mercoledì 31 ottobre 2012

L’italiano al Motomondiale (e dintorni)

 
La settimana scorsa, per rientrare a Hong Kong da Giava, ho preso due voli dell’economicissima Air Asia (un po’ la Ryanair d’Indocina), con cambio a Kuala Lumpur. All’aeroporto di Giacarta ho però notato che si imbarcavano diversi indonesiani con maglietta Ducati, e mi è venuto un sospetto... Un rapido controllo via Internet, e, sì: domenica c’era appunto il Motomondiale in Malesia. Il che significa il circuito di Sepang; il quale a sua volta si trova proprio accanto all’aeroporto di Kuala Lumpur, a sei chilometri di macchina dal terminal, senza niente in mezzo (mentre Kuala Lumpur in realtà è lontana 70 km).
 
Il Motomondiale vero e proprio cominciava alle quattro del pomeriggio, la stessa ora a cui dovevo reimbarcarmi per Hong Kong; però, la cosa che mi interessava era il contorno, più che la corsa. E in particolare il posto dell’italiano nei manifesti e nelle scritte, che da qualche parte in effetti compare, come qui ai piedi della foto dei Fratelli Benelli:


A quel punto, per un attacco di curiosità linguistica, ho deciso di dare un’occhiata. Mi sono fatto timbrare il passaporto e sono uscito dal terminal per calpestare, per la prima e forse ultima volta in vita mia, il suolo del Regno Federale di Malesia (apprezzando molto il fatto che gli italiani non abbiano bisogno, lì, di un visto d’ingresso). Le nuvole sembravano pronte a scaricare il finimondo, e in effetti, mentre ero sul bus navetta, una specie di torrente si è rovesciato su Sepang e dintorni. Per fortuna, però, non è durato molto, e sono riuscito ad andare in giro attorno al circuito senza bagnarmi troppo nelle mie tre ore di permanenza sul posto.
 
Risultato: sì, di marchi italiani (e di facce di Valentino Rossi) se ne vedeva una discreta quantità. Rari però, al di là dei nomi propri, i testi in italiano. L’ingresso principale si presentava così, con la Benelli in bella vista ma in inglese:


Il che conferma una mia impressione di massima. La conoscenza dell’Italia gira, in buona parte del mondo, anche attraverso lo sport. Però lo sport, a differenza della cucina, non si porta dietro molte parole italiane. Certo, in Siberia o in Indonesia si trova sempre qualcuno con cui commentare la situazione della Juventus o dell’Udinese (io lo faccio incrociando le dita e sparando osservazioni a casaccio, visto che le mie conoscenze dello sport italiano sono praticamente a zero), ma difficilmente questo richiede parole diverse dai nomi propri. Il lessico sportivo internazionale è saldamente a base inglese, o nazionalizzato, e lì la diffusione dell’italiano si ferma.
 
Certo, ogni tanto ci sono eccezioni. Come questa scritta, notata su un muro in una trafficata strada di Yogyakarta, che da sola meriterebbe un capitolo di un libro di linguistica:


Può darsi che una spiegazione articolata del nome di questo gruppo ultras si ritrovi da qualche parte nel sito ufficiale della Brigata, in Bahasa Indonesia. Ma di sicuro sono abbastanza indicativi i video in cui la Brigata fa il tricolore:

Watch more Pss Sleman videos on Frequency
 
Il marchio Ducati, al confronto, sembra roba per pochi intenditori.
 

martedì 30 ottobre 2012

Seminario su ontologie


Bene, sto per iniziare questo:

Date   : 30 Oct 2012 (Tue)
Time   : 3:00pm
Venue : Room GH803, 8/Floor, GH core,
            The Hong Kong Polytechnic University
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Title: Ontologies for the humanities

Speaker: Prof Mirko Tavosanis, University of Pisa

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Abstract:

The talk will describe the workings of a complex project for: a. creating ontologies from three corpus of Italian texts taken from different sectors of the humanities; b. refining the ontologies; c. using the ontologies to improve the relevance of query results through the use of a meta-search engine

Soprattutto, presenterò il lavoro fatto per il Firb Panorama.

sabato 27 ottobre 2012

Passaggio a Windows 8

 
Schermata d'avvio di Windows 8
Oggi ho dedicato buona parte della giornata a questioni informatiche. In primo luogo, ho dovuto prendermi un alimentatore nuovo per il mio vecchio HP Touchsmart 2: per fortuna Hong Kong è un ottimo posto per gestire problemi del genere, anche di sabato.
 
