lunedì 28 giugno 2010

Agostino, Ambrogio, Maria, Paolo e Guglielmo


Giovedì mattina sono passato da Milano per faccende editoriali. Naturalmente, con il (giustamente celebre) regionale che parte da Livorno, passa da Pisa Centrale alle 6.08, da San Rossore alle 6.14, e arriva a Milano via Fornovo alle 10.25, attraversando un paesaggio che nelle giornate di bel tempo è meraviglioso. Ritorno alle 17.05, con lo stesso treno: non è certo un Frecciarossa, ma visto che il biglietto a/r costa in totale meno di 34 € a/r, è di gran lunga il modo più ragionevole per passare un'attiva giornata di lavoro nella Capitale Morale (!).

Io ho approfittato dei tempi ferroviari per fare un salto anche in Sant'Ambrogio, dove, in paramenti adeguati al rango, sono adesso di nuovo esposti i resti mortali di, appunto, Sant'Ambrogio. Buona occasione per porsi di nuovo la famosa domanda: quando, milleseicento anni fa, Ambrogio era vivo e leggeva in silenzio, questo suo modo di fare stupiva i contemporanei oppure no? Le venerabili ossa oggi non possono più risponderci. Possono quindi spiegarci qualcosa solo le testimonianze scritte, e in particolare la descrizione fatta da Agostino nelle Confessioni (VI, 3), che da più di cent'anni è al centro dell'attenzione di chi si occupa di questo genere di questioni: "cum [Ambrosius] legebat, oculi ducebantur per paginas et cor intellectum rimabatur, vox autem et lingua quiescebant". Nietzsche, sembra, è stato il primo a ritenere che in queste parole Agostino esprimesse "stupore" davanti alla "stranezza" di Ambrogio, e la sua idea, ripresa da Norden, è diventata negli anni luogo comune. Ma questa ricostruzione corrisponde alla realtà storica?

Mary Carruthers (The book of memory, pp. 170-173) vota per il no. Secondo lei, la descrizione "is often misread" (p. 171); in realtà, nell'antichità classica la meditatio (silenziosa) su un testo conviveva con la lectio (ad alta voce) rivolta agli altri (p. 170). In questo contesto, ciò che sorprende Agostino non è la lettura silenziosa di per sé, quanto piuttosto il fatto che "Ambrose never red in the other way, though others were present ("et aliter numquam")" (p. 171). Secondo Agostino, Ambrogio poi si comportava così soprattutto per evitare interruzioni e domande da parte delle persone che aveva intorno. Quel che contava, insomma, era il fatto che anche in presenza d'altri Ambrogio preferiva "meditare" in silenzio: una questione d'atteggiamento più che di capacità. "Whether or not the vocal chords are used is a secondary difference between the two methods of reading" (p. 172).

A questo discorso replica negativamente Paul Saenger: la meditazione silenziosa su un testo, senza muovere la lingua, secondo lui, non era possibile di fronte a una scrittura priva di spazi tra le parole, come quella che Ambrogio si trovava di fronte. "When Carruthers translates comments on this passage in The Book of Memory, pp. 170-171, she projects o the text attitudes that are entirely postclassical. No ancient writer ever refers to reading as 'scanning' or meditatio" (p. 299, n. 41). Osservazione che mi sembra un po' fuori bersaglio, perché la meditatio di cui parla Mary Carruthers corrisponde in buona parte all'assimilazione di un testo, non alle attività di "rapid, silent reference consultation as it exists in the modern world", secondo la definizione dello stesso Saenger (p. 9).

Chi ha ragione? William A. Johnson ha pubblicato una sintesi delle discussioni su questo argomento, nella prospettiva dei classicisti, in Toward a Sociology of Reading in Classical Antiquity, The American Journal of Philology, vol. 121, 4 (Winter, 2000), pp. 593-627 (disponibile attraverso JSTOR):

Without hesitation we can now assert that there was no cognitive difficulty when fully literate ancient readers wished to read silently to themselves, and that the cognitive act of silent reading was neither extraordinary nor noticeably unusual in antiquity. This conclusion has been known to careful readers since at least 1968, when Bernard Knox demonstrated beyond reasonable doubt that the silent reading of ancient documentary texts, including letters, is accepted by ancient witnesses as an ordinary event (p. 593).

