lunedì 29 aprile 2013

Verso Durham


Rapido aggiornamento: sono sul treno Londra-Durham, e oggi pomeriggio farò appunto una presentazione all’Università di Durham sull’italiano dei fumetti. Domani parteciperò invece a un seminario sull’italiano del web. Non sono riuscito a scrivere molto, in queste settimane (per fortuna, per ragioni in buona parte molto positive), ma spero di rimettermi in pari più avanti! Approfittando magari di nuovo dei 15 minuti di wifi gratis concessi dalle East Coast Railways…
 

martedì 16 aprile 2013

Ferri, Nativi digitali


Paolo Ferri, Nativi digitali
Il libro di Paolo Ferri sui “nativi digitali” è un disastro. Non ci sono, purtroppo, altri modi per definirlo.
 
Certo, non è un disastro isolato. Ferri si colloca in una lunga lista di autori (giornalisti, pubblicisti… e perfino diversi ricercatori “seri”) che hanno proclamato l’avvento di una generazione di giovani che, influenzati dagli strumenti digitali, studiano e socializzano in modi del tutto diversi da quelli delle generazioni precedenti.
 
L’idea è affascinante, ma ha un piccolo difetto: è falsa. Da quando è stata formalizzata (diciamo cioè dal 2001, l’anno in cui sono stati pubblicati due terribile articoletti di Marc Prensky sui “nativi digitali”), molti si sono limitati a ripeterla. Alcuni però hanno fatto una cosa strana e sovversiva: hanno provato a verificarla. E nessuna verifica seria ha mai trovato conferma di quest’idea di una radicale diversità. Che usino o no gli strumenti digitali, bambini e ragazzi del mondo industrializzato continuano in sostanza ad apprendere e interagire in un modo che nella sostanza è invariato – anche se in alcune manifestazioni presenta qualche novità superficiale, e a volte affascinante.
 
Io quest’anno sto dedicando un mezzo corso di Linguistica italiana 2 (per la laurea magistrale in Informatica umanistica a Pisa) ai “nativi digitali”. Il mio punto di partenza è naturalmente quello linguistico, ma su un argomento del genere è necessario fornire un bel po’ di informazioni di contesto. Avevo quindi sperato di inserire nel programma d’esame anche il libro di Ferri (Milano, Bruno Mondadori, 2011), che avevo letto l’anno scorso, anche se già all’epoca ero sicuro che potesse entrarci solo come primo obiettivo di una critica. Per fortuna, prima di formalizzare l’inclusione ho riletto il libro in dettaglio e ne ho discusse diverse parti sia a lezione sia durante un Seminario di cultura digitale. Risultato: no, è inaccettabile. Non si può presentare un libro del genere in un corso universitario, nemmeno come punto di partenza per la discussione.
 
I problemi non sono difficili da individuare. Partiamo però da quello di base, e cioè il modo in cui l’autore parla di esistenza di una vera e propria forma di intelligenza, anzi, “di nuove competenze cognitive che non vengono spiegate attraverso le attuali categorie interpretative” (p. 73). Nientemeno. In che cosa consiste, quindi, questa nuova intelligenza, che Ferri etichetta come “intelligenza digitale”? Il testo dà una risposta esplicita.
 
Nell’accezione in cui intenderemo il termine, esso identifica l’abilità cognitiva di utilizzare l’alternativa ‘sì/no’, ‘azione/inazione’ all’interno del nuovo spazio digitale dello schermo che è diventato la tecnologia caratterizzante della trasmissione del sapere. Per esempio, identifica la possibilità di attivare o non attivare un link ipertestuale all’interno di una pagina web, o la possibilità, più complessa dal punto di vista cognitivo, di tracciare un percorso intenzionale tra i link, cioè di seguire attraverso una decisione specifica questo o quel link in una pagina Internet o un determinato percorso di gioco in una consolle (p. 75, corsivo originale).
 
Cioè, l’intelligenza digitale consisterebbe nella capacità… di cliccare o non cliccare su un link. E, più in generale, di decidere se fare un’azione o no, e in casi più complessi, di farlo all’interno di un piano un po’ più esteso di un singolo clic.
 
La risposta più accurata a questa definizione penso che sia: “eh?” Cioè, Ferri sta sostenendo che la differenza radicale è data dal fatto che i giovani sono capaci di usare questa alternativa? Ma purtroppo non c’è un’argomentazione coerente, corredata di risultati di ricerca, che mostri per esempio misurazioni di tempi e modalità di svolgimento di compiti, notando, che so, diversità rispetto agli adulti. C’è invece una sequenza di affermazioni a ruota libera, alcune delle quali semplicemente ridicole. Un po’ per la qualità dell’argomentazione, un po’ per la quantità di errori e spropositi, a vari livelli, inseriti nel testo.
 
Prendiamo un esempio. Ferri inserisce la sua ipotesi sull’“intelligenza digitale” nel quadro della “teoria delle intelligenze multiple” di Howard Gardner. Teoria tanto vaga, e tanto poco supportata, che viene spesso citata come esempio di “pseudoscienza” presentata da un personaggio formalmente autorevole (Gardner insegna a Harvard). Lasciando però da parte questa dubbia ascendenza, Ferri adotta i criteri usati da Gardner per individuare diversi tipi di intelligenza. Questi criteri sono risibili sia nel loro assieme sia – quasi tutti – individualmente; vale la pena però vedere il modo in cui Ferri ne giustifica uno, vale a dire, il vedere se alcuni individui mostrino di possedere questa “intelligenza” in quantità maggiore rispetto ad altri:
 
Esiste (…) una serie di esempi eclatanti della capacità di maneggiare l’intelligenza digitale (…): evidentemente Tim Berners-Lee, l’inventore di Internet, così come lo conosciamo oggi [una nota pudìca, composta unicamente da un estratto da Wikipedia, sintetizza le realizzazioni di Berners-Lee, ma non corregge questa assurda definizione], o Bill Gates, l’inventore dei moderni sistemi operativi a partire da Microsoft DOS o MS-DOS fino all’attuale Windows 7; ma anche tutti gli altri ‘padri fondatori’ della comunicazione digitale, da Steve Jobs, l’inventore del primo personal computer, a Marc Zuckerberg, l’inventore di Facebook, o a Richard Stallman e Linus Torvalds, gli inventori del sistema operativo Linux, possono essere considerati dei maestri o dei savants nel campo dell’intelligenza digitale (p. 88).
 
Che dire? D’accordo, a parte quella di Zuckerberg, tutte queste definizioni sono clamorosamente sbagliate. Ma forse ancora più clamoroso è il fatto che l’autore le presenti come esempi eclatanti di capacità “di utilizzare l’alternativa ‘sì/no’, ‘azione/inazione’”. Forse pensando che il kernel di Linux sia stato costruito, piuttosto che scrivendo righe di codice in C, cliccando rapidamente su una serie di link?
 
Insomma, non solo il libro non è una cosa seria, ma a rileggerlo mi sono pure intristito. E quindi lo cancello dal programma: infliggerlo agli studenti è ingiusto. Tratteremo invece ricerche più serie, come quella di Mizuko Ito.
 
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