Poi ho installato Windows 8 Pro sul solito computer, che è dotato di touchscreen e di digitalizzatore attivo. Esperimento interessante, ma di sicuro con controindicazioni... Per esempio, una delle prime cose che ho notato è che adesso il digitalizzatore funziona molto peggio: dove la penna prima lasciava tratti ben definiti, adesso compaiono segni tremolanti e sgradevoli. Immagino sia soprattutto una questione di driver, che potrebbe migliorare nei prossimi giorni – ma di sicuro non è un buon segno per la gestione della scrittura.
 
In compenso, la schermata di avvio si è rivelata sorprendentemente adeguata al tocco. Non serve a molto, per carità... ma in diversi mesi di uso con Windows 7, non mi ero in pratica mai ritrovato a toccare lo schermo con le dita (anche se le funzioni collegate al tocco permettevano già di fare diverse operazioni senza bisogno di ricorrere a mouse o tastiera). Adesso usare il tocco viene naturale.
 
Certo, poi la stessa interfaccia è in molti punti poco intuitiva, e dà l’impressione di un prodotto ancora da rifinire. Tuttavia, almeno sono riuscito a usarla per alcuni compiti mediamente sofisticati, il che è forse più di quello che si poteva sperare!
 
Certo, in generale non ho gran simpatia per i sistemi Windows. Il motivo per cui ho continuato a usarne uno negli ultimi mesi è il supporto al riconoscimento della scrittura e a diverse vecchie applicazioni che mi tornano ancora utili, e che su sistemi Linux, per un motivo o per l’altro, girano male. Insomma, il mio legame con i sistemi Windows è molto riluttante... ma almeno, Windows 8 sembra adesso un sistema operativo con qualche possibilità di sviluppare un’interfaccia innovativa e più vicina alle mie esigenze proprio per quanto riguarda le interfacce di scrittura. Nelle prossime settimane vedremo se queste promesse matureranno, o se sarà meglio fare un passo indietro.
 

mercoledì 24 ottobre 2012

In treno ai Tropici

 
Terminate le presentazioni all’IIC, prima di riprendere l’aereo sono riuscito a fare anche una rapida visita di due giorni a Yogyakarta, nella zona centrale di Giava. Ovviamente, ci sono andato in treno! Ma otto ore di viaggio non sembrano certo una difficoltà, dopo averne passate circa 240 sulla linea Pisa – Hong Kong.
 
 
Il viaggio di andata (biglietto: € 9 circa, in classe “Bisnis” sul Fajar Utama Yogya) è stato una delle migliori esperienze ferroviarie della mia vita. Giava si è rivelata un’isola coperta di un verde brillante: banani, risaie, foreste... Soprattutto la sezione centrale del percorso, in cui il treno taglia il cuore dell’isola per passare dalla costa settentrionale a quella meridionale, è indicibilmente pittoresca. In sostanza, si serpeggia alle pendici dei vulcani della zona (poco visibili per via delle nuvole) e si attraversano campi e villaggi. Ogni stazioncina ha il suo capostazione che, in camicia bianca, cravatta nera e berretto rosso, sta fermo sull’attenti e controlla il passaggio del treno. Poche linee ferroviarie al mondo sono più pittoresche di questa!


Soprattutto, sul treno ho fatto la conoscenza con il mio vicino di posto, Anto Juniar, che si è rivelato gentilissimo e simpaticissimo. Anto si interessa anche di iniziative culturali, concerti e simili: può darsi che in futuro venga fuori qualche progetto interessante. Nel frattempo, ci siamo scambiati i rispettivi indirizzi su Twitter, abbiamo dato un’occhiata a questo blog dal suo tablet e, soprattutto, abbiamo fatto delle lunghissime e interessanti conversazioni. Se leggi anche questo post: ciao, Anto!