Questo smentisce in buona parte la ricostruzione della linea-Nietzsche, in cui si colloca anche Saenger. Alla critica del libro di Saenger, in effetti, Johnson dedica il dovuto spazio (pp. 597-598) nella sua sintesi: gli antichi acculturati, se volevano, potevano benissimo leggere senza muovere le labbra. Sembra che questo debba chiudere il dibattito.

La risposta finale, però, è più sfumata. In effetti, dice Johnson, esistono tipi molto diversi di lettura. I dati oggi disponibili mostrano che gli antichi erano capaci di leggere in silenzio. Ma mostrano anche che la lettura silenziosa non era, probabilmente, il modo normale di lavoro. Plinio il giovane, per esempio, descrive senza troppi moti di sorpresa il modo in cui Plinio il vecchio, per studiare, si faceva leggere ad alta voce da servitori e segretari mentre mangiava, mentre faceva il bagno, e così via (pp. 605-606). Comportamento oggi impensabile per qualunque studioso serio, e non solo per mancanza di schiavi... Nei paesi di lingua inglese esiste, certo, un florido mercato di audiolibri, ma solo per narrativa o saggi divulgativi, e non certo per i professionisti.

Insomma, forse non esistevano ostacoli invalicabili alla lettura silenziosa, ma di sicuro le modalità di uso e consumo della lettura erano profondamente differenti dalle nostre, e molto caratterizzate socialmente (Johnson insiste molto sul carattere di "attività di prestigio" che aveva la lettura). Anche se smentisce le posizioni più estreme sulla lettura, più che formule risolutive, insomma, l'articolo fornisce stimoli per la ricerca - il che non è un male.

venerdì 25 giugno 2010

Recensione: Corpus linguistics and the web


Una mia breve (3 pagine) recensione del libro Corpus linguistics and the web è stata pubblicata dalla rivista Language resources and evaluation (volume 44, n. 3, settembre 2010, pp. 291-293).

Cosa un po' curiosa per una pubblicazione elettronica, per una serie di eventi la recensione non è troppo di attualità: il libro recensito è uscito nel 2007 e a sua volta presentava contributi realizzati per un convegno del 2003; e, sull'argomento, una distanza di questo tipo pesa! Comunque, più che gli stessi contenuti, in questo caso mi sembra interessante segnalare un po' di aspetti collegati alla pubblicazione.

Innanzitutt, l'accesso è a pagamento, il che significa che chi si collega alla rivista da un'istituzione che ha attivato l'abbonamento al pacchetto di riviste Springer (per esempio, la rete universitaria di Pisa) può leggere e scaricare l'articolo senza problemi, mentre chi si collega in altro modo ha solo la possibilità di acquistare l'accesso pagando 34 dollari. Le condizioni di pubblicazione prevedono però che l'autore possa autoarchiviarsi una copia del Pdf (cosa che ho subito fatto), e metterlo a disposizione in qualche forma (e su questo, ho bisogno di studiarmi la documentazione...).

In secondo luogo, anche la recensione è doverosamente dotata di un suo DOI: 10.1007/s10579-010-9119-7. Il che significa che, inserendo il DOI in un risolutore di DOI, come per esempio mEDRA, si viene rinviati senza problemi all'articolo; e che programmi come Zotero permettono di archiviare automaticamente i dati bibliografici. La generalizzazione dei DOI in questi ultimi anni mi sembra un notevole passo avanti nella gestione della bibliografia scientifica! Al punto che incomincia a sembrare faticoso andare a ricostruire i dati dei vecchi contributi a stampa.

venerdì 18 giugno 2010

Gawande, The checklist manifesto


Qualche tempo fa, sul treno, ho incontrato un australiano che leggeva The checklist manifesto (pubblicato nel 2010 da Atul Gawande). Gli ho chiesto com'era, e lui ha risposto: "buono". A quel punto, ho spostato il libro un po' più su nella lista delle cose da leggere. Per qualche ragione che non riesco più a ricordare, poi, l'ho comprato nell'edizione su carta. Era chiaramente il tipo di libro che si legge meglio su iPhone e Kindle, ma tant'è... E quindi a inizio settimana mi è arrivato, e l'ho letto al volo.

