martedì 25 novembre 2014

Lorenzetti, Scrivere 2.0

  
Lorenzetti, Scrivere 2.0
Le tecnologie web continuano a trasformarsi, ma non sempre vanno ad altissima velocità. Me ne sono accorto schedando un libro non recentissimo di Luca Lorenzetti, Scrivere 2.0. Gli strumenti del Web 2.0 al servizio di chi scrive (Milano, Hoepli, 2010, pp. xi – 176, € 18,90, ISBN 978-88-203-4481-8).
 
Il libro presenta una rassegna di strumenti di scrittura basata su una condizione precisa: gli strumenti devono essere utilizzabili via web attraverso un browser, senza l’installazione di software desktop o simili... anche se poi nella pratica ci sono eccezioni. L’approfondimento è ridotto (e, in alcuni punti, sorprendentemente ridotto), al punto che il libro, tra schermate e liste puntate, si legge in poco più di un’ora. Sorprendentemente, però, buona parte delle indicazioni fornite sono ancora utili, nonostante dalla pubblicazione siano ormai passati quattro anni – che per questo genere di prodotto una volta erano un’eternità.
 
La scelta degli argomenti è interessante e segue un percorso logico per autori singoli: organizzare il lavoro (per esempio con Google Calendar), evitare distrazioni, prendere appunti (da Evernote a Tumblr), preparare e condividere documenti (Google Documenti e Dropbox). Seguono due capitoli dedicati ai wiki e alla scrittura collaborativa. Poi si passa agli ebook (strumenti per crearli e diffonderli) e alla promozione e visibilità.
 
L’ordinamento fa balzare agli occhi un fatto curioso. L’unico capitolo che non corrisponde a prodotti di ampio uso è infatti il terzo, dedicato ad “Aumentare la produttività ed evitare le distrazioni”. Né nel 2010 né oggi, a quel che vedo, l’utente medio fa uso di strumenti come DarkCopy oppure Writer (due siti che per l’interfaccia si richiamano, curiosamente, allo stesso modello: i monitor a fosfori verdi e caratteri a spaziatura fissa della mia, ehm, diciamo prima gioventù, alla fine degli anni Ottanta). Che cosa se ne può ricavare? Che, apparentemente, molta attenzione è rivolta alla scelta del singolo strumento di lavoro e poca al contesto in cui lo strumento si inserisce. Si deve usare il programma di scrittura? Bene, si usa quello e non ci si preoccupa di evitare distrazioni, chiudere la posta e così via. Discorso che sarebbe assai interessante approfondire con un esame reale del modo in cui le persone, oggi, a fine 2014, usano davvero gli strumenti informatici in orario di lavoro o di studio.
 

venerdì 21 novembre 2014

Prossimi appuntamenti

 
Un appunto al volo, visto che sono in trasferta... Nelle prossime settimane farò due presentazioni ad altrettanti convegni.
 
Si comincia subito con il IX convegno dell’Associazione per la Storia della lingua italiana (ASLI), dal 20 al 22 novembre a Napoli. Il tema del convegno è “L’italiano della politica e la politica per l’italiano”: io parteciperò oggi, venerdì 21, a una tavola rotonda (14:30-15:30) dedicata alla prima metà del tema, e più specificamente al linguaggio politico dei social network. Il mio intervento dovrebbe essere l’ultimo della serie e sarà dedicato a Il linguaggio della comunicazione politica su Facebook. Luogo, l’Aula Pessina dell’Università di Napoli “Federico II”, in Corso Umberto I, 40.
 
Il 9 e il 10 dicembre si terrà invece a Pisa la prima Conferenza Italiana di Linguistica Computazionale: CLiC-it 2014. Qui, il pomeriggio del 9 ottobre, dalle 16:30 alle 17:30 presenterò un poster dedicato a Il Corpus ICoN: una raccolta di elaborati di italiano L2 prodotti in ambito universitario. Seguirà la sessione poster. Luogo, l’auditorium del CNR.
 

martedì 11 novembre 2014

Barclay, I wonder what it’s like to be dyslexic

 
Barclay, I wonder what it's like to be dyslexic (da Kickstarter)
Giusto un anno fa ho “sostenuto” un progetto su Kickstarter: la realizzazione di un libro di Sam Barclay, I wonder what it’s like to be dyslexic. Il progetto ha avuto successo, il libro è stato stampato e la mia copia mi è arrivata dopo qualche mese. Poi, per le solite ragioni di lavoro, non sono riuscito nemmeno a sfogliarla… finalmente, nelle ultime settimane ho rimediato alla lacuna!
 
Il libro non è un trattato ma un esperimento. L’autore ha preso la traduzione inglese di un breve racconto di Philippe Delerm, Reading on The Beach, e l’ha riproposta in formati diversi, cercando volutamente di peggiorare in altrettanti modi l’esperienza di lettura. L’obiettivo è quello di dare un’idea ai lettori non dislessici dei problemi incontrati dai lettori dislessici. O, per dirla con le parole dell’autore, “This book aims to provide the reader with a beautiful, design led experience of what it feels like to struggle with reading”.
 
In una versione, il testo di Delerm viene quindi presentato in TUTTO MAIUSCOLE, invece che con la normale alternanza di maiuscole e minuscole. In un’altra, viene presentato storpiando l’ordine delle lettere all’interno delle parole (in qesuto mdoo…). In una terza, è bianco su sfondo arancione. Eccetera eccetera. Alcuni riquadri con spiegazioni teoriche e bibliografia forniscono poi un contesto a queste deformazioni – che peraltro, devo dire, a volte sono superate dalla realtà di molte impaginazioni “artistiche” di cataloghi o simili, che esibiscono un notevole talento nel complicare la vita ai lettori e da cui Barclay stesso forse ha tratto ispirazione.
 
