domenica 16 novembre 2008

Memorie di uno scioperante

Venerdì ho fatto sciopero e sono andato a Roma per la manifestazione. L'esperienza è stata illuminante anche dal punto di vista della scrittura. Un neodottore di ricerca in Informatica a Pisa, infatti, si è portato dietro la mascherina di un televisore Daewoo montata su un manico di scopa. Nel viaggio in treno ha preparato una scritta su un telo azzurro scuro: ALZA IL CULO ABBASSA L'AUDIENCE. E alla fine ha fissato con nastro adesivo il telo dentro al televisore ed è andato in giro a mostrare questa insegna.

L'effetto è stato incredibile. La gente si fermava a guardare e leggere, indicava il televisore, si avvicinava per scattare foto... Di foto ne avranno scattate trecento (letteralmente) mentre il mio gruppo si alternava a portare l'insegna. Come mai questo successo? La risposta che mi sono dato: Boh!

mercoledì 12 novembre 2008

Le metafore di Lakoff


Ho cominciato a leggere Metaphors We Live By di George Lakoff e Mark Johnson. Nell'edizione americana del 1980, perché mi sembra che nelle biblioteche di Pisa non ci siano copie dell'edizione 2002, e perché non sono disponibili le copie della traduzione italiana - che spero però di controllare presto, visto che tradurre un libro del genere è una sfida!

In quanto al contenuto: "We have found (...) that metaphor is pervasive in everyday life, not just in language but in thought and action" (p. 3). Su quale base dichiarano questa "pervasività"? Non ci sono percentuali...

martedì 11 novembre 2008

Anathem


Ieri ho finito di leggere il nuovo romanzo di Stephenson, Anathem. Ottocentonovanta pagine di romanzo vero e proprio, più appendici. C'è voluto un po', in effetti!

Il romanzo in sé è il solito Stephenson: interesse per i personaggi, zero, al di là di un "pacchetto" di tratti che si ripetono da un libro all'altro e che è comunque dignitoso. Nessuno, penso, può non identificarsi con Fraa Erasmas, il protagonista di questo libro, così come nessuno poteva non identificarsi con Daniel o Jack nel Baroque Cycle. Per il resto, quel che conta sono le idee.

Il risultato finale è leggibile, ma più banale rispetto a Cryptonomicon e al Baroque Cycle. Probabilmente perché in questo caso non c'è la storia vera a fare da sfondo, con tutti i suoi dettagli e le sue sfaccettature, ma c'è la storia di un pianeta inventato, anche se molto simile al nostro. E c'è poco da fare: un conto è scoprire come funzionava il sistema del Galeone di Manila, un conto venire a sapere com'è che i clandestini migrano da un continente di Arbre all'altro (= passando per il polo). Le connotazioni, e la densità informativa, sono ben diverse nei due casi. Diciamo quindi che non mi sono annoiato, ma neanche appassionato oltre un certo punto.

I motivi per cui questo libro mi interessa dal punto di vista linguistico sono poi due, a parte qualche lacuna sulla fonetica... all'inizio del romanzo Stephenson cerca di spiegare come si deve pronunciare Arbre, e non è un bel vedere...

Le cose interessanti sono però, per l'appunto:

1. L'inventività nei sostantivi. Ogni tanto, le parole in lingua Orth sono ben strutturate, con i loro echi latini: provener, voco, apert... Ma soprattutto, i nomi gergali per una tecnologia simile alla nostra a volte riescono proprio bene: cartabla (navigatore con GPS), jeejah (telefonino), monyafeek (rudimentale veicolo spaziale, come adattamento di magnifique), eccetera.

2. Le riflessioni sulla pluralità e compresenza dei mondi, che nella parte finale vengono gestite abbastanza bene anche dal punto di vista narrativo - con l'idea che tutte le possibilità siano compresenti, e che il nostro cervello possa potenzialmente scegliere la migliore. In effetti, è interessante notare che il nostro cervello apparentemente procede proprio in questo modo per assegnare un significato alle parole nel contesto: quando si parla di "rete" attiva tutti i significati possibili della parola e poi, quando arrivano altre informazioni, sceglie retrospettivamente quello corretto nel contesto ("attrezzo da pesca", "sistema informatico"... o perlomeno, questo sembra il risultato delle ricerche pubblicate da David Swinney nel 1979, che conosco solo di seconda mano). Che Stephenson stia mettendo a fuoco qualcosa di importante?