Giudizio finale: interessante ed equilibrato, anche se poco approfondito dal punto di vista scientifico. Gawande è un chirurgo e, ispirato dagli esempi dei piloti d'aereo e dei costruttori di edifici complessi, si è messo a sperimentare semplici sistemi per migliorare l'esito delle operazioni chirurgiche. Non sorprendentemente, la sua proposta di base consiste nell'usare checklist, o liste di controllo, da leggere ad alta voce o su cui fare segni a penna, per confermare che i vari passi di una procedura siano stati eseguiti correttamente. Anzi, in verità, si tratta di due proposte diverse: usare liste di controllo per assicurare che i passi di base di routine vengano eseguiti tutti, e su questa base costruire una comunicazione all'interno dei gruppi di lavoro che consenta di intervenire in modo coordinato nei casi in cui la routine da sola non basterebbe.

Sul perché questi sistemi funzionano - e, a monte, sul perché la nostra memoria ci tradisce - Gawande ha poco da dire, e più che altro rimanda a nozioni diffuse. Sul modo in cui le istruzioni sono scritte, l'unico consiglio in pratica consiste nella raccomandazione di tenere le liste semplici e valutare con attenzione il rapporto costi-benefici, com'è giusto che sia. L'aspetto interessante del libro è quindi la descrizione di singoli casi di successo. E, in particolare, del modo in cui l'introduzione di liste di controllo da percorrere in pochi secondi ha mostrato una notevole capacità di ridurre le complicazioni in sala operatoria.

Sarà vero? Di sicuro suona molto plausibile; così come sembra plausibile il fatto che, a volte, eseguire controlli di questo genere porta addirittura a ridurre il tempo necessario a portare a termine una procedura complessa, anziché allungarlo. Insomma, anche in questo caso la capacità di scrivere qualche riga di istruzioni può avere un impatto positivo e misurabile sul modo in cui funzionano le cose - perfino in contesti in cui si tratta di fare la differenza, letteralmente, tra la vita e la morte.

giovedì 10 giugno 2010

Zotero

Per il mio prossimo lavoro sull'italiano del web ho iniziato a gestire la bibliografia usando Zotero: un sistema sviluppato dalla George Mason University, distribuito con licenza GPL3 e adatto a gestire informazioni bibliografiche di diverso tipo. In sostanza, si scheda un articolo o un libro o un sito web con un plugin di Firefox, poi si trascina l'iconcina che rappresenta l'articolo in, per esempio, Writer di Open Office, e i dati bibliografici vengono trascritti.

In aggiunta al meccanismo base, Zotero ha anche diverse funzioni interessanti, che lo rendono preferibile ad archivi più artigianali. Per esempio, regolando le opzioni del programma si possono salvare le citazioni in diversi formati, il che è comodo quando (come spesso accade) le stesse opere base devono essere citate in dieci articoli diversi, con dieci criteri diversi di presentazione. Apparentemente, sta diventando la cosa più vicina a uno standard che sia disponibile in questo settore.

È ancora presto per capire se il sistema può andar bene per me, ma di sicuro qualche funzione integrata comincia a essere interessante. Per esempio, per gli articoli inseriti su JSTOR e alcune altre fonti non occorre digitare a mano i dati bibliografici (autore, titolo, rivista...): nella barra dell'indirizzo di Firefox compare un'iconcina che, cliccata, trascrive direttamente i dati in Zotero. I siti che offrono questo genere di indicizzazione sono ancora pochi, ma spero che crescano... In fin dei conti, prima o poi uno standard dovrà pure emergere!

mercoledì 9 giugno 2010

Sassetti, Lettere dall'India


Mi sono preso un po' di pausa da spazi e segni d'interpunzione per leggere le Lettere dall'India (1583-1588) del fiorentino Filippo Sassetti, a cura di Adele Dei, Roma, Salerno ed., 1995. Ne valeva la pena...

