tecnico di Licklider, pubblicato in volume nel 1965: Libraries of the Future. L’interazione prospettata lì era ancora basata sul sogno di poter elaborare facilmente il linguaggio naturale; nel giro di pochi anni, il sogno si sarebbe scontrato con la realtà – ma adesso che la tecnologia si è evoluta, secondo me vale la pena tornare un po’ indietro e trovare qualche spunto interessante.
 
Mirko Tavosanis, Libraries, Linguistics and Artificial Intelligence: J. C. R. Licklider and the Libraries of the Future, JLIS.it, settembre 2017, v. 8, n. 3, pp. 137-147, ISSN 2038-1026, doi:http://dx.doi.org/10.4403/jlis.it-12271.
 

giovedì 14 settembre 2017

Le biciclette di Shantiniketan


 
Quest’anno non sono riuscito a raccontare tutti i miei viaggi. Per esempio, durante il mio ultimo soggiorno indiano, a febbraio, ho fatto un bellissimo viaggio nel Bengala occidentale, a Kolkata (che per la mia generazione è ancora Calcutta) e a Shantiniketan, ma ancora non ne ho parlato qui.
 
Forse oggi pochi si ricordano che cos’è stata e che cos’è Shantiniketan (শান্তিনিকেতন in bengalese): ancora non c’è nemmeno una voce dedicata su Wikipedia in lingua italiana. Comunque, è il posto in cui Rabindranath Tagore visse e lavorò per buona parte della sua vita. Tagore tra le altre cose aprì una scuola, che ancora prosegue le attività, e nel 1921 fondò anche un’università, la Vishva-Bharati  dedicata a fare da punto di contatto tra la cultura indiana e quella mondiale. Alle spalle c’era un’idea originale di mediazione. E quelli che decidono di cercare di prendere il meglio dal mondo, ma ripensando le cose a modo loro, a me sono sempre piaciuti.
 
Oggi a Shantiniketan l’università ha un’impostazione più tradizionale, ma include ancora un insegnamento dell’italiano - tenuto dalla professoressa Indrani Das, che ho avuto la fortuna di incontrare. Però, arrivando ai nuovi palazzoni di cemento che ospitano l’università di Shantiniketan, ammetto che la prima cosa che ho notato è stato il parcheggio biciclette. 

 


Non me ne ero neanche accorto, ma dopo un mese a Delhi, con il suo traffico terribile, sentivo la mancanza delle biciclette. Qualcuna si vede anche a Delhi, beninteso. Ma sommersa tra macchine, risciò a motore e così via. Tra una cosa e l’altra, quest’anno mi è capitato poco di prendere perfino i risciò a pedali. E non è che a Kolkata le cose vadano molto meglio.


 
A Shantiniketan no. Aiutate dalla presenza degli studenti, le biciclette sono dappertutto: sembrava quasi di essere a Pisa, ma con meno macchine. Comunque le usano tutti: uomini e donne, giovani e vecchi, studenti e operai, ragazzini in jeans e distinte signore in sari.


Poi ovviamente su ogni bicicletta c’era qualcuno a pedalare. Qualcuno aveva la faccia preoccupata, qualcuno la faccia scura… siamo esseri umani, in fin dei conti. Ma la maggior parte della gente aveva una faccia soddisfatta.



 
Negli ultimi anni ho passato molto tempo a cercare di capire il modo in cui le tecnologie della comunicazione influenzano gli esseri umani. Più il tempo passava, più mi sono messo a ridimensionare gli effetti inevitabili. Sì, uhm, a volte il mezzo di comunicazione è il messaggio, o aiuta un po’ a dare forma al messaggio, ma in sostanza i condizionamenti dello strumento dipendono molto dall’uso che se ne fa, e le nostre scelte cambiano molto le cose (v. Tagore)…

 


Ecco, la bicicletta è un po’ in controtendenza, nella mia visione del mondo. È qualcosa che quasi inevitabilmente fa star meglio. In bicicletta, tutto è un’altra cosa. Il viaggio a Shantiniketan è stato bello anche per quello.
 

giovedì 7 settembre 2017

Tavosanis, Storie informatiche


Comics & Science, The Babbage Issue


Forse non tutti sanno che il Consiglio Nazionale delle Ricerche pubblica una rivista divulgativa a fumetti: Comics and Science. Nel giugno di quest’anno è uscito il primo numero del 2017, intitolato The Babbage Issue (sì, un po’ troppo inglese, secondo i miei gusti...).

