Già l’anno scorso avevo accennato al libro Documentalità di Maurizio Ferraris. Negli ultimi mesi l’ho letto, e, come temevo, non ne sono rimasto affatto convinto. Ferraris centra un punto importantissimo e sfuggito a molti altri (la continuità tra la “scrittura” di una lingua articolata e altre pratiche, come già notato da Derrida e da Roy Harris), presenta alcune intuizioni interessanti e si avvicina, senza però raggiungerla, a una nozione fondamentale per questo genere di studi: quella di informazione. Però l’idea chiave del libro è del tutto sbagliata, così come sono sbagliate moltissime osservazioni puntuali. La situazione è tale che il testo, pur essendo uno studio corposo pubblicato con evidenza da un competente autore italiano, può essere usato come spunto di discussione e poco altro.
Rimandando ad altra occasione la critica sul punto centrale, per me è poi interessante notare che i problemi di sostanza sono verosimilmente collegati a problemi di forma. La scrittura di Ferraris è vivace e brillante, ma in un libro del genere la cosa non aiuta, anzi, confonde. Almeno nella mia esperienza, una scrittura così è utile per chiarire qualche punto in un articolo da giornale rivolto a un pubblico distratto (arte in cui Ferraris eccelle), ma non per un libro. Nel caso del libro, chi legge si è di solito già concentrato sull’argomento, e le battutine a lato o le semplici digressioni devono essere usate con molta parsimonia, perché distraggono da un ragionamento complesso. Né la distrazione riguarda solo il lettore, ma anche l’autore; la cui energia, almeno in questo caso, sembra andata nelle digressioni, più che nello sviluppo del punto centrale. Al punto che gli argomenti presentati nel libro sono spesso affrontati ed esposti con sorprendente approssimazione (più da articolo di giornale, appunto, che da libro di ricerca).
Certo, in alcuni casi, gli errori – pur frequenti e vistosi – non hanno un grande impatto sul libro. Ferraris parla per esempio degli eschimesi come di “europei”, e lo fa per ben tre volte (pp. 290, 293 e 295), commentando un passo di Husserl di cui evidentemente non ha afferrato tutto il senso. In realtà, com’è noto, in Europa non ci sono popolazioni eschimesi, né gli eschimesi sono “cittadini norvegesi o finlandesi” come crede Ferraris. Poco male: l’autore ha confuso eschimesi e sami, o “lapponi”, ma il suo libro non è un trattato di etnografia scandinava, e a questo genere di sviste, per quanto fastidiose, si può passare sopra.
Più inquietante è la confusione terminologica e di sostanza su argomenti che si dovrebbero trovare al centro del discorso. Faccio solo qualche esempio tra le (letteralmente!) decine di casi possibili. Alle pp. 237-238, Ferraris scrive:
… la praticità (o essenzialità) dell’alfabeto risulta pesantemente contraddetta dalla circostanza per cui le nostre scritture rigurgitano di ideogrammi, che non sono solo gli elementi sintattici, ma, ad esempio, i numeri, con i quali ci troviamo benissimo, tanto quanto invece si trovavano male i latini, la cui numerazione aveva elementi alfabetici. Basterà comunque guardare la tastiera di un computer, ossia di una macchina per scrivere una scrittura che si suppone alfabetica, per vedere quanti ideogrammi possieda: | \ ! “ £ $ % & / ( ) = ? ^ 1 2 3 4 5 6 7 8 9 0 [ + *] @ ° # § > < ; , : . _ -. Sono 40 ideogrammi. E vi ho risparmiato i simboli per far andare avanti e indietro il dvd o alzare il volume (che non servono per scrivere), così come tutto ciò che posso ottenere dal “menù simboli”.
