domenica 9 ottobre 2011

Scribner e Cole, Psychology of Literacy

Testo in sillabario vai su un copricapo durante una cerimonia; da Scribner e Cole 1981, inserto fotografico dopo p. 34

Nella prima metà del Novecento si è notato che, in alcune situazioni comunicative, chi sa leggere e scrivere si comporta in modo diverso rispetto agli analfabeti. Per esempio, gli studi di Luria negli anni Trenta hanno messo in luce capacità diverse di fornire spiegazione “astratte”, indipendenti dal contesto, e così via.

Più incerta è la causa di queste differenze. Si tratta per esempio di una conseguenza dell’apprendimento della scrittura in quanto tale? Oppure della formazione scolastica in senso ampio? Difficile separare le due cose, perché oggi di regola, un po’ in tutto il mondo, si impara a scrivere andando a scuola. Negli anni Settanta Sylvia Scribner e Michael Cole hanno cercato di dare una risposta sperimentale a questo dubbio, e hanno descritto il loro lavoro nel libro The psychology of literacy (Cambridge e Londra, Harvard University Press, 1981). Il metodo seguito è interessante, e i risultati lo sono ancora di più.

I vai e il loro sistema di scrittura


I vai sono un popolo di etnia mande residente in Africa occidentale, in buona parte all’interno dei confini della Liberia. Nonostante formino un gruppo etnico di dimensioni contenute (165.000 persone in totale), i vai hanno attirato da tempo l’attenzione per il loro sillabario: un sistema per scrivere la lingua vai inventato attorno al 1830 da Momolu Duwalu Bukele e altri anziani. Non si tratta di un sistema inventato da zero, visto che i vai erano da tempo in contatto con la scrittura in alfabeto latino e con quella in alfabeto arabo, ma ha caratteristiche originali rispetto ai suoi probabili modelli, a cominciare dal fatto che si tratta appunto di un sillabario e non di un alfabeto.

Tra parentesi, le somiglianze strutturali tra il sillabario vai e quello inventato solo una decina d’anni prima in America dal capo Sequoia dei Cherokee sono tali che è possibile perfino ipotizzare che Bukele si sia ispirato al modello americano... tanto più che un indiano Cherokee, Augustus o Austin Curtis, si era trasferito tra i vai nel 1827-1828 ed era diventato un capo importante (la prima scritta in vai notata da occidentali fu in effetti, nel 1832, quella sull’ingresso di casa sua). La storia, affascinante, di questa possibile origine è raccontata in un saggio di Tuschscher e Hart accessibile tramite JSTOR; e anche altri vai, in tempi più recenti, hanno storie affascinanti da raccontare – a cominciare da Hans-Jürgen Massaquoi. Tuttavia, il punto chiave è che il sistema vai è frutto di un’analisi fonetica del linguaggio piuttosto sofisticata: secondo l’analisi di un linguista di inizio Novecento, citata da Scribner e Cole a p. 32, “the Vais have acquitted themselves by no means badly as phoneticians”. A un rapido sguardo, mi sembra in effetti evidente che alcuni segni siano stati creati in base a una classificazione articolatoria, con l’uso di caratteri simili per rappresentare per esempio le sillabe con /p/ () e quelle con /b/ (/pe/ e /be/ sono rispettivamente ꗨ e ꗩ) o quelle con /f/ e /v/ (/fa/ e /va/ sono rispettivamente ꕘ e ꕙ), eccetera... Chi vuole sbizzarrirsi può comunque elaborare con comodo i caratteri vai, visto che sono stati inclusi in Unicode e che sono liberamente disponibili alcuni font per visualizzarli su diversi sistemi, incluso Linux.

Dal punto di vista di Scribner e Cole la scrittura vai è però interessante, più che per la sua natura, per il modo in cui viene usata e insegnata. Anche se Bukele e i suoi collaboratori e successori fondarono scuole, nella seconda metà del Novecento la scrittura è stata trasmessa quasi unicamente per apprendimento diretto tra adulti, uno a uno. In altri termini, un vai che voglia imparare la scrittura deve contattare un vai che già conosca il sistema e farsi insegnare (in un tempo variabile da poche settimane a qualche mese). Si tratta quindi di uno dei casi, rarissimi su scala mondiale, in cui un sistema di scrittura viene trasmesso ad analfabeti al di fuori di un sistema scolastico – in forma pura, in un certo senso. Il sillabario vai viene – o almeno, trent’anni fa veniva – usato per scopi soprattutto pratici, dalla scrittura di appunti a quella di lettere commerciali o informative (“Conducting ones’ personal affairs is the leading advantage claimed for literacy by most informants”: p. 82).

Nel mondo della comunicazione e del linguaggio, naturalmente, i casi perfetti sono pochi. Negli anni Settanta la ricerca di Scribner e Cole si è svolta in un contesto in cui molti vai erano analfabeti, altri avevano imparato solo il sillabario vai, altri avevano frequentato scuole coraniche (in cui l’arabo del Corano poteva essere imparato a livello puramente mnemonico, senza comprensione, oppure come lingua vera e propria), altri ancora scuole con insegnamento in inglese. In alcuni casi un tipo di apprendimento si sovrappone a un altro, in altri casi (per esempio, lo studio dell’inglese e quello del sillabario vai: p. 107) chi ha studiato una cosa di solito non ha studiato l’altra, eccetera. Tutto ciò ha complicato il lavoro, ma Scribner e Cole hanno ideato diversi modi per ottenere comunque risultati utili.

Gli esperimenti


I ricercatori, nel giro di diversi anni, hanno condotto interviste e sessioni di prova con vai appartenenti a categorie diverse: non alfabetizzati, alfabetizzati solo in vai, alfabetizzati in vai e arabo, e così via. I dati risultanti sono stati poi sottoposti a un’analisi statistica (inclusi procedimenti di regressione), per cercare di portare alla luce i fattori che influenzano i risultati. Questo naturalmente significa tener conto di una pluralità di fattori... cioè di quelle cose che rendono studi del genere un inferno. Tra le variabili di cui gli autori hanno tenuto conto figurano infatti non solo quelle sullo studio della scrittura, ma anche quelle sull’età, sui periodi trascorsi al di fuori del territorio vai, sul tipo di lavoro condotto, sullo status sociale, sulla partecipazione alla religione tradizionale, eccetera eccetera.

Le prove in sé hanno poi riguardato competenze sia generali sia linguistiche. In alcuni casi è stato chiesto di analizzare il linguaggio, e di dire per esempio se una frase in vai era grammaticalmente corretta o meno, spiegando il perché. In altri casi, soprattutto all’inizio della ricerca, sono state privilegiate le competenze cognitive più generali; per esempio è stato chiesto di raggruppare forme geometriche oppure oggetti della vita quotidiana in base a categorie astratte. Nel caso delle competenze logiche, descritto alle pp. 126-128, ai soggetti esaminati veniva per esempio chiesto di rispondere a domande modellate su classici sillogismi, su questo modello:

All government officials are wealthy.
All wealthy men are powerful.
Are some government officials powerful?

Quest’ultimo tipo di verifica è particolarmente interessante, perché in passato si è insistito molto sull’associazione tra scrittura e pensiero logico. Quali sono stati, quindi, i risultati?

I risultati

Gli esiti degli esperimenti sono stati estremamente interessanti. In primo luogo, per le competenze cognitive generali le differenze tra “alfabetizzati” e “non alfabetizzati”, anche nei casi più estremi, non sono sembrate così marcate quanto la tradizione di ricerca poteva far pensare. Tenendo conto dei vari fattori a monte, spesso gli autori non sono stati in grado di individuare differenze significative tra gli alfabetizzati e gli analfabeti anche in compiti, come quelli di classificazione, in cui altri esperimenti le avevano riscontrate. Perfino in rapporto a un’asserzione generica come “attendance at school stimulates growth of overall cognitive competence” gli autori dicono quindi: “school effects in our studies are not consistent enough to support that generalization, even if it is qualified to refer to cognitive competence as measured in experimental tasks only” (p. 244) L’aspetto finale della ricerca, orientata su competenze meno impressionanti di quelle cognitive generali, è in effetti in parte dovuto all’impossibilità di trovare differenze cognitive generali – cosa che nel 1976, dopo tre anni di lavoro, spinse gli autori a una correzione di rotta (p. 158).

Sul piano linguistico, infatti, le differenze tra alfabetizzati e non alfabetizzati sono ben rilevate... ma, a sorpresa, non in tutti i casi in cui molti hanno predetto che si sarebbero trovate. Per esempio, nel fornire le definizioni di alcuni tipi di parole, alfabetizzati e non alfabetizzati si sono rivelati molto simili; e nel riconoscere agrammaticalità nella lingua, entrambi i gruppi “were virtually perfect” (p. 152; con buona pace di McLuhan, che sosteneva l’impossibilità da parte degli analfabeti, o perlomeno delle società senza scrittura, di individuare “errori” grammaticali). Alcuni tipi di attività riescono invece molto più facili agli alfabetizzati, e lo stesso vale, in modo ancora più vistoso, per alcuni tipi di riflessione sul linguaggio.

A me, per ovvi motivi, tra gli esperimenti condotti interessano soprattutto quelli descritti nel dodicesimo capitolo (Communication: making meaning clear), che analizza le differenze nelle capacità di inviare messaggi a sconosciuti. I vai alfabetizzati hanno per esempio un modo piuttosto codificato di scrivere lettere, con formule fisse di introduzione e di saluto. Una tipica lettera vai, tradotta in inglese, suona quindi così:

This letter belongs to Vaanii B. of Wuilo, Tewo. My greetings to you. Old man Fakaman sends greetings to you. Now this is your information.
If you have eddo, please send some. I beg you to bring it to Diaa and give it to Boima B. He is the young man who has the launch. I told him about it and he has agreed so please try to do it so he will bring it to me free of charge; please, we are looking forward to receiving it. I am finished. I am Fakaman’s son.
Momo J. (p. 201)


Indipendentemente dalla tradizione di scrittura, Scribner e Cole hanno comunque chiesto ai soggetti esaminati di svolgere su due compiti: spiegare le regole di un gioco da tavolo a una persona che non lo avesse mai praticato, e scrivere o dettare una lettera che fornisse a un forestiero le indicazioni per raggiungere la fattoria del mittente. Gli autori ritengono che le abilità richieste da questo tipo di comunicazione siano tre:

1. valutare quali sono le informazioni necessarie al destinatario
2. esprimere chiaramente queste informazioni
3. organizzare queste informazioni in modo da permettere al destinatario di ricostruire facilmente la situazione

Per quanto riguarda la prima abilità, la dichiarazione degli autori è netta: “all our studies indicate that literates hold no special position” (p. 218). Le cose cambiano però per le altre due, in cui gli alfabetizzati si rivelano “considerably better”. Cosa di diretto interesse per me, questi dati suggeriscono che “one way writing may improve instructional communication is not so much in improving ability to take the listener’s perspective, but in equipping a person with techniques to meet the informational demands of the particular communicative situation” (sempre p. 218).

Le conclusioni

Alla fine, del lavoro, gli autori sintetizzano le proprie (ragionevolissime) conclusioni nel quattordicesimo capitolo, dedicato a The practice of literacy. Il punto essenziale è che i risultati raggiunti non possono essere descritti “in either a ‘no difference, all thought is the same’ position nor in terms of a Great Cognitive Divide” (p. 235): le distinzioni sono reali, ma sottili e vincolate al contesto sociale – né sono sempre prevedibili. La figura 14.1 del libro (p. 253), che mostra i settori in cui i ricercatori hanno individuato l’influenza di un qualche tipo di alfabetizzazione, è molto indicativa:

Insomma, da questa ricerca l’alfabetizzazione emerge come una componente importante ma non decisivo all’interno di un insieme di pratiche sociali. L’alfabetizzazione non trasforma proto-umani in umani “educati”: permette a esseri umani già dotati di un pensiero sofisticato di svolgere attività nuove, che spesso si possono portare a termine solo con un apprendimento dedicato.

2 commenti:

  1. Al solito, post molto interessante.
    Di recente ho terminato La scomparsa dell'infanzia di Neil Postman, testo relativamente noto, in cui l'autore sostiene che mentre lo studio della scrittura coltiverebbe intelligenza e autocontrollo (cioè, civiltà), la televisione e in genere il contatto coi media audovisivi sarebbero deleterî in tal senso (cioè, barbarie).
    La tesi viene portata avanti, oltre che con qualche riferimento a McLuhan, senza alcun straccio di ricerca empirica, solo coi pensieri da tavolo dell'autore...

    Tornando alla ricerca di Scribner e Cole, che non conosco direttamente, ma i cui risultati mi sembrano comunque molto interessanti, mi chiedo se alla sua base non vi possa risiedere anche un pregiudizio che in parte ne piegherebbe i risultati, ovvero l'idea che in chi ha ricevuto un'educazione scolastica vadano cercate abilità invece assenti in chi ha ricevuto un'alfabetizzazione extrascolastica; cioè l'idea di base che, se c'è una differenza, questa sia automaticamente a favore dell'educazione scolastica.
    Ci sarebbe poi da considerare che "educazione scolastica" può significare molte cose diverse... l'insegnamento scolastico odierno non è certo quello degli anni Cinquanta, né l'istituzione entro cui si svolge.

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  2. Ciao, Yupa! Grazie per i complimenti... e per la domanda interessante :-)

    Per quanto riguarda le abilità assenti, direi che hai ragione in pieno: da un secolo e passa si insiste su ciò che gli alfabetizzati hanno "in più", e tutt'al più (sulla scia di Platone) si suppone che abbiano meno memoria dei non alfabetizzati - cosa che tra l'altro la ricerca di Scribner e Cole smentisce, almeno per quanto riguarda la capacità di ripetere serie di parole (gli alfabetizzati ne ricordano di più).

    Si perde qualcosa, quando si impara a leggere e scrivere? Che io sappia, nessuno ha mai provato a rispondere seriamente a questa domanda. Di sicuro, fino alla Rivoluzione industriale le civiltà agricole sembrano aver dato in media ai singoli individui una vita peggiore, anche dal punto di vista degli stimoli intellettuali, rispetto a quella dei cacciatori-raccoglitori... ma gli alfabetizzati sono di regola parte delle élite di queste società, quindi per loro il discorso medio non è necessariamente valido.

    D'altra parte, non manca chi si è fatto affascinare dai cacciatori-raccoglitori fino al punto di ritenere che, in fin dei conti, su molte cose abbiano ragione loro. Possibile che il non farsi abbagliare dalle idee sul futuro, o dalla religione, sia un tipo di buon senso che è stato dimenticato dalle persone scolarizzate e alfabetizzate?

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