In questo caso, il fumetto centrale è Il segreto di Babbage, una storia scritta da Alfredo Castelli e disegnata da Gabriele Peddes. Il soggetto è ovviamente il lavoro di Babbage e la sua Macchina Analitica; sulla trama, invece, meglio non rivelare nulla. Ma per quanto riguarda i personaggi, va detto che uno dei protagonisti della storia è il mio amico e collega Fabio Gadducci, disegnato al meglio nella sua veste di Direttore del Museo degli Strumenti per il Calcolo di Pisa e in un ruolo a lui congeniale!
 


 
Tra i materiali d’accompagnamento comunque c’è anche un mio articolo intitolato Storie informatiche: una rassegna degli intrecci tra informatica e narrativa di fantascienza. Fin dalle origini, infatti, i “cervelli elettronici” hanno esercitato effetti molto profondi sull’immaginario. La narrativa a volte ha accompagnato l’evoluzione della tecnica, a volte è rimasta indietro e a volte è stata diretta fonte di ispirazione – come nel caso del cyberpunk e della realtà virtuale. Insomma, una storia sempre molto interessante, anche se qui vista solo per sommi capi.
 
Mirko Tavosanis, Storie informatiche, in Comics and Science 1, 2017, ISBN 9788880802419 pp. 42-45.
 

martedì 5 settembre 2017

Le ragioni di uno sciopero

  
 
In questi giorni è in corso uno sciopero dei docenti universitari. È uno sciopero molto discreto, e consiste semplicemente nel rinvio del primo esame della sessione d’autunno, iniziata in molte università il 28 agosto.
 
Le modalità dello sciopero, approvate dalla Commissione di Garanzia, sono piuttosto complesse: il dettaglio si trova sul sito del “Movimento per la Dignità universitaria”, che ha proclamato lo sciopero.
 
Le motivazioni dello sciopero invece non sono affatto complesse. I docenti universitari hanno gli scatti di stipendio bloccati dal 2010. Per qualunque categoria di lavoratori questa sarebbe una ragione sufficiente per scioperare, ma nel caso dei docenti universitari la ragione è rafforzata dal fatto di essere in pratica gli unici dipendenti pubblici a cui ancora si applica questa misura. Il blocco degli stipendi dei dipendenti pubblici è infatti partito nel 2010 in risposta alla crisi economica. Ci poteva anche stare, in un momento di difficoltà per le finanze pubbliche… ma alcune categorie di dipendenti, a cominciare dai magistrati, sono state esentate subito dal blocco; altre, dalle forze di polizia agli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, hanno avuto gradualmente scatti e avanzamenti. Oggi i docenti universitari sono rimasti l’unica categoria con stipendio bloccato, e l’unica per cui si prevede che, anche alla rimozione del blocco, gli aumenti di stipendio non partiranno dal “dove avrebbero dovuto arrivare”, ma dal “dov’erano nel 2010”.
 
Queste circostanze sarebbero già più che sufficienti per una protesta (anzi, la cosa incredibile è che la protesta non ci sia stata in precedenza), e io ho tutte le intenzioni di partecipare allo sciopero. Tuttavia, come precisano anche i documenti del Movimento, la questione degli scatti è solo l’ultima goccia. Negli ultimi anni le condizioni di lavoro della docenza universitaria sono peggiorate su tantissimi fronti: più lavoro, più studenti, più burocrazia, meno soldi, a un livello che mi sembra abbia davvero pochi termini di confronto tra i dipendenti pubblici italiani, e non solo.
 