Anche il treno era di quelli che piacciono a me. Niente alta velocità, niente aria condizionata: finestrini aperti e soste frequenti. In altri climi sarebbe una tortura, ma lì anche i 30-35 gradi si sono rivelati sopportabilissimi. Il treno era dotato di una carrozza ristorante, ma non ci sono nemmeno mai andato: il sistema standard giavanese consiste nel far passare attendenti che prendono le ordinazioni e poi le consegnano direttamente al sedile (ho preso in questo modo il tè e il caffè migliori del viaggio). In aggiunta, poi, a ogni stazione sale sul treno una vera e propria folla di venditori – praticamente un mercato di paese, a un livello che non ho mai visto nemmeno in India.
 
Alla stazione di Purwokerto, su consiglio di Anto, ho ordinato un pecel a una delle venditrici. Verdure miste servite su una foglia di banano e generosamente coperte di burro di arachidi: probabilmente la cosa migliore che abbia mai mangiato in tutto il viaggio. A quel che sembra, è anche un piatto che deve essere preparato sul posto!

La preparazione del pecel

Anche la gente e i paesi di Giava fanno una splendida impressione. Una delle poche cose in controtendenza sono i gruppi di bambini a giro attorno ai binari quando dovrebbero essere a scuola; ma i gruppi sembrano piuttosto ridotti rispetto alle masse di ragazzi e ragazze in divisa scolastica che si vedono attraversare campi e strade a fine mattinata. Nei campi si vedono pochi attrezzi a motore, e alcuni villaggi sembrano piuttosto poveri, ma rispetto alle sterminate baraccopoli indiane questo è davvero un altro mondo.


Il ritorno, il giorno dopo, è stato meno soddisfacente: ho dovuto prendere il pretenzioso treno notturno Argo Dwipangga. E le ferrovie giavanesi purtroppo non dispongono di vagoni letto: solo di seggiolini reclinabili.


Per giunta, come temevo, sui treni di alto profilo l’aria condizionata viene tenuta a palla, a livello di congelamento. Quindi ho passato tutta la notte a rabbrividire e rigirarmi su un sedile reclinabile, cercando pateticamente di coprirmi non solo con la copertina leggera in dotazione, ma anche con tutto quello che avevo in valigia (come dice un proverbio cinese ripreso anche nel cap. 4 dei Briganti: “il freddo non si cura della moda”). Sicuramente si è trattato di uno spettacolo di cui personale e passeggeri del treno si ricorderanno a lungo... ma tant’è: alle 4.45 l’Argo Dwipangga, puntualissimo, arriva alla stazione di Jakarta Gambir e io, intontito ma riscaldato, mi reimmergo nell’aria tropicale e mi accomodo sul primo autobus per l’aeroporto.
 

lunedì 22 ottobre 2012

IIC Giacarta

 
Nella mia settimana indonesiana, il punto di riferimento fondamentale è stato l’Istituto Italiano di Cultura di Giacarta, dove sono stato gentilmente invitato dalla Direttrice, Giovanna Jatropelli. Si è trattato anche di una piacevole sorpresa come struttura, perché l’Istituto si trova in una bella villa coloniale, ristrutturata e ampliata, nel quartiere delle ambasciate a Menteng – probabilmente una delle migliori zone residenziali di Giacarta. All’interno ci sono aule, biblioteca a la sala conferenze in cui sono stati fatte le presentazioni della Settimana della Lingua Italiana nel mondo. Questa è appunto una foto ricordo con la Direttrice e il sottoscritto nel giardinetto d’ingresso:
 

Martedì 18 ho tenuto la mia presentazione sulle nuove tecnologie e sull’insegnamento dell’italiano. Ho dovuto parlare in inglese, perché il numero di presenti in grado di seguire una presentazione in italiano era molto ridotto... ma l’importante è stabilire la comunicazione! Spero poi che scoprire che adesso l’italiano si può studiare anche online spinga qualcuno a interessarsi (e, perché no, magari a comprare i corsi ICoN).
 
In aggiunta alla mia presentazione ho poi partecipato anche agli altri incontri organizzati dall’Istituto: di quello con Tanti Susilawati ho già parlato, ma è stata molto interessante anche una lunga presentazione della Commedia dell’Arte da parte di Giuseppe Confessa, console onorario d’Italia a Bali. Il console Confessa (“Pino”) parla sia balinese sia Bahasa Indonesia, e soprattutto è un professionista del teatro e ha alle spalle una lunga attività nel settore: non sono stato in grado di seguire buona parte della sua presentazione, tenuta in Bahasa Indonesia e intervallata da recitazione in costume da Pulcinella, ma il pubblico ha apprezzato enormemente.
 
