martedì 16 agosto 2011

Christensen, Horn e Johnson, Disrupting class

La lezione di Oversold and underused non è passata del tutto inosservata. Tra i libri che ne hanno tenuto conto, mi sembra rappresentativo e interessante Disrupting class: how disruptive innovation will change the way the world learns (McGraw Hill, New York etc., 2008; DOI: 10.1036/0071592067; 0071641742).

Il libro è interessante anche dal punto di vista editoriale. È dedicato alla scuola statunitense (e in particolare alla fascia d’età corrispondente alle scuole superiori italiane), ma l’autore messo in evidenza in copertina è uno specialista di business, Clayton M. Christensen, “bestselling author of The innovator’s dilemma”, affiancato da Michael B. Horn e Curtis W. Johnson. E la struttura riprende quella di molti libri di business, alternando la discussione teorica a scenette narrative con personaggi immaginari che dovrebbero dare concretezza alle idee del libro (tecnica che, di regola, trovo piuttosto antipatica). Soprattutto, però, Disrupting class presenta in tono molto manualistico, e senza discussione, alcune “conclusioni” essenziali che nella realtà non sono affatto sicure quanto gli autori vorrebbero – il che mina alla radice le pur interessanti proposte fatte.

Alcuni dei presupposti del libro sono comunque condivisibili. Perché oggi le scuole americane, nonostante i cospicui investimenti e la lunga esperienza, non raggiungono gli obiettivi formativi loro assegnati? Gli autori propongono diverse cause ragionevoli, a cominciare dal fatto che nelle scuole americane oggi sono numerosi gli studenti provenienti da minoranze che storicamente hanno avuto scarsi risultati scolastici (il 35%) o che non parlano l’inglese come lingua madre (il 20%). Tuttavia, l’attenzione degli autori va soprattutto al problema della motivazione, e su questo concordo anch’io: in una società di diffuso benessere (e, aggiungo io, in cui il titolo di studio è una garanzia di progresso sociale meno forte rispetto al passato), gli studenti e le loro famiglie hanno meno motivazioni estrinseche per studiare.

La soluzione proposta dagli autori per questo problema è comunque semplice: “schooling can and should be an intrinsically motivating experience” (368). Al momento non lo è perché “every student learns in a different way” (384). Gli autori scelgono su questo punto di rifarsi a Howard Gardner – definito, un po’ troppo entusiasticamente, come “il primo” ad aver immaginato qualcosa del genere – e alla sua idea che esistano otto tipi fondamentali di intelligenza (651; per esempio, l’intelligenza linguistica, quella matematica, quella cinestetica – cioè del movimento e dello sport – eccetera...), i quali tipi poi si combinano con “different learning styles” e “different paces” (686).

Il problema quindi sta nel fatto che le scuole attuali, “monolitiche”, non possono adattarsi ai bisogni di ogni singolo studente. Per raggiungere l’obiettivo basta invece “to customize an education to match the way every child best learns” (384), usando un “computer-based learning” destinato a essere “student-centric” (849).

Nel capitolo terzo, sulla scorta appunto della lezione di Cuban, si nota che per raggiungere questo obiettivo non basta comunque portare i computer a scuola. Oggi i computer sono dappertutto, ma la didattica non è mutata quasi in nulla rispetto a qualche decennio fa. Se vent’anni fa le ricerche si facevano sulle enciclopedie e si battevano a macchina, oggi si fanno su Internet e si scrivono al computer... ma la sostanza del lavoro non è cambiata (1400). Occorre quindi un nuovo approccio, “disruttivo” (disruptive), in cui i computer siano usati in modo diverso – e, all’inizio, senza entrare in conflitto con la didattica tradizionale, ma semplicemente integrandola. L’importante è che venga creata appunto una tecnologia centrata sullo studente, “in which software has been developed that can help students learn each subject in a manner that is consistent with their type of intelligence and learning style” (1722).

Gli autori entrono poi molto in dettaglio sulle modalità con cui l’innovazione dovrebbe diffondersi. Per esempio, individuano come area ideale d’intervento i cosiddetti corsi Advanced Placement delle scuole superiori americane, che non tutte le istituzioni sono oggi in grado di offrire in tutte le aree possibili; e il ragionamento non è sbagliato (personalmente, lavorando anche come direttore di un consorzio che ha l’obiettivo di offrire didattica della lingua e cultura italiana via Internet là dove non ci sarebbero possibilità didattiche “tradizionali”, lo trovo anzi del tutto corretto). Dopodiché, però, analizzando i dati di diffusione, gli autori arrivano a fare speculazioni molto molto discutibili, e perfino a proporre un modello matematico che suggerisce che, una volta che i primi corsi online avranno fatto da cavalli di Troia, negli Stati Uniti “by 2019 [!], about 50 percent of high school courses will be delivered online” (1831). Vogliamo scommettere che la percentuale sarà molto più bassa? E magari più vicina al 5 che al 50%?

Come esempio comunque di innovazione, gli autori citano due esempi. Uno reale, di un “laboratorio chimico virtuale” (!!!), anche se pudicamente dicono che “it is not as good, perhaps, as doing the experiments hands-on” (1936: un bell’esempio di understatement). E poi, cosa che mi interessa in modo più diretto, un corso per l’apprendimento della lingua cinese. Corso effettivamente molto bello, così come viene descritto, ma del tutto ipotetico, e lontanissimo da ciò che oggi si può tecnicamente realizzare (1950).