In fin dei conti, Filippo Sassetti è uno che a fine Cinquecento fece una scelta niente male, cioè, si mise in testa di andare in India. Per lavoro (come sovrintendente alle spedizioni di pepe di Giovan Battista Rovellasco), ma anche e soprattutto per interesse personale: per andare a vedere il mondo. In realtà, quel che vide fu soprattutto qualche insediamento costiero portoghese (Cochin e Goa) sulla costa del Malabar, e in un periodo di crisi, perlopiù. Ma, visto che fece un figlio sul posto, Sassetti non si trovò poi troppo male; e anche a fine soggiorno progettava di tornare in patria facendo il giro del mondo - Indonesia, Cina, Giappone, America. La morte lo colse prematuramente e gli impedì di portare a compimento il viaggio; ma d'altra parte, Sassetti sapeva i rischi che correva, e non era poi che in patria la vita fosse molto più lunga. Non irragionevolmente, alla sorella che lo invitava al rientro, rispondeva quindi il 27 gennaio del 1585:

... la ragione del "ricordarmi d'essere nato a Firenze" non è buona, ché se delle due cose [cioè, evidentemente, nascere e morire] vi se ne fa una, basta. Se voi mi diceste: "A Firenze non si muore", questo sì mi farebbe tornare trottando (p. 96).

Ma, decisamente, non era così: le lettere che arrivavano (una volta all'anno, con l'arrivo delle navi da Lisbona tra settembre e novembre) gli portavano notizie di lutti continui. A Francesco Valori, che gli faceva elenchi di "Gente morta", Sassetti rispondeva dicendo: "Almeno mi aveste voi dato il contraccambio di tanti bambini nati, acciò che io non argomentassi che voi fosse costà venuti a finimondo" (p. 88). E in parallelo si rivolgeva agli appassionati di viaggi e descrizioni esotiche, come Michele Saladini a Pisa, cui scriveva nel dicembre 1585:

... ho molto contento a comprendere dal vostro scrivere che voi vi siate dato alla cosmografia. Parmi che manchi poco, per certa regola che abbiamo determinato qua il signor Pietro Grifo ed io di quello che bisogna a tirar gli uomini a India, a vedervici una volta comparire (p. 120).

Insomma, già allora il mal d'India era una malattia contagiosa... Colpisce, comunque, il modo in cui Sassetti continua a immischiarsi di faccende di casa, ricordando e consigliando dal Malabar campi e ville a Carmignano o a Campi Bisenzio. O mettendosi a paragonare le palafitte indiane agli "sporti di Santa Croce, che fanno quella bella vista quando e' si giuoca al calcio e sono le finestre piene di belle donne" (p. 98)... E il racconto non è male, anche se lo stile fiorentino ribobolaio dell'epoca, pieno di modi del parlato e di doppi sensi, spesso non rende facile la lettura (e fa venire la tentazione di correggere e semplificare ogni riga). Il commento di Adele Dei (che per il testo si basa sull'edizione di Bramanti, 1970, aggiungendo pochissimo di suo) aiuta un po', ma ogni tanto si svia - per esempio, a p. 90 probabilmente non si parla di "malattie veneree", ma di semplice elefantiasi (di cui Sassetti aveva già parlato a p. 86). Ma tant'è; nel groviglio di osservazioni e battute, qualcosa si perde per forza.

Dal punto di vista più strettamente linguistico, Sassetti è tra i primi a importare in italiano un bel po' di parole esotiche, da bambù a mango. Però, soprattutto, sembra sia stato il primo a citare in Europa l'esistenza del sanscrito:

Sono scritte le loro [= degli indù] scienze tutte in una lingua, che dimandano sanscruta, che vuol dire "bene articolata", della quale non si ha memoria quando fusse parlata, con avere (com'io dico) memorie antichissime. Imparanla come noi la greca e la latina e vi pongono molto maggior tempo, sì che in sei anni o sette se ne fanno padroni: e ha la lingua d'oggi molte cose comuni con quella, nella quale sono molti de' nostri nomi, e particularmente de' numeri el 6, 7, 8 e 9, Dio, serpe, e altri assai (lettera a Bernardo Davanzati del 22 gennaio 1586, pp. 179-180).