In ogni sciopero c’è un po’ di dispiacere. Spiace portare un disagio (per quanto contenuto) agli studenti. Spiace perdere anche una parte di stipendio – e su questo vale la pena ricordare che, per un lavoro come quello universitario, in cui ogni docente è responsabile di ciò che fa, di regola non è che in un giorno di sciopero uno se ne va a passeggio: anche nel giorno di sciopero degli esami si lavora come in un giorno normale.
 
Però c’è un equilibrio tra il contribuire generosamente a uno sforzo comune e il sostenere legittimamente la propria causa. Io credo che l’università abbia un ruolo centrale nello sviluppo della società… e, sì, certo, in questo forse sono (comprensibilmente) di parte. Però, anche mettendosi nei panni altrui, tra tutte le categorie dei dipendenti pubblici italiani non vedo proprio la minima ragione per cui i docenti universitari debbano essere considerati meno importanti degli altri. Iniziare a riportare risorse e ragionevolezza nel sistema mi sembra quindi indispensabile.
 

venerdì 1 settembre 2017

Ultimi interventi sul sito Treccani


 
Sul sito Treccani.it sono usciti nei primi mesi dell’anno diversi interventi miei. Non ne avevo ancora parlato su questo blog, ma rimedio adesso.
 
Il primo è stato un intervento su L’italiano e gli assistenti vocali, una rapida sintesi di argomenti su cui ho appena finito di scrivere un libro di prossima pubblicazione.
 
Il secondo contributo ha riguardato Il futuro in vesti classiche di Damiano Malabaila, cioè l’intreccio tra linguaggio e narrativa di genere nelle opere fantascientifiche di Primo Levi.
 
 

martedì 11 luglio 2017

Vanagolli, Oreste Del Buono


 
Francesco Vanagolli, Oreste Del Buono
Un’altra novità di cui ancora non avevo parlato. Nei primi mesi dell’anno è uscito, con prefazione mia (pp. 9-10), un libro intitolato Oreste Del Buono da “Bertoldo” a “Linus”. Il più eclettico intellettuale italiano e i fumetti. Il libro è stato scritto da un mio laureato, Francesco Vanagolli, ed è la prosecuzione della sua tesi di laurea magistrale.
 
In quanto ai contenuti, è difficile riassumere in poche righe chi è stato Oreste Del Buono. Lo scrittore elbano ha fatto un’infinità di cose… tra cui, appunto, anche molte collegate al fumetto. In questo settore ha lasciato il segno forse soprattutto grazie al suo lavoro con Linus, ma sarebbe un errore legare il nome a un unico prodotto. Il libro di Vanagolli sintetizza questo percorso, dedicando giustamente anche spazio ad attività successive e minori di Del Buono: l’Enciclopedia del fumetto, la trasmissione televisiva Fumo d’inchiostro, la direzione de L’Eternauta. Di tutto questo si sentiva il bisogno, e spero che il libro possa contribuire a rendere un po’ più nota questa storia affascinante.
 
Nel frattempo, il libro ha anche ottenuto il Premio Casentino per la saggistica: anche questo è motivo di soddisfazione.
 
Francesco Vanagolli, Oreste Del Buono da “Bertoldo” a “Linus”. Il più eclettico intellettuale italiano e i fumetti, Piombino, Edizioni il foglio, 2016 (ma 2017), pp. 179, ISBN 978-88-7606-626-9, € 15. Copia ricevuta dall’autore.
 

martedì 4 luglio 2017

Primi aggiornamenti: AATI a Palermo

  
 
Al mercato di Ballarò, a Palermo
Dal mio rientro dall’India, a febbraio, il lavoro è stato tutto di corsa. Adesso finalmente ho di nuovo il tempo necessario ad aggiornare questo blog, e apprezzo moltissimo.
 
Prima comunicazione di servizio: la settimana scorsa sono stato al convegno dell’AATI (American Association of Teachers of Italian) a Palermo. Assieme a Tanya Roy ho presentato lì il 29 giugno un lavoro su Errori, sequenze e interferenze nell’apprendimento dell’italiano in India. Per la mia parte, era naturalmente basato sul lavoro fatto quest’anno, e in particolare sull’attività di correzione degli articoli.
 