Nell’assieme, poi, come dicevo, l’attività dell’Istituto è stata una piacevole sorpresa. Gli studenti di lingua, se ho capito bene, sono circa duecento a semestre, e il numero è sorprendentemente alto, visto che l’Indonesia non ha rapporti particolarmente stretti con l’Italia. Uno dei principali motivi di attrazione è senz’altro rappresentato dalla cucina italiana, molto popolare a Giacarta e dintorni (di fronte all’Istituto campeggia per esempio la gigantesca insegna di un “Izzi Pizza” preesistente, mi dicono, all'insediamento dello stesso Istituto), e i corsi di cucina organizzati dall’Istituto hanno un ottimo successo.
 

Aggiungo poi che l’Istituto ospita al primo piano un piccolo ma ottimo ristorante, il “Caffè Italia”, frequentato anche da parecchi esterni e gestito da indonesiani che hanno imparato direttamente da cuochi italiani. Per me è stata l’occasione di ritornare, dopo un mese e passa di viaggio, a mangiare una pastasciutta ben fatta... e riscoprire che, se la cucina italiana ha successo in tutto il mondo, non è solo questione di moda!
 

In generale, quindi, l’esperienza è stata splendida. Gianni Vezzoli ha curato ottimamente la parte organizzativa e amministrativa, mentre tra i dipendenti locali dell’Istituto è stato gentilissimo Eryanto Tamtomo, che parla un ottimo italiano e mi ha accompagnato in diversi spostamenti e in diverse conversazioni interessanti. A loro, oltre che alla Direttrice, vanno i miei ringraziamenti!
 

giovedì 18 ottobre 2012

Pulau Kotok

 
Ieri avevo una mezza giornata di pausa e ho deciso di andare a vedere le isole attorno a Giacarta. O meglio, la zona nota come Pulau Seribu (“le mille isole”), che parte da pochi chilometri dalla capitale ma si estende poi parecchio a nord, nel mare tra Giava e Sumatra. OK, quindi, programma: partire sul presto, fare un tuffo e rientrare nel primo pomeriggio all’Istituto Italiano di Cultura per sbrigare un po’ di faccende. E in effetti, arrivati sul posto si vede che un viaggio a Pulau Seribu ha il suo bel perché:


Comunque, la partenza sul presto si è concretizzata... ma per gli orari avrei dovuto mettermi subito sull’avviso, visto che, per esempio, il tassista che mi portava al motoscafo a un certo punto si è perso. E, come in India, in questi casi non serve né controllare la cartina (che è imprecisa, e che i conducenti comunque di solito non sanno decifrare) né chiedere in giro (perché nessuno sa nulla). Google Maps avrebbe aiutato... ma non sono riuscito a prendermi ancora una scheda indonesiana con un piano dati funzionante, e quindi, niente da fare.
 
Dopodiché, partenza in motoscafo. La mia destinazione è Pulau Kotok, un’isoletta trasformata in resort con una scogliera corallina di fronte. In teoria ci dovremmo arrivare in un’ora venti, in pratica ci vorranno quasi due ore e mezzo; ma la cosa non mi dispiace, perché ho un posto all’aperto. E poi, forse perché effettivamente il mare è un olio, o perché l’aria aperta fa bene, o perché mi sono abituato, o perché le pasticche indonesiane di dimenidrinato funzionano, mi ritrovo a non avere nemmeno il minimo accenno di mal di mare!
 

Comunque, le isole più vicine a Giacarta sono ancora sommerse dai rifiuti galleggianti; alcune sono state adattate a isole turistiche, ma non sembra davvero il caso di fermarsi a nuotare lì! Più ci si allontana, invece, più l’acqua si ripulisce, e quando il motoscafo rallenta e incomincia a depositare passeggeri sulle varie isolette siamo ormai arrivati in una zona niente male. Alcune isole hanno veri e propri villaggi, altre solo resort turistici, e intorno le onde si sollevano nei tratti in cui la barriera corallina rialza il fondo. Il Mar di Giava è avvolto dalla solita foschia tropicale, per cui lo sguardo spazia poco; però anche il sole è coperto di nuvole e io apprezzo.
 