Insomma, Sassetti notò la somiglianza di ruolo tra il sanscrito, il latino e il greco ("parmi che noi possiamo dire che sia infermità di questo secolo che in tutte le parti del mondo le scienze sieno in lingua differente da quella che si parla", precisa altrove), ma non la stretta parentela . Nel brano citato si limita a notare la somiglianza di alcune parole con l'italiano (non con "il greco e il latino", come dice la curatrice, a p. 15), e più avanti citerà i nomi di città che finiscono in poli, per somiglianza con il greco. Stop. Per chiarire meglio la situazione ci vollero altri due secoli, ma nel contesto Sassetti non fa affatto una cattiva figura, visto che ai tempi suoi i portoghesi erano in India da un secolo e non si erano degnati di informarsi poi molto su usi e costumi locali. E in fin dei conti, difficile parlar male di uno che decise di imbarcarsi così, e che a Pier Vettori poteva raccontare con partecipazione (27 gennaio 1585, pp. 76-77) di "un uomo da bene che sta in queste parti", il quale

... avendo moglie e figli in Lisbona, e vivendosi acconciamente, si trovava una mattina su la riva del mare a veder partire le navi che vengono qua; allo sciorre delle vele delle quali, tutti i marinai, passeggieri, soldati e tutta la terra finalmente grida a voci altissime "Buon viaggio", al qual grido sentitosi quello uomo buono toccare il cuore, aperta la borsa e trovatovi drento sei portoghesi, che sono circa novanta ducati, mandò a dire a casa che non l'aspettassino a desinare...

martedì 8 giugno 2010

Oltre i trecento


Ieri Steve Jobs ha presentato in anteprima l'iPhone 4. Il racconto della presentazione fatto da Rob Beschizza per BoingBoing (da dove riprendo anche l'immagine qui sopra, realizzata da Dean Putney) dà il giusto risalto a un aspetto non marginale, cioè

the gadget's new high-resolution display, which offers 4x the screen resolution compared to the current model. This feature (...) means that the screen has 326 pixels per inch, denser even than the dots per inch of some printed material.

Non è un risultato da poco! Fino a oggi, tutti gli schermi per computer o assimilabili (a tubo catodico, LCD, a inchiostro elettronico...) fornivano una risoluzione inferiore ai 300 punti per pollice che sono da più di vent'anni lo standard di stampa anche dei prodotti di fascia bassa.

Beschizza, come commento, aggiunge che "Typographers and artists will doubtless be pleased at the possibilities" offerte dall'iPhone. In effetti...

Certo, la stampa professionale arriva a risoluzioni di 1300 punti per pollice, e per un'immagine ricca di dettagli (da una fotografia a una carta geografica) la differenza rimarrà fortissima, a tutto vantaggio della carta. Però, per molti contesti lavorativi, si può dire che almeno su questo punto, finalmente, lo schermo supera la carta. E, con la diffusione di questi schermi, diventeranno inutili i criteri del tipo "su schermo, i caratteri senza grazie sono più leggibili di quelli con grazie", eccetera.

lunedì 7 giugno 2010

La forma delle parole


Nei miei corsi mi trovo spesso a presentare una contrapposizione: da un lato il modo in cui noi immaginiamo di leggere, dall'altro il modo in cui leggiamo davvero.

In sostanza, spesso noi crediamo che la nostra lettura funzioni decifrando una lettera dopo l'altra. Incontriamo una lettera, la "leggiamo", la mettiamo in memoria e passiamo alla successiva. Tot lettere formano una parola, e così via.

I meccanismi mentali reali, invece, sono molto più complessi. Io li presento in forma molto semplificata, accennando al fatto che il cervello lavora su molti binari contemporaneamente - per esempio, tenendo in considerazione il senso della frase fino a quel punto per fare ipotesi ragionevoli su come deve continuare la parola, e così via.

Ma in che modo funzionano, questi meccanismi, in dettaglio? Qui le cose si fanno più vaghe e l'informazione spesso contraddittoria. Facendo i controlli di contesto sul solito Space between words ho trovato un interessante articolo di Kevin Larson: The Science of Word Recognition, or, how I learned to stop worrying and love the bouma. L'articolo fa parte dei lavori del gruppo di ricerca Microsoft sulla "tipografia" (cioè, in sostanza, sulla presentazione dei testi dal punto di vista del carattere), ed è una critica decisa delle informazioni fornite da Saenger sul modo di riconoscimento delle parole.