Di nuovo in pista

Bene, sono stati mesi molto impegnativi (in particolare perché ho traslocato). Adesso le cose vanno decisamente meglio e ho anche un po' di tempo per leggere e studiare. Spero anche di riuscire a mettere qualche appunto qui in linea.

lunedì 23 giugno 2008

Cambiamento di nome

Ho cambiato il nome del blog da Linguaggio del web a Linguaggio e scrittura: alla fine trovo cose più interessanti da dire su questo argomento che non sull'altro. L'indirizzo però è rimasto lo stesso.

venerdì 18 aprile 2008

Nove miglia sotto la pioggia

Parlando di linguaggio umano, e di quanto si possa tirar fuori anche da una frase molto semplice, se si conosce il contesto, da un po' di tempo mi capita di far riferimento a un racconto che ho letto molti anni fa. Si intitola Nove miglia sotto la pioggia ed è di Harry (anche se la nota introduttiva al racconto lo chiama "Henry") Kemelman. Titolo originale, The Nine Mile Walk; il racconto è incluso, nella traduzione di Alessandra Proietti, all'interno de I signori del mistero. Antologia dei migliori racconti polizieschi, a cura di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares (Los mejores cuentos policiales, 1982; tradotto da Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 269-282; poi ristampato e ripubblicato da vari editori). L'ho letto per la prima volta... oh, probabilmente nel 1982-84, prendendo il libro in prestito alla biblioteca comunale di Viareggio. Di tutta l'antologia è l'unico racconto di cui mi sono ricordato la trama per anni.

Adesso ho ripreso in prestito il libro alla biblioteca di Lingue e letterature romanze - sezione di Ispanistica, e dopo tanti anni ho riletto il testo. Devo dire che il racconto è piuttosto brutto e goffo, ma dimostra bene proprio il principio per cui lo cito. Due amici cercano di capire in quale contesto possa essere stata pronunciata una frase molto semplice, sentita per caso in un ristorante: "Camminare per nove miglia non è no scherzo, specialmente se piove". E, andando a ritroso da qui, capiscono che nella loro città l'unico motivo per cui possa essere stata detta una frase del genere è per trovarsi alle cinque di mattina alla stazione di Hadley, dove il Washington Flyer si ferma a caricare acqua; e l'unico motivo per fare una cosa del genere consiste nel salire di nascosto sul treno, uccidere un uomo in un vagone letto, e saltar giù di nuovo. Dopodiché, chiamano la polizia e fanno bloccare gli assassini prima che escano dal ristorante.

L'esempio è carino: credo che lo userò anche in futuro!

martedì 8 aprile 2008

Cardona: Antropologia della scrittura

Quant'è bello questo libro! Purtroppo non è disponibile. E sì che ce ne sarebbe bisogno... Ma dopo la prima edizione (1981) mi pare che sia stata fatta solo la "prima ristampa corretta" nel 1987.

L'idea di base, geniale, è quella di prendere in esame tutto ciò che è scrittura. Non solo la riproduzione dei suoni della lingua, ma tutto. Se ne ricava un panorama in cui le scritture alfabetiche o logografiche non rappresentano che un caso particolare di una tendenza molto più ampia. Caso molto particolare, beninteso; ma dai segni magici ai pittogrammi alla rappresentazione del parlato, per certi aspetti, non c'è un salto troppo forte.

Qualche proposta di nuovo capitolo:

  • Le scritte su panchine
  • Le scritte sugli zaini
  • Come pubblicizzare indirizzi web

mercoledì 19 marzo 2008

Lo Duca: Lingua italiana ed educazione linguistica

Durante l'appello straordinario primaverile ho ripreso in mano il libro di Maria G. Lo Duca: Lingua italiana ed educazione linguistica. Tra storia, ricerca e didattica (Roma, Carocci, 2003). Il libro è una buona sintesi di molte cose utili. Nelle lezioni degli ultimi mesi avrei dovuto tenerlo più presente, per sincronizzarmi meglio su quello che si dice oggi (o ieri) nel settore.

Particolarmente importante mi sembra ripensare alle strategie per l'insegnamento della grammatica e della testualità, visto che per l'anno prossimo dovrò completamente ristrutturare il mio corso di Comunicazione per Informatica. Alcune delle cose dette nel libro a proposito di testualità sono chiaramente poco applicabili, altre possono fornire lo spunto per qualche esercizio e per una mezz'ora di lezione - o qualcosa di più.

Indice

1. Nascita di una disciplina
Giscel e Dieci Tesi

2. La variabilità linguistica
Sezione descrittiva, e quindi non troppo utile nell'immediato a chi già conosca lo stato delle cose.

3. Modello (o modelli?) di lingua e norma
Sezione decisamente più utile: non solo perché presenta i possibili modelli cui fare riferimento, ma soprattutto perché descrive in modo intelligente le grammatiche e gli strumenti disponibili.

4. La grammatica nell'educazione linguistica
Punto centrale: dovrei ripensare queste nozioni per vedere bene che cosa può essere utile insegnare (o meno). In ogni caso, anche qui c'è la riproposta di uno dei nuclei delle mie meditazioni recenti: non esiste nessuna prova scientifica dell'utilità della grammatica per l'insegnamento e l'apprendimento delle lingue (a parte le circoscritte eccezioni di cui al cap. 5).

5. La dimensione testuale
La sezione più applicabile: si parla di "Dimensione testuale e grammatica" (5.5) in termini che potrebbe essere utile applicare alla didattica universitaria. Mostrando per esempio in che modo i connettivi (di cui si parla a 5.2.2) possono aiutare la scrittura / lettura di un testo complesso.