Già: chi realizzerà i materiali didattici necessari? E chi deciderà quali sono i più adatti per ogni singolo studente? Con ammirevole certezza, gli autori diconoche:

The tools of the [future] software platform will make it so simple to develop online learning products that students will be able to build products that help them teach other students. Parents will be able to assemble tools to tutor their children. And teachers will be able to create tools to help the different types of learners in their classrooms... [eccetera] (2422).

Certo, non bisogna sottovalutare la potenza di ciò che gli autori definiscono “facilitated user networks” (2309); Wikipedia è lì a ricordarci che si possono costruire cose fantastiche, in questo modo. Ma la creazione di materiali didattici è molto, molto complicata... E non per ragioni “tecniche” di allestimento dei materiali. Si può insegnare bene a una persona in presenza, ma costruire buoni esercizi, o buone spiegazioni, per l’uso al computer è tutto un altro paio di maniche, e i non addetti ai lavori sottovalutano sistematicamente questo genere di problemi. Si pensi solo a un corso di lingua: per poter presentare alcune strutture avanzate, occorre che gli esempi presentino lessico che è già stato conosciuto dagli studenti, ed evitino di far ricorso a costruzioni che non siano già note, eccetera. Un’enciclopedia è strutturalmente modulare; un percorso di studi lo è fino a un punto molto limitato, anche se gli autori sembrano convinti del contrario.

Dando viceversa per scontato che realizzare e assegnare materiali didattici sia un gioco da ragazzi, gli autori passano quindi a occuparsi di altri problemi: la necessità di parlare molto con i bambini fin dal primo anno di vita, la scarsa utilità delle ricerche didattiche, e via dicendo... E concludono con suggerimenti pratici su come far adottare alle scuole la loro rivoluzione.

Che cosa c’è di interessante, in questa analisi? Di sicuro, l’enfasi data alle caratteristiche individuali di chi studia. Però, non è detto che la soluzione indicata sia generalizzabile. Rispetto al sistema attuale, soprattutto, quanto è più vantaggiosa una personalizzazione spinta? Abbastanza da giustificare un investimento? Gli autori lo danno per scontato, ma non c’è alcuna prova che sia così. A quale punto la personalizzazione è vantaggiosa, a livello di sistema scolastico? A quale punto smette di esserlo?

Beh, non lo sa nessuno.

La mia impressione è che la personalizzazione sia sì vantaggiosa, ma entro limiti piuttosto stretti. Quali sono questi limiti? Non lo so. Cosa sorprendente (ma forse non tanto...) per un libro scritto da chi si occupa di business, Disrupting class non tenta però di fornire in proposito neanche la più elementare analisi costi-benefici, né di quantificazione. Nella sostanza, quindi, quanta comprensione fa guadagnare un corso “personalizzato” di matematica al computer, rispetto a un corso tradizionale? C’è un vantaggio dimostrabile? Ci sono corsi di matematica che riescano per esempio a insegnare un dato assieme di abilità e competenze anche a chi ha la famosa intelligenza “cinestetica”? E quanto sono flessibili le intelligenze? E sono proprio otto, come sostiene Gardner? (cosa di cui è lecito dubitare...). Eccetera eccetera. Per un numero incredibilmente alto di variabili quantitative, da questo libro non arriva nemmeno un accenno di inquadramento. Il che significa che il testo può valere come rassegna di spunti, ma non ha un gran valore predittivo.

Un esempio pratico: certo, è bene che lo studio sia motivante di per sé, ma arriva il momento in cui si smette di studiare, e in cui ci si accorge che la propria motivazione intrinseca ha portato a qualche anno di studio interessante, ma anche a un vicolo cieco lavorativo. Oppure è verosimile che per esempio, per un qualche strano scherzo del mondo, la natura umana sia organizzata in modo da generare tante “intelligenze cinestetiche” o “linguistiche” quante ne sono necessarie in ogni particolare congiuntura economica? In ogni fase di sviluppo? E se ne producesse, per esempio, di più del necessario? Per carità, è chiaro che entro certi limiti la domanda crea l’offerta, e via dicendo. Ma quanti allenatori di pallavolo e quanti ballerini professionisti possono trovare impiego, anche nelle migliori circostanze, in una società postindustriale? È chiaro che per il prevedibile futuro il grosso delle richieste lavorative riguarderà attività di ben altro genere e premierà ben altre “intelligenze”. Insomma, che lo si voglia o no, software o non software, ci sarà quindi sempre una spinta del tutto legittima a fare cose per cui non si è “portati”, usando strumenti che non sono ottimali per noi.

E allora, qual è la differenza rispetto a oggi? Enorme o marginale? Su questo punto, la risposta più corretta è appunto: non lo sappiamo. I dati possono giustificare sia un estremo scetticismo sia un estremo ottimismo, ma Disrupting class non prende in minima considerazione questo aspetto, sostituendo la discussione critica con aneddoti presi dal mondo dell’industria ed esempi inventati.

Nota a margine: la stessa idea di fondo, nella più grezza forma del “facciamo studiare solo chi è portato a farlo”, rappresenta la proposta “teorica” base di Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola. L’idea che una società possa decidere di spingere in una direzione, invece di farsi trascinare dalle soluzioni di minor resistenza, oggi pare poco popolare, su entrambe le sponde dell’Atlantico.

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