Il concetto base è abbastanza corretto, sulla scia di discorsi fatti da tempo da Roy Harris, ma queste poche righe sono talmente piene di errori che è possibile commentarne solo una parte. In che senso, per esempio, Ferraris parla di “ideogrammi”? In italiano, la parola “ideogramma” indica un segno “che corrisponde a un’idea o a un oggetto”, come dice il dizionario Zingarelli; né le parentesi quadre né i punti esclamativi sono quindi “ideogrammi” (lo sono invece le cifre arabe e gli operatori matematici). E in che senso gli ideogrammi “non sono solo gli elementi sintattici”? Questa osservazione è, semplicemente, priva di significato, ed è inutile andare a speculare troppo su che cosa intenda Ferraris per “elementi sintattici”. Forse pensa alle “parole”, e d’altra parte, in tutto il testo, i caratteri del cinese (logografici e morfografici) sono coerentemente chiamati “ideogrammi”... La confusione tra “simboli”, “immagini” e “ideogrammi” è costante in tutto il libro, il che inquieta non poco in un’opera che è dedicata esattamente a questioni di “scrittura”, sia pure in senso ampio.
Andando ancora a caso: tra le pp. 239 e 241 Ferraris parla delle origini del linguaggio. Su questo impegnativo argomento, anzi, propone anche una propria “ipotesi alternativa”. Ovviamente, chiunque può speculare quanto vuole sulle origini del linguaggio e proporre ogni possibile ipotesi, seria o meno, ma nel caso di Ferraris la “proposta” poggia su una base talmente debole che non si riesce a capire neanche a che cosa si riferisca, esattamente. In quelle pagine infatti Ferraris parla di “linguaggio” in modo estremamente confuso, al punto che i “gesti” vengono da lui presentati a volte come “linguaggio”, a volte come una cosa diversa dal linguaggio e, anzi, a esso contrapposta. Il problema sta ovviamente nel fatto che i non linguisti chiamano correntemente “linguaggio” oggetti molto diversi tra di loro (dal “linguaggio dei sorrisi” alla lingua articolata); però, appunto, chiunque si interessi a questo argomento dovrebbe rendersi conto del fatto che le due cose sono completamente diverse, e che il “linguaggio articolato”, espresso con parole o con gesti, è ben diverso dagli altri repertori di segni – e, contrariamente a quel che crede Ferraris (p. 241), oggi la maggior parte degli addetti ai lavori ritiene che sia biologicamente predeterminato. A che cosa si riferisce quindi Ferraris quando presenta la sua ipotesi sull’“origine del linguaggio”? Presumibilmente al linguaggio articolato verbale; ma allora che senso ha occuparsene, se il linguaggio articolato verbale è solo un caso particolare tra altri tipi di “linguaggio a tutto tondo”? L’origine del linguaggio articolato verbale coincide con l’origine del linguaggio o no?
Inutile moltiplicare gli esempi di questa disinvoltura: sono innumerevoli, e ognuno dovrebbe essere commentato a parte. Se avrò un po’ di tempo, nei prossimi giorni spero invece di riuscire a parlare del nucleo del libro, che è ovviamente la cosa su cui c’è più da dire, e che è purtroppo trattata con la stessa leggerezza. Per dare un’idea della situazione complessiva, basterà aggiungere che le tre pagine già citate sulle origini del linguaggio (239-241) concentrano una quantità incredibile di informazioni imprecise o sbagliate, estratte da un numero sorprendente di aree disciplinari. Per esempio, dalla zoologia e dall’archeologia:
- “i primati, per via di una laringe inadatta, non sono capaci di parlare, ma sicuramente sono capaci di scrivere, nel senso che possiedono l’opposizione del pollice”... beh, alcuni primati, non tutti (e alcuni animali che non sono primati).
- “nel paleolitico inferiore (…) abbiamo delle pietre non lavorate, ma disposte e radunate in modo significativo”... in che senso? Il paleolitico inizia con la lavorazione delle pietre!
In particolare, mi sembra molto plausibile la tesi secondo cui la nascita del linguaggio [presumibilmente: il linguaggio parlato articolato] ha un inizio preciso, il sorgere dell’agricoltura e la necessità di trasmettere le tecniche e i tempi da una generazione all’altra.
Ora, nessun linguista moderno, che io sappia, sostiene una data così tarda: i ritrovamenti più antichi riconducibili all’agricoltura risalgono, al più tardi, a 11.000 anni fa, e tutte le date proposte per l’origine del linguaggio parlato sono più antiche. Infatti la fonte di Ferraris non è uno specialista di questo argomento, ma un non specialista collocato ai confini della pseudoscienza, Julian Jaynes, noto soprattutto per le sue tesi sulla “mente bicamerale”.
