lunedì 19 dicembre 2011

Tablet PC e inchiostro digitale

Grazie a un gruppo di relazioni dei miei studenti, nelle ultime settimane ho messo (tardivamente) a fuoco l’esistenza dei tablet PC. In giro non se ne parla molto, ma in sostanza sono computer portatili in cui lo schermo può essere usato come superficie per scrivere con uno stilo e, a volte, con le dita. Diversi produttori, tra cui in particolare Asus, HP, Fujitsu e Toshiba, hanno dedicato negli anni un po’ di risorse allo sviluppo di questa categoria di macchine.

Rispetto ai veri e propri tablet (dall’iPad ai modelli Android), i tablet PC hanno molte differenze. Innanzitutto, spesso sono fisicamente dei veri e propri notebook, dotati di disco rigido, periferiche abbondanti di input e output, eccetera – e spesso hanno anche la forma di un notebook, con la differenza che lo schermo può essere ruotato sopra la tastiera, nascondendola e rimanendo all’esterno del dispositivo.

Una differenza forse ancora più importante è data dal fatto che su questi tablet PC gira Windows. Sistema operativo che nelle ultime versioni, da XP in poi, ha sempre tenuto conto di questa categoria di dispositivi. Windows non è mai stato ottimizzato fino in fondo per i tablet (le lamentele su questo argomento sono frequenti), tuttavia è in grado di gestire molti tipi di interazione e, soprattutto, fa girare una categoria di programmi che non ha equivalente presso altri sistemi operativi.

OneNote Microsoft è un esempio di questi programmi. La gestione degli appunti manoscritti e la possibilità di farne (a volte) una conversione via OCR sono uno dei punti chiave del software, a funzioni simili è stato dato anche il nome, appropriato, di “inchiostro digitale” o digital ink . Di OneNote esiste anche una versione per iPad, ma l’iPad non ha, ahimè, un digitalizzatore attivo, e quindi la scrittura sul dispositivo è tutt’altro che soddisfacente (ho fatto anche delle prove in questi giorni usando uno stilo): l’hardware fa la differenza.

I tablet PC sembrano molto promettenti come supporto per la scrittura professionale. Per esempio, secondo molte segnalazioni, sono molto usati (e sono adatti) per un lavoro che faccio molto di frequente: l’annotazione a mano libera su file PDF o assimilabili, a cominciare dalle bozze dei libri a stampa. Sono quindi molto curioso di provare in prima persona le possibilità d’uso.

Tuttavia, i tablet PC hanno anche il difetto di essere apparecchi professionali, e quindi relativamente costosi, con prezzi che vanno di regola dai 1500 euro in su. Attrezzature che costano un mese di stipendio non possono certo essere acquistate alla leggera... ma ho idea che, se riuscirò a ottenere sufficienti fondi di ricerca, l’anno prossimo un acquisto simile sarà quasi inevitabile. Nel frattempo, mi preparo leggendo aggiornamenti su un blog molto interessante, il Tablet PC italico.

giovedì 15 dicembre 2011

Gleick, The information


Uno dei libri divulgativi più interessanti dell’anno che si chiude è stato, secondo me (e altri), The information. A history, a theory, a flood, di James Gleick (Pantheon, 2011).

Non è un libro perfetto né geniale. Però è un libro fatto bene, utile, e molto leggibile. Gleick lo organizza come una cavalcata di capitoli, a volte connessi a volte meno, collocati in ordine più o meno cronologico. I singoli capitoli sono in sostanza piccoli saggi su argomenti circoscritti: si parte con il linguaggio dei tamburi africani, si prosegue con il primo vocabolario dell’inglese, si passa ai logaritmi di Napier, e poi all’entropia, a Shannon, ai dubbi sulla possibilità di estrarre informazione dai buchi neri...

Non c’è forse un’idea che possa essere considerata veramente il cuore del libro, e questo non sorprende: a molti livelli, l’umanità deve ancora digerire tutte le implicazioni delle scoperte sull’informazione. Un po’ di tempo fa la nostra veniva spacciata come “la società dell’informazione” - ma siamo ancora ben lontani dall’esserlo.