6. L'italiano lingua seconda
Rapido riassunto di un problema complesso.

martedì 4 marzo 2008

iPod touch!


La settimana scorsa non sono riuscito a resistere e ho comprato un iPod touch (8Gb) da Mediaworld. Spesa eccessiva, ma devo dire che come strumento per leggere pagine web è fantastico e ho già avuto occasione di mostrarlo durante le lezioni del master in scrittura. La risoluzione dello schermo a 162 dpi permette di leggere caratteri sorprendentemente piccoli... o, se non proprio di leggere le parole, perlomeno di intuirle sulla base della forma (in perfetta sintonia con quello che raccontavo durante il master).

Per diversi giorni, poi, non ho nemmeno provato ad ascoltare musica: la parte interessante era la gestione delle foto e quella, appunto, del web. In una schermata come quella qui accanto è sorprendentemente facile selezionare anche link molto piccoli, e le funzioni intelligenti di ingrandimento, anche se non scattano sempre al momento giusto, sono un grande aiuto.

Va detto però che le dimensioni, davvero minime, rendono ancora complicata la lettura: l'iPod va tenuto vicino agli occhi - non si può posarlo su un tavolo. Insomma, c'è ancora molta strada da fare, ma per la prima volta posso leggere pagine web su un dispositivo diverso da un computer.

lunedì 3 marzo 2008

Veltroni a Pisa

Ed ecco Veltroni, stamattina a Pisa, impegnato in un comizio giusto sotto la Facoltà di Lettere. Parla decisamente bene... e ha parlato anche molto (e in modo quasi sempre condivisibile) di formazione, educazione, Università e accoglienza delle differenze. D'altra parte, un politico professionista di questo livello è anche un attore consumato.
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domenica 2 marzo 2008

Maraini: La gnòsi delle fànfole

Termino la schedatura di Maraini: La gnòsi delle fànfole, inclusa nel Meridiano, è una antologia di sue poesie scritte usando parole inventate. Per esempio:

Il lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco, e gnagio s'archipatta.


L'autore li definisce "esperimenti di poesia metasemantica" (p. 1479): "Proponi dei suoni ed attendi che il tuo patrimonio d'esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi..." eccetera. Simpatico, ma niente di innovativo rispetto a Lewis Carroll (mai citato, se ho visto bene).

martedì 19 febbraio 2008

Maraini: Gli ideogrammi

Continuando la schedatura del Meridiano di Maraini, il punto chiave è naturalmente il saggio Gli ideogrammi (1965). Qui si trova una delle rare descrizioni italiane del funzionamento del sistema di scrittura giapponese:

Messi l'uno accanto all'altro i due sistemi, quello alfabetico brilla subito per semplicità. Questo è indubbiamente vero. Trenta segni, o quaranta, o anche cento, s'imparano in poche settimane; duemila, per bene che vada, in alcuni anni. D'altra parte gli ideogrammi, una volta imparati, offrono incomparabili vantaggi di chiarezza, evidenza, compattezza sintetica. Una nozione, od una serie di nozioni, trasmesse lungo l'alfabeto viaggiano per posta, trasmesse per ideogrammi si può dire che t'arrivino in testa col telegrafo (p. 1465).

Il punto viene considerato "fondamentale". E, del resto, lo è. Secondo Maraini, "Colui che scrive per segni fonetici ha dinanzi a sé un cammino lungo e tortuoso" (p. 1468). Con gli ideogrammi, invece, "la nozione viene trasmessa dal segno in maniera folgorante, saltando tutta la deviazione dell'analisi e della sintesi fonetica. Con l'ideogramma si piomba per mezzo della vista nel cuore stesso del significato" (pp. 1468-9).

Sarà vero? Oppure anche nel caso dell'ideogramma (che, in fin dei conti, è un logogramma) c'è una fase di mediazione fonetica? I libri sulla scrittura non descrivono, mi pare, studi su questo punto. Però sicuramente qualcuno se ne sarà occupato. La differenza non è di poco conto: la scrittura ideografica in questa ricostruzione si presenta tanto diversa da quella alfabetica da suggerire che, sì, in questo caso si arriva a una specie di "diverso modo di pensare". Dovrò approfondire...

Fondamentali sono anche, su un altro piano, le pagine in cui Maraini descrive il modo in cui l'uso degli ideogrammi ha modificato la lingua giapponese, spingendola al monosillabismo. "Oggi, a rigore, non esiste tanto una lingua giapponese quanto un composto sino-giapponese; un mezzo espressivo nel quale i due elementi si fondono inestricabilmente, come le componenti germanica e latina si sposano nell'inglese" (p. 1474).