Palermo poi si è rivelata un’esperienza fantastica – molto migliore del previsto. In Sicilia del resto c’ero stato finora un’unica volta, nel 1986. Molte cose sono cambiate, nel frattempo; e molte altre sono rimaste le stesse. Ma il giorno dell’arrivo, il 28, i 37 gradi all’ombra sono stati un corso di aggiornamento niente male.
 

venerdì 17 febbraio 2017

Un altro saluto a Delhi



La mitica Aula 30

La settimana scorsa è finita la mia esperienza con gli studenti di italiano all’Università di Delhi. È stato anche stavolta un periodo fantastico!
 
I ringraziamenti vanno in primo luogo a Tanya Roy, che insegna italiano al Department of Germanic and Romance Studies: non solo Tanya è una bravissima docente, ma senza di lei non avrei potuto fare niente. Il suo invito e il suo supporto sono stati fondamentali e per questo la ringrazio ancora.
 
Poi è stato un piacere fare due chiacchiere – anche se spesso molto brevi – anche con gli altri docenti del Dipartimento. In particolare con il lettore di italiano, Roberto Bertilaccio, ma anche con Manmohan Singh e Ramesh Kumar. Molto piacevole è stato anche un gentilissimo invito a pranzo da parte di Rakesh e Pawan, che stanno andando avanti con lo studio e con la didattica.
 
Infine, un ringraziamento particolare va agli studenti che ho incontrato. È stato interessante fare ogni tanto due chiacchiere con quelli del I anno, su argomenti come “bere vino in Italia”. Ma soprattutto, ho apprezzato molto gli incontri con gli studenti del II anno per il corso “Developing advanced reading and writing skills”. Molti tra di loro sono decisamente bravi, e molti sono anche disponibili a intervenire e parlare a lungo… non vorrei far torto a nessuno, ma ricordo in particolare Tanya, Rohit, Himani, Jatin, Sonali e diversi altri. Con loro abbiamo parlato a lungo di scuole e università in Italia e in India, e anche di tanti problemi collegati all’uso dell’articolo in italiano.
 
Una novità rispetto alle mie precedenti esperienze: gli studenti adesso usano ininterrottamente smartphone di grandi dimensioni. Convincerli a posare il telefono è molto difficile – anche perché molti di loro lo usano per leggere (con qualche difficoltà) i libri di testo, invece di tenerli su carta. Soprattutto, però, lo usano per lavorare con Google Translate e strumenti simili, cercando al volo parole e frasi. Di tutto questo, che è il futuro, gli insegnanti di lingua dovranno tenere conto con molta attenzione nei prossimi anni.
 
Ripensando a questo mese, comunque, devo tener presente anche il fascino dell’esotico. Al punto che mi trovo perfino ad avere nostalgia della baracca non troppo igienizzata dove all’ora di pranzo si preparano al volo chai a 6 rupie e chhole bhature (छोले भटूरे) a 25 rupie...


chhole bhature (छोले भटूरे) in preparazione

 
Certo, è un peccato che in questo periodo il supporto statale per l’italiano sia molto ridotto e che perfino il lettore del MAECI, per quanto bravo e attivo, sia costretto a dividere il suo tempo tra l’Università di Delhi, l’Università Jamia e l’Istituto Italiano di Cultura. L’India è un grandissimo paese e in questo secolo promette di essere uno dei centri del mondo: l’Italia farebbe bene a impegnarsi molto di più, per la conoscenza della lingua e della cultura, sostenendo chi già lavora sul posto e incrementando le risorse. Sono sicuro che sarebbe un ottimo investimento per il futuro di tutti.
 

venerdì 3 febbraio 2017

La vecchia Goa

  
 
Venditrice di frutta a Miramar
Oltre alla geopolitica da spiaggia del presente c’è quella del passato. Nel caso della vecchia Goa, è una geopolitica che si è trasformata in pietre e chiese imbiancate.
 