A Pulau Kotok scopro di essere poi l’unico turista su tutta l’isola: i vantaggi del viaggiare nel fine settimana! Prima di tuffarmi faccio due passi per Kotok, che poi è in pratica un’isoletta corallina coperta di sabbia e palme da cocco, lunga meno di un chilometro e larga due-trecento metri; quindi l’ispezione è rapida. Dopodiché, sorpresa: mancano i turisti ma in effetti l’isola pullula di lucertoloni! “Nessuno mi aveva avvisato...” Simpatici animaletti lunghi quasi due metri (beh, buona parte è coda) che peseranno probabilmente, i più grossi, anche una ventina di chili. Una compagnia pittoresca e affascinante che si avvicina tranquillamente a sedie e tavoli da ristorante... che cerchino una grattatina?
 

In ogni caso, mi prendo pinne, maschera e boccaglio e mi tuffo. Pensavo di dovermi allontanare parecchio, invece alla fine rimarrò a sguazzare nel raggio di poche decine di metri dal pontile, cioè grosso modo qui:
 

Peccato non avere una macchina fotografica subacquea... Però scopro con sorpresa che una scogliera corallina al naturale assomiglia molto a un acquario ben organizzato! Fauna, alghe e coralli sembrano una vetrina (o da Nemo): la presenza più vistosa è fatta da pesciolini colorati che sembrano del tutto indifferenti alla mia presenza. Al di là di quelli, vedo solo qualche minuscola medusa trasparente – che per sicurezza scanso.
 
Dopo un paio d’ore, con la gola un po’ raschiata dal sale (non sono più abituato...), me ne torno a riva mentre uno scroscio equatoriale fa fuggire i pochi indonesiani che lavorano e pescano lì attorno – un po’ come i bagnanti a Viareggio in circostanze simili, e francamente pensavo che il modo di gestire gli acquazzoni qui fosse un po’ più evoluto! Vabbè, mi siedo, unico ospite, al tavolo del “ristorante” e sfoggio il mio Bahasa Indonesia d’emergenza: “Saya tidak mau makan daging, saya tidak mau makan ikan...” Vengo ricompensato con il miglior pranzo indonesiano e vegetariano di questi giorni.
 

Ritorno: partiamo regolarmente alle due, ma poi tutti gli orari saltano... e a Giacarta il tassista stavolta non perde la strada, ma rimane comunque imbottigliato nel traffico. L’appuntamento all’IIC salta. Dovrò recuperare la mattina dopo, cioè oggi – giornata che sarà dedicata a incontri e conferenze, e quindi, presumibilmente, con poca abbronzatura.
 

martedì 16 ottobre 2012

Giacarta, prime impressioni

 
Giacarta è una città complessa.
 
Arrivando di notte dall’aeroporto si incontra un traffico intenso e una barriera di grattacieli e centri commerciali: dalla Banca di Hong Kong e Shanghai (HSBC) al Carrefour. Luci sfavillanti, eccetera eccetera.
 
La mattina invece, appena uscito dalla porta dell’albergo, ho notato subito una cosa: l’odore. A livello del suolo, Giacarta è come l’India e io mi sono subito riproiettato all’indietro, alle mie lunghe camminate attraverso Delhi o Jaipur. Perfino i marciapiedi, in ampie zone del centro, sono gli stessi, fatti con lastre di cemento in  equilibrio precario che coprono (malamente) canali di scolo, e sono comunque occupati da venditori o gente che lavora nei negozi e nelle officinette intorno. Per cui in ogni caso tocca camminare per strada, e si spera di non venir presi pieni dalle macchine o dai motorini che arrivano di corsa alle spalle.
 
Comunque, procedere in questa situazione è interessante ma lento – soprattutto se, come me, si finisce in mezzo a una dimostrazione politica piena di poliziotti, bancarelle che regalano spuntini gratis, bandiere e canti:


Comunque sono arrivato a piedi fino al Monument Nasionalsi e poi, finita la visita, mi sono rassegnato a prendere la più celebre innovazione recente di Giacarta: la Busway. Il che significa che, in mancanza di metropolitana, per una speciale classe di autobus sono state create corsie a uso esclusivo e speciali piattaforme di accesso rialzate con ingresso a pagamento (secondo un modello che penso sia stato sperimentato per la prima volta una quindicina d’anni fa a Curitiba: ricordo di averne letto qualcosa, a suo tempo, su Scientific American). L’autobus ha anche il piano rialzato, quindi non ci si può salire dal livello del suolo: per entrare occorre essere su una piattaforma.
 