Uno dei centri del libro è però senz’altro costituito dal rapporto tra fisica e informazione. A volte questo produce un’ottica quasi filosofica, a volte si scende nei meccanismi delle ricerche di Google. Per quanto riguarda argomenti di cui ho parlato di recente, il cap. 13 è dedicato per esempio a un fatto di base: Information is phisical. Nelle parole di John Archibald Wheeler, non è sbagliato ritenere che

every it – every particle, every field of force, even the space-time continuum itself – derives its funciont, its meaning, its very existence... from bits.

L’universo può essere considerato fondamentalmente come una macchina che elabora informazione? Probabilmente sì, e prima o poi anche i filosofi come Maurizio Ferraris riusciranno ad aggiornarsi sulla bibliografia. Nel frattempo, è interessante occuparsi delle implicazioni del calcolo quantistico, che finalmente ha trovato qualche applicazione pratica (!).

In conclusione: il libro di Gleick non è l’ultima parola sull’argomento. È invece un promemoria per farci capire quanto ancora c’è da fare in questo settore, e quante scoperte rilevanti sono evidentemente lì, di fronte a noi, in attesa che qualcuno le faccia. Spero quindi che The information abbia il successo che merita.

giovedì 8 dicembre 2011

Bibliotecaitaliana.it non funziona


La più imponente raccolta di testi elettronici della tradizione culturale e letteraria italiana è stata per anni Biblioteca italiana. La raccolta comprendeva 1700 testi dalle origini al Novecento, digitalizzati di norma sulla base delle migliori edizioni disponibili e codificati nel formato XML-TEI. Il sito permetteva non solo di leggere i testi, ma anche di interrogarli eseguendo ricerche di parole all’interno del singolo testo o anche dell’intero corpus. Inoltre, forniva l’accesso alle riproduzioni in formato immagine (non interrogabili) dei volumi della collana “Scrittori d’Italia” Laterza, per un totale di 287 volumi, 179 opere e 125171 immagini.

L’uso dell’imperfetto non è casuale: da luglio il sito è irraggiungibile. A settembre è tornato in linea per qualche settimana, e poi è scomparso di nuovo. Tutte le persone interessate a questo fondamentale repertorio sono in agitazione... e qualche traccia di questa agitazione arriva anche a me, perché una quindicina di anni fa (!) ho fatto da coordinatore del progetto Cibit (Centro interuniversitario per la biblioteca italiana telematica), che a Biblioteca italiana ha poi fornito buona parte dei testi. Qualche mail di domanda mi arriva quindi ancora. Che fine ha fatto la Biblioteca italiana?

Risposta: difficile dirlo. Il progetto, negli ultimi anni, era stato gestito dalla Sapienza di Roma, ed era stato progettato di farlo confluire nel sito Internet Culturale. Tuttavia, la pagina dedicata alla Biblioteca Italiana sul sito Internet Culturale dice, dopo poche righe di presentazione, che “Al momento la collezione non è disponibile”. E in effetti non è disponibile, anche se sulla stessa pagina, incredibilmente, compare un link chiamato “Accedi alla collezione”! Ciò che è disponibile a questo indirizzo è comunque in sostanza – anche se presentato in modo quasi incomprensibile – il catalogo della Biblioteca italiana. Da lì si riesce a risalire alle schede dei testi e perfino a qualche pagina di testo presentata in formato immagine... ma la grande maggioranza della collezione non è raggiungibile.