A quel che mi sembra, in Italia non è molto nota la storia della città di Goa. Collocata nell’estuario del fiume Mandovi, all’origine era la capitale di un regno islamico sulla costa occidentale dell’India. Nel 1510 venne conquistata da Alfonso de Albuquerque, poi persa, poi riconquistata; rimase poi per secoli la capitale dei territori portoghesi in India, importanti per il commercio delle spezie. In quel periodo fu riempita di palazzi e, soprattutto, di chiese imponenti, sulla scala di una città europea di discrete dimensioni.
 
Goa era però anche un posto devastato regolarmente dalle epidemie. A partire dal Settecento i portoghesi iniziarono quindi a spostarsi qualche chilometro più a mare, a Panjim e il processo portò all’abbandono totale nell’Ottocento. Goa rimase come un assieme di costruzioni in disfacimento, finché nel Novecento non iniziò un’opera di conservazione.
 
Oggi i resti della città sono in pratica scomparsi e rimangono solo gli edifici principali. Il campanile della vecchia chiesa di Sant’Agostino, crollato per metà, domina il centro da una collinetta. Sulla riva del fiume le chiese principali sono isolate all’interno di ampie spianate e giardini ben tenuti. Gruppi di turisti indiani si spostano dall’uno all’altro sotto il sole dei Tropici, e si fotografano davanti a questi resti di una civiltà remota.
 
Di esotismo, per loro, ce n’è. Nella basilica del Bom Jesus fanno mezzo giro attorno alla cappella in cui è esposto il corpo di San Francesco Saverio: dentro una teca di cristallo, e in cima a un monumento realizzato nel Seicento da Giovan Battista Foggini a spese del Granduca di Firenze. Ancora più gettonato sembra un presepe a grandezza naturale nel chiostro. I selfie davanti a re magi e cammelli si sprecano.
 
Per me, il modo migliore per apprezzare il posto è vederlo dall’altra riva del Mandovi. Per farlo, si scende al fiume dove un tempo c’erano negozi e mercati e la Rua Direita, una delle vie principali di Goa. Si passa sotto il ricostruito Arco del Viceré e si sbuca sull’ormeggio degli scassati traghetti (due) che fanno la spola gratis tra Goa e l’isola Divar, duecento metri più in là, trasportando macchine, motorini e pedoni.
 
All’ormeggio sull’altro lato dell’isola non c’è niente: solo un baracchino che vende acqua e patatine, e una fermata dell’autobus. Un uomo pesca in una pozza usando zampe di pollo come esca e avverte (o segnala): “Snake!” Effettivamente, nell’acqua stagnante c’è un serpentone addormentato. Però la vista ripaga. Le chiese di Goa sono nascoste da una parete di palme da cocco; spuntano solo le cime dei campanili, e la cupola della chiesa di San Gaetano.

La chiesa di San Gaetano di Goa vista dal fiume Mandovi

Per cambiare ritmo, la cosa migliore è fare un salto a Panjim. A Miramar, partono le barchette che fanno un giro turistico di un’ora all’estremità dell’estuario, a mostrare rive e delfini per la modica cifra di trecento rupie. Il bigliettaio mi vede e si preoccupa: “There is loud Indian music, sir”. Ah, sì? Ma solo su questa barca o su tutte? “All.” E allora…
 
Turisti in barca a Miramar


In effetti la partenza avviene al ritmo di musica punjabi, che non c’entra molto con l’ambiente marino. Ci si intona di più quando si passa a Pani pani sunny sunny. Il commentatore indica i vecchi forti portoghesi e racconta tutto sui film di Bollywood girati lì: attori, trama, canzoni di successo. Poi arriva il momento di eccitazione quando il battello incontra un gruppetto di delfini – belli grossi, tra l’altro. Si manovra, si aspetta la risalita. Si gira attorno a un peschereccio; i turisti sul battello fotografano il peschereccio, i pescatori a bordo fotografano i turisti… gli unici che non fanno foto sono i delfini, sembra. Per quanto, chi può dirlo?
 

venerdì 27 gennaio 2017

Geolinguistica da spiaggia

  
 
Sulla spiaggia di Benaulim, a Goa
Questa settimana, approfittando della Festa della Repubblica indiana, sono andato a Goa. In particolare, ho soggiornato a Benaulim, che è un paesino nella parte meridionale dello stato di Goa. Forse l’unico paesino, tra l’altro, in cui i cristiani siano in maggioranza (nell’assieme dello stato, nonostante i cliché del cinema indiano, sono solo il 30%).
 