Funziona? Funzionicchia, perché poi anche le corsie esclusive vengono ogni tanto intasate dal traffico (meno caotico di quello indiano, ma non molto), e in alcuni casi le fermate rialzate sono letteralmente in mezzo al traffico... per uscirne occorre attraversare alla meglio anche stradoni di scorrimento a quattro corsie, facendo segno agli automobilisti perché ti scansino. Comunque, sembra sia questo, più che l’andare a piedi o in macchina, il modo più rapido per muoversi; e io ne ho approfittato per andare fino alla zona del vecchio porto. Anzi, sono sceso alla fermata prima e ho visitato il sudicio mercato cinese di Glodok; poi sono stato nel vecchio centro coloniale, ora ribattezzato piazza Fathillah, in cui vecchie case olandesi stanno letteralmente crollando a pezzi.
 
Giusto per strafare, mi sono fermato anche a prendere un po’ di riso (e due boccali di birra San Miguel, perché qui all’Equatore si suda a litri) al pretenzioso Cafe Batavia. Una specie di semivuota reliquia dei tempi coloniali imbottita di fotografie:


Il posto, devo dire, tira fuori i miei istinti peggiori. Mi ci vedo, lì, nelle vesti di bonario e paternalista amministratore olandese del 1938, o giù di lì, ad ascoltare jazz in una specie di oasi dal caos circostante... A invitare magari qualche “indigeno” a bere una birra (non la San Miguel, magari)... e a sentirmi molto nobile per questo... molto responsabile, molto rivolto al futuro...
 
Bah. La strada per il porto prosegue da lì lungo le acque fetide del Kali Besar, il canale principale della vecchia Giacarta. Oggi è purtroppo ridotto un enorme canale di scolo, che andando al porto si può attraversare su diversi ponti, tra cui quello vecchio, olandese, del mercato dei polli:

 
Per fortuna al vecchio porto di Sunda Kelapa i barconi in legno (pinisi), ormeggiati di punta per quelli che sembrano chilometri e chilometri, ritirano su il morale:


Finita la camminata, vado all'IIC per partecipare alla presentazione del primo manuale per lo studio dell'italiano scritto in Bahasa Indonesia: Mamma mia! Italia. Mudahnya Belajar Bahasa di Tanti Susilawati (TransMedia, Giacarta, 2012; ISBN 978-979-799-207-1, 167 pp., Rp 29.000). Qui sono di nuovo di nuovo nel mio ambiente, finalmente:


 

sabato 13 ottobre 2012

ICoN: i nuovi corsi di lingua italiana

 
La prossima settimana sarà la dodicesima Settimana della Lingua Italiana nel mondo, che prevede una nutrita serie di iniziative per la diffusione della lingua (anche se il sito ufficiale dell’ente promotore, cioè il Ministero degli Affari Esteri, curiosamente, non riporta indicazioni aggiornate). Io sono qui in Asia orientale anche per dare il mio piccolo contributo all’iniziativa, e quindi domenica volerò all’Istituto Italiano di Cultura di Giacarta (via Kuala Lumpur) per fare una presentazione sul rapporto tra insegnamento della lingua italiana e nuove tecnologie. Spero di approfittarne per girare un po’ per Giava – e di avere l’occasione di scrivere qualche post da lì!
 
Oltre alle azioni in presenza, però, il mio lavoro per ICoN e per la diffusione dell’italiano è al momento dedicato in buona parte alle azioni a distanza. In particolare, dall’inizio di settembre, con ICoN abbiamo iniziato a promuovere i nostri nuovissimi corsi di italiano: uno per il livello A1 (“base”) e uno per il livello A2 (“principiante”) del Quadro Comune Europeo.
 
I corsi sono normalmente in vendita in autoapprendimento a 150 euro. Per la Settimana della Lingua Italiana nel mondo li offriremo però, scontati, a 120 euro. In più, faremo una piccola campagna promozionale che in queste settimane ho cercato di coordinare al meglio attraverso una montagna di messaggi di posta elettronica e di conversazioni via Skype. Spero che molti approfittino dell’occasione per acquistare...
 