Larson dichiara innanzitutto che leggendo Saenger, "I learned to my chagrin that we recognize words from their word shape and that “Modern psychologists call this image the ‘Bouma shape’”". La ricostruzione non è del tutto corretta: il virgolettato nel virgolettato viene sì dal libro di Saenger (p. 19), ma lì non si dice affatto che i normali lettori riconoscono le parole in base alla loro forma! Saenger in effetti si limita a ricordare che "the student of the history of reading in the medieval West is primarily concerned with the evolution of word shape" (p. 18); anche in altri punti del libro cita la "Bouma shape" delle parole, ma, mi sembra, senza mai dire che questo è l'unico (o anche solo il principale) strumento che il lettore usa per riconoscere le parole. Cosa che corrisponde all'esperienza quotidiana: chi mai può sostenere che basti vedere per esempio questa forma:

... per ricondurla alla parola shape? (Per inciso, sia questa immagine sia quella presentata a inizio post vengono dall'articolo di Larson).

Detto questo, non c'è dubbio che un'ampia tradizione di ricerca e insegnamento (in cui mi inserisco anch'io) abbia dato molta importanza alla "forma" delle parole. Il discorso di Larson si fa più interessante quando va proprio contro questa tradizione, che ha diversi punti di forza. Quelli che cito spesso anch'io, e che sono confermati da molti studi, sono:

1. la maggiore velocità di lettura permessa dal testo in minuscole rispetto al testo in tutto maiuscole;

2. la difficoltà di individuare gli errori di battitura, soprattutto se compatibili con la forma "corretta" della parola (per esempio, crlpa invece di colpa - mentre è più facile individuare cqlpa).

Al primo punto, Larson risponde che:

This is entirely a practice effect. Most readers spend the bulk of their time reading lowercase text and are therefore more proficient at it. When readers are forced to read large quantities of uppercase text, their reading speed will eventually increase to the rate of lowercase text. Even text oriented as if you were seeing it in a mirror will quickly increase in reading speed with practice (Kolers & Perkins, 1975).

L'articolo di Kolers e Perkins cui si fa riferimento è questo, e spero di leggermelo presto (e, perché no, di controllare i risultati).

Al secondo punto, Larson risponde indicando un errore di metodo in uno degli studi più importanti e citati sull'argomento, e indicando uno studio successivo più accurato:

Haber & Schindler (1981) found that readers were twice as likely to fail to notice a misspelling in a proofreading task when the misspelling was consistent with word shape (tesf, 13% missed) than when it is inconsistent with word shape (tesc, 7% missed). This is seemingly a convincing result until you realize that word shape and letter shape are confounded. The study compared errors that were consistent both in word and letter shape to errors that are inconsistent both in word and letter shape. Paap, Newsome, & Noel (1984) determined the relative contribution of word shape and letter shape and found that the entire effect is driven by letter shape.

Anche qui, spero di poter leggere la bibliografia in tempi brevi!

Certo, dal punto di vista delle indicazioni pratiche da fornire nei corsi di scrittura, la sintesi di Larson, anche se fosse corretta, sposterebbe ben poco: il testo in minuscole rimane più leggibile di quello in maiuscole, per i normali lettori occidentali. Mi chiedo però se dalla pari leggibilità potenziale del minuscolo e del maiuscolo non si possa ricavare qualche meccanismo pratico interessante! Ammesso che sia vera, è ovvio.

In ogni caso, a parte la critica delle posizioni altrui, è interessante chiedersi come funzioni davvero la lettura. Larson sposa il modello della "parallel letter recognition": non l'ho ancora capito a sufficienza da poter dire quanto assomiglia ai modelli un po' generici che spesso usano i linguisti (tipo me...) e che sembrano piuttosto robusti dal punto di vista pratico. Tuttavia, sono sicuro che anche da questa angolazione possano venire fuori ispirazioni interessanti.

mercoledì 2 giugno 2010

Lettere e immagini

Ho finito di leggere Space between words di Paul Saenger e adesso lo sto schedando e controllando. Come spesso accade, poi, i controlli sono interessanti quanto e più del testo in sé... Alla fine, mi sono messo a leggere il testo in parallelo a Pause and effect di M. B. Parkes (1992), di cui spero di parlare più avanti, e il confronto mi ha chiarito diverse cose.