Il nord di Goa era antica zona di hippy e oggi è meta di turismo di massa. Il sud di Goa è decisamente meno affollato. A Benaulim c’è una bella spiaggia pulita e i bagnanti sono in numero ragionevole: se la spiaggia fosse più stretta, e le palme da cocco meno numerose, assomiglierebbe a una Marina di Vecchiano in bassa stagione (“si Parigi avesse lu mere…”). Quando il vento soffia da terra, il mare diventa una tavola distesa fino all’orizzonte e forse anche oltre, in direzione della Somalia. I pescatori tirano le reti, donne e bambini stendono il pesce sulla strada a seccare. I bufali tagliano la strada ai turisti in bicicletta, che tollerano, e tutto va bene.
 
Pesce e cocco

Oltre a essere un’ottima occasione per nuotare e leggere, i miei giorni a Goa sono stati però un’altra conferma del mio modo di vedere la vita delle lingue. Goa è rimasta territorio portoghese per 451 anni, dal 1510 fino al 1961. Ora, a parte i nomi, questo mezzo millennio ha lasciato un’eredità linguistica pari grosso modo a zero… In un posto pieno di persone che si chiamano Lourenço Souza, Salvador D’Silva e così via, nessuno parla portoghese – anche se qualche anziano, a quel che leggo, l’ha imparato a scuola in età coloniale – e in giro non ci sono scritte in portoghese. La lingua della popolazione era ed è rimasta il konkani, che oggi si scrive usando il devanagari indiano (uso ufficiale) oppure l’alfabeto latino (preferito dalla Chiesa cattolica).
 
Per il resto, la lingua del turismo e della modernità è naturalmente l’inglese e i cartelli di ogni tipo riflettono la situazione – incluse le pubblicità rivolte ai residenti. Ma il turismo di Goa è internazionale, e in buona parte europeo: a Benaulim una buona fetta della popolazione sembra composta di atletici pensionati di lingua francese. E soprattutto, c’è una sorprendente presenza di russi, al punto che le scritte sui negozi e i menu dei ristoranti sono spesso in doppia versione, inglese e russa. In nome dell’antica alleanza, e dei bassi costi, direi, e tutto va bene.
 
"Hawaii Garden"
Dal punto di vista linguistico, naturalmente, tutto questo è con ogni probabilità temporaneo. La popolazione parla konkani, impara l’inglese e resiste alle pressioni per usare hindi o marathi. Per quanto l’inglese si diffonda nell’istruzione, sospetto che le madri, i compagni di scuola e le famiglie continueranno a parlare il konkani e a usare lingue diverse solo con gli ospiti. Quando gli ospiti se ne andranno, il konkani rimarrà.
 
Nel frattempo però è interessante guardare questo spettacolo multilingue. Le scritte inglesi in lode della Madonna di Vailankanni si incrociano con gli avvisi in devanagari e le promesse di коктейль, e tutto va bene. Anche se il visitatore più attento noterà, in aeroporto, i due squadroni di MiG-29KUB della marina indiana piazzati lì. A ricordare che la storia a volte prende brutte strade, e che nell’ultimo anno sull’orizzonte sono comparse tante nuvole che non mi piacciono.
 

venerdì 20 gennaio 2017

Italiano scritto a Delhi

  
 
Davanti alla Biblioteca universitaria dell'Università di Delhi
Comunicazione di servizio: sono di nuovo in India. Stavolta, per qualche settimana, farò lezioni di italiano scritto per gli studenti dell’Università di Delhi – BA in Italian. Il corso è “Developing advanced reading and writing skills” ed è rivolto agli studenti del secondo anno: ho già iniziato le attività e, com’è ovvio, sono entusiasta!
 
Certo, qui si deve (insolitamente) girare con il cappotto, e i locali non sono attrezzati per il freddo. Ma non si può avere tutto… E del resto, adesso il freddo italiano è ben più intenso.
 
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