Di sicuro, sarebbe urgente mettere in linea una pagina informativa all’indirizzo bibliotecaitaliana.it, per fornire aggiornamenti ai numerosi interessati. Si può poi sperare che i testi tornino in linea presto... però, avendo lavorato per anni a questo assieme di materiali (sia pure in un momento in cui la codifica digitale era a uno stadio infinitamente più primitivo di quello contemporaneo), so che non si tratta di un lavoro facile. Soprattutto, si tratta di un lavoro che non può essere preso sottogamba, e che dà molto da pensare sul problema della gestione delle risorse elettroniche in Italia.

sabato 3 dicembre 2011

Un nuovo schema di architettura dell’italiano contemporaneo


In un manuale appena uscito a cura di Andrea Afribo ed Emanuele Zinato (Modernità italiana. Cultura, lingua e letteratura dagli anni settanta a oggi, Roma, Carocci, 2011) è presente anche un contributo di Giuseppe Antonelli dedicato alla Lingua (pp. 15-52).

Ora, Antonelli è l’autore della migliore descrizione in volume oggi disponibile per l’italiano contemporaneo (L’italiano nella società della comunicazione, Bologna, il Mulino, 2007, che uso da tempo nei miei corsi – e, per chiarimento di rapporti, devo ricordare che Antonelli ha fatto anche una ben visibile recensione del mio libro sull’Italiano del web, e che il libro stesso è citato più volte anche in questo contributo). L’aggiornamento di quest’anno non smentisce le aspettative, e il contributo sulla Lingua diventa a sua volta, a mio giudizio, la più convincente sintesi oggi disponibile su questa lunghezza.

Nelle pagine finali del suo ultimo contributo, comunque, Antonelli fornisce come sintesi uno schema di quella che a suo parere è la struttura dell’italiano contemporaneo (p. 51):



Ovviamente si tratta di una variazione del celebre schema che Gaetano Berruto ha proposto nel 1987, rivisto per tenere conto delle variazioni degli ultimi anni. Il corsivo segna ciò che non c’era nello schema di Berruto; per il resto, Antonelli descrive in questo modo le variazioni dall’uno schema all’altro (p. 52):

a) la maggiore incidenza della diatopia, che (sia pure con un’interferenza più leggera, resa qui da un grigio chiaro [ma nella versione che ho visto io il rapporto dei colori è invertito]) entra nel quadrante alto della diastratia/diafasia e invade – in diamesia – il settore della lingua scritta;
b) la risalita dell’italiano standard (ormai di fatto cristallizzato in quello scolastico) fin quasi a coincidere con l’italiano aulico formale (...), e l’identificazione del nuovo standard con l’italiano di un buon articolo di giornale (...);
c) ai piani alti, la promozione dell’italiano tecnico-scientifico a varietà di massimo prestigio e la sostituzione dell’italiano burocratico con quello aziendale, misto di residui burocratici e di tecnicismi economici;
d) la netta distinzione tra italiano regionale e italiano popolare;
e) il sensibile avvicinarsi (fin quasi a sovrapporsi) di italiano parlato colloquiale, italiano regionale e italiano informale trascurato;
f) la comparsa, nel quadrante in alto a destra, di una varietà scritta spiccatamente informale e diastraticamente trasversale: l’italiano digitato.

Su quest’ultima varietà ho però un’osservazione: è curioso che Antonelli collochi l’“italiano digitato” tanto a destra, cioè spostato lungo l’asse diamesico verso il polo del “parlato”. L’“italiano digitato” è, per sua stessa natura, una varietà di lingua scritta – che, se letta ad alta voce, si trasforma spesso in una delle altre varietà (e, vistosamente, in italiano parlato colloquiale, italiano regionale, italiano informale-trascurato, anche se a volte presenta tratti riconducibili all’italiano più formale). L’unica sua collocazione possibile mi sembra quindi all’estrema sinistra dello schema.

Comunque ciò che non mi sembra discutibile è il punto chiave: l’identificazione del nuovo “centro” della lingua “con l’italiano di un buon articolo di giornale” (una nota: nella lista delle forme dell’“italiano dell’uso medio” presentata alle pp. 30-31, va tenuto presente che in effetti gli per “a loro” è oggi comune anche negli articoli di giornale, e non è più quindi estraneo allo scritto). Nel bene e nel male, svanito il prestigio dell'italiano letterario, questo è il modello attorno a cui oggi sembra ruotare il sistema.

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