Una prima nota, intanto, serve a ricordare che su un argomento di paleografia, il corredo di immagini, cioè di riproduzioni di manoscritti, è determinante. Eppure le riproduzioni, in entrambi i libri, hanno diversi limiti

Innanzitutto, nel libro di Saenger sono relativamente poche, e poco curate. Trentaquattro in tutto, e l'ultima, presentata a p. 229, è pure stampata male, essendo invertita specularmente. Errore che tra l'altro fa capire che il testo riprodotto non era poi molto leggibile, a colpo d'occhio... chissà quanti si saranno accorti dell'inversione? In altri casi (per esempio, nelle figg. 24, 27, 28) vengono riportate sezioni dell'originale in taglio un po' approssimativo, che nasconde parti di lettere (tratto comune al libro di Parkes), e in altri ancora la riproduzione è sfocata o sgranata.

In secondo luogo, le caratteristiche fisiche dei volumi pongono limiti precisi. Le dimensioni del libro di Saenger sono quelle del saggio umanistico tradizionale: 22,7 x 15 cm, cioè 340 centimetri quadrati, cioè un'area molto ridotta, rispetto a quella di diversi manoscritti fonte. La qualità fotografica e quella tipografica, come già detto, non sono di livello eccelso, e il supporto, normale carta porosa, peggiora ulteriormente la situazione. Per fortuna, in molti casi il fenomeno descritto si individua bene anche attraverso questi ostacoli - ma la leggibilità non è certo alta. Nel libro di Parkes la qualità delle riproduzioni è molto superiore, così come lo sono la carta (patinata) e le dimensioni (27,4 x 21,5 cm, cioè un'area quasi doppia, con 590 centimetri quadrati); anche qui, però, siamo spesso ben lontani dalle misure degli originali.

Le caratteristiche fisiche, inoltre, non sono tutto: Parkes accosta alle proprie riproduzioni anche trascrizioni del testo originale, traduzioni, note e numeri di riga, il che rende molto più semplice l'individuazione dei tratti commentati. Niente di tutto questo in Saenger. Beninteso, per fortuna in quest'ultimo libro buona parte dei testi riprodotti è scritta in latino, e in grafie che, essendo anteriori al XIII secolo, sono di solito molto leggibili. Però, per esempio, la fig. 9 dovrebbe illustrare la presenza di "hierarchical word blocks in the English translation of Orosius's Seven Books Against the Pagans" (p. 42), con spazi relativamente ampi usati solo per separare parole e spazi relativamente ridotti usati sia per separare parole sia per separare sillabe con valore di morfemi. Benissimo... solo che il manoscritto resta, per lingua e per grafia, ben poco accessibile a lettori come me: la trascrizione del testo originale avrebbe permesso di verificare meglio l'affermazione.

Soprattutto, infine, in nessuno dei due libri le immagini vengono elaborate per facilitare l'individuazione dei fenomeni. Saenger presenta alcuni ingrandimenti di particolari sezioni dei testi, il che è già un passo avanti rispetto alle pagine intere. Poi però non ci sono frecce, indicatori, evidenziazioni... Il che contribuisce a rendere frequenti situazioni come quella che ho già descritto qualche settimana fa: si cerca di verificare un dettaglio e non ci si riesce. Isolare una riga di testo e accompagnarla con frecce in cui si indicano i caratteri o i fenomeni cui si fa riferimento: non è difficile, però qui non viene fatto.

Come mai accettiamo d'abitudine questi difetti in lavori specialistici di questo tipo - e, aggiungo, di questa qualità? Alla radice, penso che sia solo perché la tecnologia tipografica ancora oggi si fonda su una separazione radicale tra chi scrive e chi impagina, e ancor più tra chi scrive e chi gestisce le immagini. E poi, possiamo dare per scontato che chi studia manoscritti medievali non sappia usare, per esempio, Photoshop. O no?
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