Di sicuro, ho il forte sospetto che nei prossimi mesi dovrò dedicare buona parte del mio tempo alla commercializzazione di questi corsi, e di quelli di prossima uscita (entro fine anno sarà disponibile anche il B1, e così via). Compito non facile – ma l’organizzazione ICoN è fatta di persone molto brave e competenti, e i corsi sono di alto livello, quindi con un po’ di fortuna per la prossima Settimana della Lingua Italiana avremo qualche risultato interessante da presentare.
 

giovedì 11 ottobre 2012

Dizionari e app per caratteri

 
I caratteri della scrittura cinese sembrano, in isolamento, assolutamente indecifrabili per chi non li conosce. Nella pratica, però... è esattamente così. Come si fa a capire che cosa vuol dire un determinato carattere? La prima soluzione è: chiedere a chi lo sa. La seconda: imparare.
 
Tuttavia, non sempre c’è a portata di mano qualche persona gentile (di solito, cinese) che legga i caratteri al posto di qualcun altro, e per imparare ci vuole letteralmente tutta la vita. Lunedì scorso mi sono quindi comprato il mio primo dizionario cinese: il Concise Chinese Dictionary di Li Dong (Tuttle, Tokyo, Rutland, Singapore, 2009, 710 pp. ISBN 978-0-8048-3773-6, HK$ 140), con traduzioni cinese-inglese e viceversa. È molto elementare e compatto, ma si è già rivelato utile.
 
Il modo in cui funzionano poi i dizionari di cinese è piuttosto interessante. Il mio, per esempio, è costituito da una grossa sezione alfabetica in cui la parola cinese è presentata scritta in pinyin, cioè in caratteri dell’alfabeto latino, e da questo punto di vista, si può dire che funzioni come il dizionario di qualunque lingua europea. Nella civiltà cinese, però, l’uso della traslitterazione è molto marginale, quindi è raro trovare testi scritti in pinyin: quel che si trova sono testi scritti in caratteri.
 
Quindi, come si passa da caratteri a pinyin? Nel caso specifico, ci si basa sui componenti dei caratteri e si usano gli indici. I caratteri cinesi includono circa duecento (le classificazioni variano) radicali, cioè elementi base riciclati in più caratteri, e questi radicali sono usati da migliaia di anni proprio per scopi di ordinamento e classificazione delle parole.
 
Va tenuto poi presente che un radicale (o un carattere) viene scritto con un numero predefinito di tratti di pennello. Un carattere può essere disegnato con un numero di tratti che va da 1 fino a 23, e un radicale con un numero di tratti che va da 1 fino a 12 – nel mio dizionario, almeno (altri dizionari includono anche caratteri e radicali con un numero più alto di tratti). Quindi, la prima cosa da fare è individuare un radicale all’interno del carattere che interessa, contare i tratti da cui è composto... il che è abbastanza facile per chi ha un po’ di familiarità con il sistema... e poi andare a vedere la lista di radicali con quel numero di tratti.
 

Una volta individuato il radicale, si guarda il numero scritto accanto: per esempio, “102”. A quel punto si va a vedere il numero 102 di un’altra lista, ordinata per radicali, che presenta dopo ogni radicale tutti i caratteri che lo contengono. Una volta individuato il carattere, accanto compare la trascrizione in pinyin della parola che lo contiene, e a quel punto si può finalmente consultare il dizionario vero e proprio.
 
Sembra complicato? Va benissimo, perché lo è.
 
A questo punto però entrano in scena le app dei moderni cellulari. Ho scoperto rapidamente, infatti, che il problema meccanico di individuare il carattere viene oggi gestito in modi molto intelligenti. Uno è quello di, semplicemente, disegnare il carattere sullo schermo, con il dito, all’interno di un’app dedicata. Questo fa comparire i caratteri più simili al disegno, e una volta individuato quello giusto, il gioco è fatto.
 
Una soluzione ancora più radicale è quella di Pleco, un’applicazione-contenitore scaricabile gratuitamente dall’App Store al cui interno si possono poi attivare, a prezzi piuttosto elevati, diversi moduli. