lunedì 23 aprile 2012

Corsi in inglese nelle università italiane: i problemi giuridici

 

Negli ultimi mesi si è parlato molto dell’uso dell’inglese nei corsi delle università italiane, e all’argomento l’Accademia della Crusca dedicherà venerdì prossimo una tavola rotonda che si prospetta come estremamente interessante. Non penso che riuscirò ad assistervi, ma nel frattempo mi sono studiato l’argomento partendo da un caso ben noto. All’inizio dell’anno i giornali hanno infatti dedicato un certo spazio a un annuncio del Politecnico di Milano: tutti i corsi delle lauree magistrali e dei dottorati del Politecnico saranno tenuti, a partire dall’anno accademico 2014-2105, in lingua inglese.
 

Abituato allo standard dei comunicati stampa e dei giornali italiani, come prima cosa ho deciso di controllare le fonti. Ho scambiato un po’ di mail con la segreteria del Politecnico, chiedendo di avere accesso agli atti relativi, e dopo un mese e mezzo ho ricevuto un estratto del verbale del Senato Accademico del 15 dicembre 2011, in cui sono state approvate a maggioranza (30 favorevoli, 1 astenuto) le “Linee strategiche 2012-2104”. L’estratto che ho ricevuto non riporta informazioni sull’eventuale discussione, ma la segreteria mi ha gentilmente fornito anche una presentazione in PowerPoint (che forse è il documento approvato!) che descrive le “Linee strategiche”: controllando, ho visto che la stessa presentazione è disponibile sul web, anche se non sul sito del Politecnico, quindi immagino sia un documento pubblico e ufficiale.
 

Andando quindi alla sostanza, le “Linee strategiche” propongono (diapositiva 11) di
 

Attivare le LM e i Dottorati di ricerca esclusivamente in inglese a partire dal 2014 e sviluppare, conseguentemente, un piano integrato per la formazione dei docenti, la messa a punto di materiale di supporto e il sostegno agli studenti
 

Contro questo annuncio si sono levate già a inizio anno diverse condanne. Un mese fa è comparso anche un appello che chiedeva il ritiro della delibera (non so se la cosa poi sia andata avanti). Vale la pena seguire l’argomentazione presentata lì per capire alcuni aspetti del complesso contesto giuridico in cui si muove la scelta delle lingue nella didattica universitaria.
 

Gli autori dell’appello ritengono che le delibere del Politecnico siano “illegittime per violazione dell’art. 271 del r.d. del 31 agosto 1933 n. 1592” ; aggiungono poi pudicamente che le successive riforme “hanno certamente portato al superamento di molte delle disposizioni ivi [= nel Regio Decreto] contenute”. L’aggiunta è quasi dovuta: il Regio Decreto del 1933 è stato, come gli addetti ai lavori ben sanno, un tappa importante nella fascistizzazione delle università italiane. Due anni prima un altro Regio Decreto aveva richiesto ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime fascista; quello del 1933 rese addirittura obbligatoria l’iscrizione dei docenti al Partito Fascista, e stabilì che solo i cittadini italiani potessero insegnare in un’università italiana. Questi punti sono stati ovviamente abrogati in seguito, ma è rimasto in vigore appunto l’articolo 271, in cui si dichiara che
 

La lingua italiana è la lingua ufficiale dell'insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari.
 

Ora, al di là del clima non esattamente aperto in cui nasceva, l’articolo sembra chiarissimo – ma a guardarlo bene si capisce che non lo è affatto, e non c’è bisogno di spaccare il capello in quattro per inquadrare il problema: che cosa significa “lingua ufficiale dell’insegnamento”? Si parla della lingua che “si dichiara” di usare nell’insegnamento? O della lingua da usare “effettivamente” nell’insegnamento? Non ho particolari competenze giuridiche, ma a occhio l’espressione usata è talmente vaga da lasciare spazio legale a interpretazioni di ogni genere (incluse il “si dichiara che la lingua ufficiale di questo corso di studi è l’italiano; nell’erogazione, tuttavia, qualora al corso risultassero iscritti n. 2 o più studenti di nazionalità straniera, si potrà comunque usare la lingua inglese...”, eccetera eccetera).
 

Nella pratica, mi risulta poi che l’art. 271 nella sua interpretazione rigorista non sia troppo rispettato. Io non ne ho mai visto uno, ma ogni tanto mi vengono citati corsi svolti in inglese nelle facoltà scientifiche italiane, anche in presenza di soli studenti italiani (mentre sono di sicuro comuni i corsi in cui i materiali didattici, diapositive del docente comprese, sono completamente in lingua inglese). In altri tipi di facoltà il fenomeno mi sembra invece sconosciuto. Non credo che nessuno possa fornire percentuali esatte, ma, andando a occhio, i corsi tenuti in inglese secondo me sono oggi tra l’1% e l’1‰ del totale.
 

Come mai questi corsi? In un contesto di libertà didattica, il principale motivo per passare all’inglese è probabilmente: perché qualcuno ne sente il bisogno. I divieti invece esistono per combattere contro i bisogni; a volte per buone ragioni... e a volte, no. Il già citato appello, per esempio, in buona parte autodistrugge le proprie argomentazioni quando da un lato sostiene che, punto a), l’obbligo dell’inglese comprime la libertà di scelta di docenti e studenti, per poi subito dopo, al punto b), richiedere che non si faccia ricorso all’inglese in base al fascistissimo Regio Decreto... che, preso sul serio, sarebbe una ben più evidente compressione della libertà di scelta! Un conto è una singola università che decide che la propria didattica venga tenuta in una lingua, un conto uno Stato che decide che per tutti, comunque, dev’essere così.
 

L’appello chiede inoltre il ritiro in base ad altre due disposizioni:
 

1. il Decreto Ministeriale 270 del 2004, che all’articolo 7 però parla di “conoscenza obbligatoria” della lingua italiana (e di un’altra lingua dell’Unione Europea) per la sola laurea triennale, e non dice nulla di simile per la magistrale.
 

2. l’articolo 2, comma 2, lettera l) della legge 240 del 2010, che però prevede esplicitamente (ignorando del tutto l’articolo 271 del Regio Decreto) il “rafforzamento dell'internazionalizzazione anche attraverso (...) l'attivazione (...) di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera”.
 

Insomma, anche se questa è materia da giuristi, mi sembra molto difficile che l’iniziativa del Politecnico possa essere bocciata sulla base della legislazione attuale. Estendere l’uso dell’inglese ha però senso? Come in molte domande linguistiche, la risposta è: “dipende”, e spero di parlarne meglio in un prossimo post – o, meglio ancora, di poter fare un salto venerdì alla Crusca.
 

2 commenti:

  1. Ciao, sto scrivendo la mia tesi magistrale sull'internazionalizzazione delle università italiane e il contenuto del tuo post è molto interessante. Potresti indicarmi le fonti da cui provengono le informazioni che hai usato in modo da poterle citare nella mia tesi? In particolare dove hai trovato i dettagli riguardo le motivazioni dell'appello che chiedeva il ritiro della delibera?

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  2. Ciao, Claudia!

    Mi spiace per il ritardo in cui ho potuto pubblicare il tuo commento, ma ero in viaggio e l'avviso mi era sfuggito.

    Comunque, riprendo tutte le motivazioni dell'appello dall'appello stesso, che si trova nella pagina linkata (è presentato in basso, nei commenti: quando ho scritto il post non sono riuscito a trovarne il testo da nessun'altra parte).

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