Però, a volte perfino la pseudoscienza può essere ispirata. Che argomenti abbiamo per sostenere che gli esseri umani parlassero già 12.000 anni fa, in modo indipendente dall’agricoltura? Il linguaggio non lascia tracce fossili. E allora?
Salta fuori che un argomento ce l’abbiamo. Se il linguaggio fosse dipendente dall’agricoltura, le popolazioni non agricole non dovrebbero averlo, giusto? E ancora oggi esistono al mondo molte popolazioni di cacciatori-raccoglitori, tutte, a quel che ne sappiamo, dotate di linguaggio al pari di qualunque popolazione “agricola”.
Facendo gli avvocati del diavolo, si può a questo punto tirare fuori un controargomento: sì, vabbè, magari hanno adottato il linguaggio ma non l’hanno inventato, e si sono limitate a riprenderlo dalle popolazioni agricole, attraverso qualche contatto successivo. Ipotesi poco credibile, soprattutto visto che questa ripresa dovrebbe essersi prodotta sistematicamente e senza eccezioni in tutte le parti del mondo. Ma possiamo dire con certezza che le cose non sono andate in questo modo? Per farlo, dovremmo trovare una popolazione che sia rimasta fuori da ogni contatto con il resto dell’umanità per gli ultimi undicimila anni.
Cercando, salta fuori che, per quanto suoni incredibile, questo abissale isolamento sembra essersi prodotto in almeno un caso: quello della Tasmania. L’innalzamento del livello dei mari al termine dell’ultima era glaciale separò infatti la Tasmania infatti dal resto dell’Australia in un periodo oggi stimato tra gli otto e i diecimila anni fa, più o meno quando in Medio Oriente l’agricoltura muoveva i primi passi. Dopo quella data i residenti della Tasmania non solo non importarono l’agricoltura né la svilupparono per conto loro, ma rimasero tagliati fuori da ogni sviluppo tecnico o culturale nel resto del mondo – apparentemente perché nessuno attraversò mai lo Stretto di Bass, che li separava dal continente. Di sicuro, sull’isola non furono importate “innovazioni” australiane come il dingo e il boomerang, anzi, alcune delle tecniche neolitiche che inizialmente i tasmaniani possedevano vennero abbandonate durante i millenni, caso illustrato in particolare nei lavori di Jared Diamond.
Nonostante questa situazione, quando nel 1772 ci fu il primo contatto con gli europei, i tasmaniani avevano già un linguaggio. Il tempo per documentarlo fu peraltro poco. Nel 1803 fu stabilito il primo insediamento inglese sull’isola, e trent’anni dopo i tasmaniani (forse 15.000 all’inizio del secolo) erano in pratica estinti: in buona parte per epidemie, e per il resto per il conflitto con i coloni. L’ultima tasmaniana purosangue e l’ultima persona in grado di parlare il tasmaniano, Fanny Cochrane Smith, morì nel 1905 – e gli antropologi fecero in tempo, tardivamente, a farle registrare alcune canzoni tasmaniane su un fonografo Edison, come si vede nella foto ripresa in apertura di post: ultimo atto di cento secoli di sviluppo linguistico indipendente. Quelle registrazioni e le altre testimonianze rimaste sul tasmaniano non permettono nemmeno di stabilire con sicurezza i rapporti genealogici tra questa lingua e le altre lingue parlate in Oceania, ma di sicuro una lingua c’era, e non somigliava né a quelle delle popolazioni australiane più vicine né a quelle europee.
Sintesi: no, non sembra che il linguaggio si sia sviluppato grazie all’agricoltura. O perlomeno, non c’è alcun indizio in questa direzione, e ce ne sono invece molti (diffusione universale e indipendenza dai contatti con popolazioni agricole) che vanno in direzione opposta.
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RispondiEliminaEh sì. Ma in "Documentalità" c'è di peggio, come quando Ferraris a pag. 243 liquida in poche parole e in realtà senza alcun argomento valido, Walter Ong e Marshall McLuhan.
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