E, per ultima, interessante l'osservazione sul fatto che la traduzione di una lingua "diventa più difficile, spesso quasi impossibile, ai due estremi semantici d'ogni patrimonio linguistico: quando si toccano i massimi valori dello spirito, e quando si trattano le minime vicende della vita quotidiana e domestica (p. 1467): per esempio karma, buddha, tao, jen, veritas, charitas, grazia, oppure mozzarella, flamenco, champagne, twist, gemütlich, hiraeth, sukiyaki, geisha, curry, sherpa.

lunedì 18 febbraio 2008

... e la Muwaššaha

Un'altra scoperta dalla sessione di laurea di oggi: la muwaššaha, una forma poetica usata in al-Andalus a partire più o meno dall'anno Mille (durante il califfato omayyade). I testi sono in arabo, ma con sezioni in volgare romanzo, e a volte con la mescolanza delle lingue. Per esempio:

šabeš ya mio amor
ke kaţa-me el morire
im
ši, ya imši, habībī,
non
še šin te ber dormire
(
muwaššaha XLIV).

Con questo ci avviciniamo al maltese, o a una canzone dei Radiodervish... ma sono frequenti anche casi di "ibridismo sintattico", con costruzioni ripetute in arabo e romanzo (kon bi per dire "con"). E qui siamo nella zona del Mongibello, e simili.

Ovviamente i testi sono scritti usando l'alfabeto arabo o quello ebraico, e quindi senza vocali.

Contro-sintassi

Oggi sono stato impegnato tutto il pomeriggio in sessione di laurea: discuteva la tesi triennale una mia laureanda che ha esaminato la Storia do Mogor di Niccolò Manucci. Però in queste discussioni si imparano sempre (beh, quasi sempre) un sacco di cose utili. Da una tesi su Tozzi ho ricavato un paio di rimandi bibliografici alla cosiddetta "contro-sintassi" di Tozzi stesso e Pirandello, creata attraverso la punteggiatura. Che, un po' come negli articoli di giornale di Ilvo Diamanti, spezza il normale flusso del periodo. Usando però il punto e virgola, e non il punto.

Tozzi: "Si allontanò dal cassettone; a cui s'era un poco appoggiata entrando."

Pirandello: "... andava così anche con una piccina per mano, sua figlia; e non pensava neppure che..."

Rimandi: Introduzione di Romano Luperini a Giovani e altre novelle di Tozzi (p. 42) e Gino Tellini, La tela di fumo. Saggi su Tozzi novelliere (p. 72). Di sicuro vale la pena tener presenti gli esempi tratti da Tozzi.

giovedì 14 febbraio 2008

Ore giapponesi: il capitolo sugli ideogrammi

Rieccomi su Maraini. Nella sezione di Ore giapponesi dedicata a Kyoto, sognatori e ribelli compare anche un "Capitoletto sulla lingua e sugli ideogrammi". Che tanto capitoletto non è (pp. 1017-1033).

La sintesi sulla lingua giapponese è, per quel che ne posso dire, buona (lingua agglutinante, etc.). La parte veramente interessante è però quella dedicata agli ideogrammi in sé: di gran lunga la più pertinente per qualunque discorso di "linguaggio del web". Dice Maraini:

I giapponesi, di una pagina della loro lingua voltata in alfabeto romano, dicono "pinto-ga awanai", non è a fuoco; infatti la scrittura ideografica - a parte la fatica che richiede per venire appresa - presenta cose, idee, sentimenti all'occhio, al pensiero, alle emozioni con un'immediatezza ed una vivacità nettamente superiori alla normale mediazione fonetica, specialmente in una lingua dove ormai sono numerosi gli omofoni" (pp. 1029-1030).

Poche parole (a cui si possono aggiungere altre osservazioni in un saggio successivo), che però sono centrali per il tema del blog. Le alternative alla scrittura in alfabeto latino comportano un diverso rapporto con il pensiero? Per quel che posso capire, la risposta è: in parte. In piccola parte, probabilmente, perché il cervello funziona per tutti più o meno allo stesso modo.

Intanto ho visto come codificare gli ideogrammi (per semplicità continuo a usare questo termine): 丐. Oppure, con 5 tratti di pennello: freccia, 矢. La codifica in sé è ovviamente una stupidaggine... la cosa difficile è orientarsi tra le 81 pagine che compongono la tabella Unicode dei "CJK unified ideographs". Mi chiedo se, per capire meglio il rapporto tra scrittura e pensiero, sia il caso di investire un paio d'anni nello studio del cinese o del giapponese!

Intanto ho scoperto il concetto di Unihan: la codifica unitaria e comune, attraverso Unicode, dei segni usati per il cinese, il giapponese, il coreano e il cantonese.

lunedì 11 febbraio 2008

Inglese e italiano

Interrompo la schedatura di Maraini per qualche osservazione sul libretto di Andrea Chiti-Batelli. L'avevo già citato qualche giorno fa; adesso ho finito di leggerlo (sono solo 84 pagine, molto ripetitive) e devo dire che se all'inizio l'avevo trovato divertente, a lettura finita l'aggettivo più appropriato mi sembra "irritante".

L'autore stesso provvede a riportare una "breve sintesi finale" (p. 79) delle proprie tesi. Vale la pena commentarle al volo:

Sezione I, tesi 1: "L'Europa e il mondo necessitano di una lingua unica, la sola che può garantire col minimo sforzo la 'trasparenza' della comunicazione internazionale a tutti i livelli."
E su questo si può essere d'accordo, anche se chi conosce il modo in cui le lingue operano sa che quel "necessitano" si può parafrasare correttamente solo con un "possono beneficiare".

Tesi 2: "Questa lingua, allo stato attuale - dato il peso politico, economico, culturale del mondo anglo-sassone - non può esser se non l'inglese."
Su questo, poco da dire.

Tesi 3: "Essa però - come tutte le lingue imposte da un potere dominante - distruggerà in radice le altre lingue, se l'attuale situazione di squilibrio, e in conseguenza di tale egemonia, continuerà. La storia parla in proposito un linguaggio troppo univoco perché possa sussister il menomo dubbio."
E qui invece ci si sbraca. Non è affatto una regola che "le lingue imposte da un potere dominante" distruggano le altre. Lasciamo da parte il caso del latino, di cui spero di scrivere in dettaglio tra pochi giorni (esaurito un gruppetto di schedature). C'è lingua e lingua, c'è potere e potere. Perfino la conquista delle Americhe non ha "distrutto in radice" buona parte delle lingue precolombiane: le ha cacciate in una posizione marginale, ma solo perché l'importazione delle lingue europee ha prodotto veri e propri genocidi e travasi di popolazione. E questo è, negli ultimi secoli, il caso più estremo.

Nel resto del mondo, invece, che cosa vediamo? Alinei, credo, ha più ragione di quanto si ammetta di solito, e buona parte delle "invasioni" e sostituzioni linguistiche oggi date per scontate in realtà non sono mai avvenute. Anche assumendo il quadro concettuale tradizionale, però, il discorso cambia poco. La conquista araba e l'importazione di una religione basata sull'arabo hanno portato alla scomparsa delle lingue preesistenti solo in una parte del Medio Oriente. Né le conquiste islamiche né quelle britanniche hanno fatto cambiare lingua all'India. Il greco non ha ceduto né ai romani né ai turchi (che hanno dominato la Grecia per sei secoli). Il russo non ha soppiantato le lingue di innumerevoli popolazioni entrate a far parte, in tempi diversi, dell'impero russo o sovietico. E via dicendo.

La storia linguistica, insomma, non parla affatto un linguaggio "univoco". Anzi, la regola sembra essere la continuità: perché un popolo abbandoni una lingua a favore di un'altra occorrono invasioni, massacri e secoli di dominio. Se per assurdo gli attuali rapporti di forza potessero mantenersi senza opposizione e includessero per esempio l'incorporazione in un Impero Americano (il che è, come dire, improbabile), quanto impiegherebbe l'inglese per imporsi come lingua generale d'Italia? In Egitto la lingua copta si è mantenuta per almeno settecento anni dopo la conquista araba. Probabilmente è questa la scala temporale più realistica.

Saltiamo però al secondo gruppo delle tesi di Andrea Chiti-Batelli, che propone come alternativa all'inglese l'uso dell'esperanto, "una lingua pianificata, la sola che l'esperienza e la storia mostrano esser priva dell'effetto glottofagico proprio delle lingue vive" (p. 80). Soluzione, come si vede, improbabile al massimo. Ma qui mi interessa un altro aspetto del discorso: di quale esperienza e di quale storia si sta parlando? Nessuna comunità umana significativa ha mai adottato una "lingua pianificata" (o forse sì, ma in un senso completamente diverso da quello adottato in questo libro, in cui evidentemente l'autore ha in mente "rinascite" linguistiche come quelle dell'ebraico o del catalano, peraltro basate sempre su lingue spontanee... ma anche di questo spero di parlare più avanti). E quindi tutta questa sicurezza da che cosa viene? Non c'è nessun dato a suggerire che, divenuto lingua della comunicazione internazionale, l'esperanto non cancellerebbe le altre lingue.

Va anche detto che Chiti-Batelli, per assicurare che l'esperanto non divenga una lingua viva, va a imporre leggi e divieti (come ovviamente succede in tutte queste formulazioni utopiche) : "è fortemente sconsigliabile che si formino fanciulli aventi l'Esperanto come lingua materna" (p. 34). Ovvio che questo cancellerebbe le premesse del discorso. Ma come si potrebbe raggiungere questo risultato? Arrestando i genitori che osassero parlare esperanto con i bambini? Inserendo microspie in tutte le case?