L’autore fa giustamente notare che i suoi interventi non producono un vero equivalente delle difficoltà di lettura di un dislessico. Secondo alcune ricerche recenti, oltretutto, sembra che la difficoltà di lettura generata da alcuni dei fattori scelti cali rapidamente quando il lettore non dislessico si abitua alla nuova forma del testo. Per esempio, i testi in tutto maiuscole all’inizio rallentano la lettura, ma dopo qualche giorno passato a leggere in tutto maiuscole i lettori si abituano e riescono a leggere anche questi testi alla velocità con cui leggevano i testi “normali”. Tuttavia, l’obiettivo di Barclay è semplicemente quello di dare un’idea, non di costruire una simulazione perfetta. 
 
L’impaginazione in alcuni casi è interessante e gradevole, in altri è – in parte volutamente, immagino – goffa. Soprattutto, però, da iniziative di questo genere ci sono sempre diverse cose da imparare. La più interessante per me è stata la scoperta di un esperimento tipografico: il carattere You can read me, creato da Phil Baines nel 1995. L’obiettivo di questo carattere era quello di eliminare quanto più possibile gli elementi che danno forma alle singole lettere dell’alfabeto, mantenendo però la  riconoscibilità delle lettere stesse. Ne va di mezzo la velocità di lettura, naturalmente; ma tra tutti gli espedienti usati nel libro per dare un’idea della dislessia, sospetto che il più realistico sia appunto questo.
 
Conclusione pratica: se tornerò a fare corsi di scrittura come quelli che facevo una volta, per le dimostrazioni pratiche sulle basi biologiche della lettura mi porterò senz’altro dietro anche questo libro!
 

giovedì 6 novembre 2014

Sorpresa: in Italia si parla soprattutto italiano!

 
ISTAT
L’ultima indagine ISTAT su lingue e dialetti in Italia (dati 2012) mostra una novità importante, anche se non del tutto inaspettata. Per la prima volta, la maggioranza della popolazione italiana dichiara infatti di parlare “solo o prevalentemente italiano” in famiglia! Per anni questa percentuale era rimasta attorno al 43-44%, e ancora l’ultima indagine ISTAT (2006) mostrava questi valori; il resto della popolazione, cioè la maggioranza assoluta, usava invece “solo o prevalentemente dialetto”, “sia italiano sia dialetto” oppure “altra lingua”. La lingua nazionale ha fatto quindi un balzo di quasi il 10%: la crescita non era inaspettata, appunto, ma le sue dimensioni sono sorprendenti.
 
Sì, ma come mai una popolazione cambia lingua, abbandonando per esempio i dialetti e iniziando a parlare in italiano? Nel mio modello di mondo (e, spero, nella realtà) le lingue sono oggetti più statici di quel che di solito si pensa. Si trasmettono quasi immutate da una generazione all’altra, e si spostano non per misteriose “diffusioni” ma perché si spostano le persone, e le famiglie, che le parlano.
 
Alla base di questa staticità c’è un fatto biologico: per una persona, il modo migliore per imparare una lingua è impararla prima dell’ingresso nell’età adulta. Oltre questa constatazione di massima è difficile andare – visto che con gli esseri umani, per fortuna, non si possono fare esperimenti! Sembra per esempio che per alcuni aspetti della fonologia esista una vera e propria età critica, mentre gli altri piani della lingua possono essere dominati a livello madrelingua anche molto più avanti… però questo è un discorso molto complesso. Dal punto di vista pratico, per la diffusione di una lingua conta innanzitutto la lingua che le giovani generazioni parlano e sentono parlare nell’uso quotidiano. Questo, nella maggior parte dei casi, significa parlare la lingua usata dai genitori e da altri bambini di un gruppo omogeneo. Di qui la staticità.
 
Nelle società sviluppate, però, i bambini sono sottoposti oggi anche ad altri stimoli consistenti. Da un lato vanno di regola a scuola (entro i sette anni, al più tardi; ma spesso iniziando fin dai primi mesi di vita) e passano a scuola una buona parte del giorno. Inoltre sono continuamente esposti a mezzi di comunicazione parlati, a cominciare dalla televisione. Scuola e televisione, con poche eccezioni, comunicano attraverso una lingua nazionale, più o meno dominata.
 
Il combinato disposto di questi fattori fa sì che le lingue degli emigranti si perdano rapidamente nelle generazioni successive. Società extrafamiliare e mezzi di comunicazione agiscono già sui bambini. Conseguentemente, di solito, la seconda generazione è capace di intendere la lingua di partenza dei genitori ma non di parlarla con sicurezza; per la terza generazione, la stessa lingua è ormai lingua straniera. Questo è tra l’altro ciò che è successo regolarmente per le comunità italiane all’estero, con eccezioni nel caso di comunità di particolare compattezza, com’è accaduto al dialetto veneto conservato per più di un secolo a Chipilo in Messico.
 
Gli stessi fattori sono all’opera anche nella stessa Italia, a favore della lingua nazionale e a danno dei dialetti (e, ovviamente, delle lingue degli immigranti). Questo spiega buona parte della diffusione dell’italiano negli ultimi tre secoli, dal XIX al XXI. In alcune regioni (quelle del nordest e dell’estremo sud) molte comunità sono saldamente attaccate al dialetto; in altre, lo spazio del dialetto viene gradualmente eroso dalla lingua “esterna”. Negli ultimi vent’anni le percentuali complessive non erano cambiate molto. Adesso però l’indagine ISTAT mostra non solo un aumento generalizzato, ma anche un calo nelle differenze territoriali e in quelle sociali. Insomma, non solo è stata superata una soglia simbolica, ma alcuni movimenti sembrano testimoniare spinte nuove. Vedremo se le prossime indagini confermeranno!
 
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