Insomma, al di là della scarsa praticabilità della soluzione proposta al "problema" del dominio dell'inglese, in questo libro è molto irritante l'atteggiamento dell'autore. Che oltre a questo libretto, si dice in quarta di copertina, ha scritto opere come le Perplessità sulla pena di morte (e vabbè) o Si devono riaprire le case chiuse? (!); ma soprattutto, "è stato per venticinque anni, quale Consigliere parlamentare del Senato, Segretario delle Delegazioni parlamentari italiane alle Assemblee europee". Insomma, non mostra una grande conoscenza del modo in cui le lingue si sono distribuite nel mondo, ma è ben introdotto a livello politico. Non è un mix accattivamente, per me, quando si parla di politica linguistica.

sabato 9 febbraio 2008

Maraini: Ore giapponesi

Proseguo con la schedatura del Meridiano su Maraini. Subito all'inizio del secondo testo fondamentale, Ore giapponesi, nell'introduzione, Oltre mezzo secolo tra due copertine (2000), Maraini parla del solito problema degli ideogrammi. Nulla di particolarmente innovativo... ma la risposta è data meglio di qualunque altra risposta simile che mi sia capitato di leggere in italiano:

Spesso da noi ci si domanda come una civiltà tanto avanzata possa valersi "ancora" d'un sistema di scrittura, quello ideografico, all'apparenza così arcaico, del tutto inadatto, si direbbe, alle agili prestazioni richieste oggi a qualsiasi mezzo d'informazione visiva. Una risposta sommaria può prendere questa forma: sostanzialmente l'ideogramma è mezzo di trasmissione del pensiero notevolmente superiore agli alfabeti ed ai sillabari, per la sua efficacia e immediatezza, d'altra parte il codice dei segni (almeno 2000-2500) è pesante: l'alfabeto ed i sillabari sono poco trasparenti, rimandano di continuo al piano dei suoni, ma si fondano su codici elementari. In sostanza, nella pratica, i due sistemi si equivalgono: donde lo stallo millenario. (pp. 559-560).

Meno convincenti le osservazioni successive (p. 560), sul fatto "che gli scolari giapponesi e cinesi, studiando gli ideogrammi, con tutte le minute variazioni e differenze che spesso li distinguono l'uno dall'altro, affinano le proprie capacità di percezione visiva, di abilità manuale" preparandosi quindi alle esigenze del mondo tecnologico moderno.

A livello di aneddoto, ricordo qui il momento in cui molte mie certezze giovanili sugli ideogrammi sono crollate: guardando al cinema L'ultimo imperatore di Bertolucci (1987). C'è una scena in cui appunto all'Ultimo Imperatore viene chiesto dagli inquisitori comunisti di scrivere il proprio nome con un pezzo di gesso, o qualcosa di simile. E lui traccia i complicati logogrammi in un istante - forse meno del tempo che ci vuole per tracciare una firma leggibile usando per esempio la corsiva tonda inglese. Ricordo che all'epoca la cosa mi disturbò: possibile che gli ideogrammi non fossero così poco pratici come avevo pensato fino a quel momento?

giovedì 7 febbraio 2008

The Italian Web Texts Repository

I have just published the first texts in my "Italian Web Texts Repository":

http://www.humnet.unipi.it/ital/tavosanis/repository.htm


Up to date, it contains only a TEI P5 corpus with 400 posts taken randomly from blogs hosted by Splinder. However, I plan to expand quickly the collections.

mercoledì 6 febbraio 2008

Maraini: Segreto Tibet


Comincio a mettere un po' d'ordine negli appunti sulle letture recenti. L'ottica è quella del rapporto lingua-scrittura, ovviamente... anche se continuo ad allontanarmi dal discorso sul linguaggio del web. Alcuni punti mi sembrano tuttavia importanti comunque, e credo valga la pena fissarli qui.

Prendiamo intanto il Meridiano dedicato a Fosco Maraini (a cura di Franco Marcoaldi, Milano, Mondadori, 2007). Di qualche cosa ho già parlato. Rivedendo il volume, parto dall'opera che ha meno a che fare con questi discorsi: Segreto Tibet. Racconto molto bello della partecipazione di Maraini alla spedizione di Tucci nel 1948, subito prima dell'occupazione cinese. L'aspetto più pittoresco, peraltro, più che la visita al monastero Kyangphu o al villaggio di Yatung, è il ricordo di Tucci che nel mezzo delle solitudini dell'altopiano non rinuncia a farsi chiamare Eccellenza (in quanto Accademico d'Italia) o a vantarsi del proprio potere accademico... Bisognerà proprio che legga qualcosa di suo! Nel frattempo ho però scoperto un blog (di Enrica Garzilli) dedicato proprio a Tucci.

Tornando a Maraini: nella sua Storia del Tibet (1998) messa in fondo all'opera si parla anche di problemi di lingua e scrittura. Diverse volte nella sua storia il Tibet ha scelto l'India invece della Cina. Il primo di questi "momenti cruciali", secondo Maraini (p. 396), è appunto collegato alla scrittura: nonostante la lingua isolante molto simile al cinese, ai tempi di Songtsen-gampo (569-649) la cultura tibetana ha scelto di adottare per la scrittura un sistema alfabetico / sillabico modellato sulle scritture braminiche (l'enciclopedia di Coulmas ricorda che la grafia tibetana manca di sistemi per rappresentare i toni). Scelta opposta a quella del Giappone:

"Mentre i nipponici, partendo da una lingua fondamentalmente diversa dal cinese, altaica per grammatica e sintassi, malaio-polinesiana per fonetica e per alcuni aspetti del lessico, hanno scelto la scrittura ideografica, entrando con ciò in strettissima simbiosi culturale con la Cina, i tibetani, partendo da una lingua di struttura affine a quella sinica, hanno optato per una scrittura fonetica, sillabica, di origine indiana, volgendo con ciò le spalle all'Estremo Oriente ed immergendosi nel mondo spirituale del sud." (p. 401).

Di qui anche la scelta dell'allineamento di scrittura da sinistra a destra e i libri di formato indiano come caratteristiche della cultura tibetana. Ma oggi, con l'occupazione, "ideogramma e sillabario tibetano si oppongono spesso come due bandiere" (p. 401) e "il Tibet è stato coperto da un velo ideografico" (p. 447). Soprattutto, però, sono l'immigrazione cinese e l'imposizione violenta di un'autorità esterna a minacciare la lingua (e la scrittura):

"Si calcola ormai che Lhasa abbia più residenti cinesi che tibetani. Naturalmente la lingua parlata, anche dai tibetani, se hanno la minima ambizione di farsi avanti, è ormai il cinese; il tibetano è disceso al malinconico rango di lingua provinciale, di dialetto. E compaiono sempre più frequenti le scritte verticali, vergate in ideogrammi, a sostituire le eleganti frasi tracciate in sillabe della lingua di Milarepa o di Thonmi Sambhota, antica d'un millennio e mezzo. A scuola i programmi prevedono qualche ora di tibetano, ma esse vengono impartite da maestri e da professori cinesi, la cui pronuncia lascia ovviamente molto a desiderare." (p. 457).

In questo caso, sì, si va alla rapida glottofagia: riduzione in minoranza della popolazione originaria, emarginazione di una lingua per motivi politici ed economici. Caso drammatico ma per fortuna relativamente raro nel panorama mondiale.

mercoledì 30 gennaio 2008

Glottofagia?

La settimana scorsa ho perso una mattina intera in fila al Catasto di Pisa. Non tutto il male viene però per nuocere: nell'attesa ho letto buona parte di English as a Global Language di David Crystal. Il caso ha poi voluto che, tornato in Dipartimento, mi trovassi nella cassetta della posta un libretto non richiesto della Franco Angeli: L'Europa intera parlerà solo inglese? di un a me sconosciuto Andrea Chiti-Batelli. Lo spessore dei due libri è ovviamente diverso (in tutti i sensi), ma i temi si incastrano quasi a perfezione, e alla fine salta fuori un collegamento interessante con le letture sul mutamento linguistico che ho fatto nel corso del 2007.

Alla base dei libri di Crystal e di Chiti-Batelli c'è una domanda comune: quale sarà l'evoluzione delle lingue? La risposta di Crystal è di banale buon senso - tutt'altro che geniale, come del resto molti dei suoi libri, ma utile proprio per questo. In sostanza, nessuno può prevedere il modo in cui evolveranno le lingue, ma l'inglese ha assunto un ruolo importante nella comunicazione internazionale e al momento non c'è niente che lo possa scalzare. Né sono in vista sue profonde alterazioni: tutt'al più, ci sono comunità che potrebbero progressivamente adottare questa lingua e trasformarla, a un certo livello, ma che al momento di passare alla comunicazione internazionale ricorreranno comunque all'inglese standard, secondo i consueti schemi della diglossia.

Molto più catastrofico il libro di Chiti-Batelli. Ovviamente l'autore non è un linguista di professione, ma ha alle spalle letture che gli consentono di evitare i trabocchetti peggiori. Rimane il fatto che, mentre il libro di Crystal è basato su ipotesi, sfumature, cautele e distinguo (com'è giusto che sia), questo è tagliato con l'accetta. E, non sorprendentemente, Chiti-Batelli manifesta preoccupazione sia per l'eventualità che nel 2050 l'Europa parli solo inglese (!), sia per quella che entro cent'anni sia completamente islamizzata (!!). Due eventi che, pur non essendo del tutto impossibili, rientrano nell'ambito degli "incredibilmente improbabili". Così come in quest'ambito rientra il "rimedio" proposto dall'autore: la diffusione dell'esperanto (!!!), che, essendo lingua non materna per nessuno (anzi, l'autore propone che venga vietato l'uso dell'esperanto come lingua materna!), non potrà cancellare le lingue preesistenti, impedendo una glottofagia come quella operata dall'inglese.

Nonostante il tema comune, i due libri sono quindi enormemente diversi. Un'idea comune, però, ce l'hanno: l'applicabilità del paragone con il latino. In fin dei conti, il latino non è un esempio di una lingua internazionale che ha sostituito le lingue dei popoli sottomessi? In sintonia con il suo modo di fare, Crystal presenta l'esempio ma lo circonda di distinguo. Nel caso di Chiti-Batelli, invece, il latino è illustre precedente di ciò che sta accadendo ora con l'inglese.

Ma è davvero così? Davvero è così facile che una lingua sostituisca le altre? Nel caso del latino, per esempio, la Francia è passata rapidamente a parlare... beh, francese, non latino. E davvero il latino ha sostituito "lingue preesistenti"? Certo, questa è l'opinione comune dei linguisti, ma forse le cose non stanno proprio così - e forse la glottofagia è un evento più raro di quanto si possa pensare. Una proposta a prima vista folle come la "Teoria della continuità" di Mario Alinei ha molti punti discutibili, ma rappresenta un importante stimolo a vedere la storia in modo diverso, e sicuramente mette il dito sui molti punti di crisi della ricostruzione tradizionale delle lingue. Spero di buttar giù qualche appunto in proposito nei prossimi post.

lunedì 28 gennaio 2008

Dare corpo ai blog

Come si fa a mostrare un blog per strada? O meglio ancora, come si fa a esibire un blog su un carro del Carnevale?

Un blog in fin dei conti è un oggetto poco rappresentabile: è un sito web che esiste solo sullo schermo di chi legge. Non è un'automobile o un telefono cellulare, oggetti fisici dotati di una forma piuttosto precisa.

Un carro del Carnevale di Viareggio ha provato a rappresentare il pulpito di Beppe Grillo - ma il carrista non ha trovato di meglio che far comparire un'enorme scritta BLOG sopra a una "nuvola" di www. Bel tentativo, ma non particolarmente riuscito...

Sempre dalla sfilata di oggi (cioè, ormai ieri: domenica 27 gennaio), in ottica universitaria, ecco anche un (più riuscito) Mussi piangente:



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giovedì 24 gennaio 2008

Paul The Wine Guy: Leetspeak e altro

Ho trovato il blog, molto bello, di Paul The Wine Guy. I suoi lavori della serie Understanding art for geeks ospitano almeno uno splendido esempio di leetspeak (in inglese, ovviamente, anche se i testi del blog sono in italiano): questa riproduzione del Giuramento degli Orazi. Su un altro piano, Andrea si è divertito un sacco a vedere la Battaglia di S. Romano in versione WoW. Ma quello che mi ha fatto ridere davvero è stato l'incontro tra il San Matteo di Caravaggio e Clippy (alcuni di voi si ricorderanno di Clippy, no?). E', semplicemente, perfetto!

Aggiornamento 29 gennaio: il Corriere.it ha pubblicato le immagini di Paul The Wine Guy senza indicare l'autore o rinviare al suo sito. Ne è nata una lunga polemica. Alla fine, purtroppo, Paul The Wine Guy ha rimosso le immagini dal suo blog e da Flickr. Spero che ci ripensi!

martedì 22 gennaio 2008

The Google Generation BL report

The British Library has just published this interesting report (Pdf, 1.67 Mb! Talk about "addressing the digital divide"...). The report was realized by researchers of University College London; it investigates the information behaviour of the so-called "Google Generation". In particular, report authors claim that age-related differences in the use of Web content are rapidly vanishing. Yougsters and gronwups seem equally anxious to find relevant information, and no innovative ways of reading are emerging among the newer generation. In other words, it's true that Web users prefer "power browsing" and avoid in-depth reading; however, they do so not because they are young, but because this way of reading satisfy their needs.

I think that the time has come to acknowledge the facts: yes, sometimes you have to study a discipline in a structured way. Once you have done it, however, a good portion of your time will be devoted to activities which simply don't ask for in-depth reading.

giovedì 17 gennaio 2008

Fosco Maraini e la scrittura

Sto leggendo adesso il Meridiano Mondadori dedicato a Fosco Maraini, Pellegrino in Asia. Me lo sono comprato come regalo di Natale, ma penso che mi durerà ancora per un po'...

Una nota interessante: in questa edizione non sono affatto riprodotte le illustrazioni che accompagnavano e integravano i due libri che formano il grosso del testo: Segreto Tibet e Ore giapponesi. Ma devo dire che la mancanza, curiosamente, non mi pesa affatto. Anzi, ho scorso in libreria le edizioni attuali dei due libri (costosissime, pubblicate dal Corbaccio) e non ne sono rimasto entusiasta. Mi chiedo come mai - in una situazione in cui perfino il curatore del Meridiano, Franco Marcoaldi, esalta per pagine intere l'integrazione tra testo e immagini nel lavoro di Maraini. In realtà il racconto si regge benissimo da solo anche se, se ho ben visto, l'unica immagine è una riproduzione isolata di ideogramma (chissà come mai) a p. 1033.

Per il resto, mi interessano molto le osservazioni di Maraini sulla scrittura, e in particolare sul motivo per cui appunto gli ideogrammi (lui li chiama così, anche se conosce la definizione di logogrammi) continuano a essere usati in Cina e Giappone. La sua analisi è perfettamente in accordo con quelle sofisticate di Harris e altri: gli ideogrammi non sono affatto una forma "inferiore" di scrittura. Sono uno strumento che funziona perfettamente: adatto a una lingua con molti omofoni come il cinese, con i suoi 59 diversi significati della parola shi, e più veloce in lettura rispetto al sistema alfabetico. Queste osservazioni sono però concentrate in un saggio piuttosto tardo, Gli ideogrammi. Nel resto del libro ogni tanto compaiono opinioni diverse, e a volte meno condivisibili.
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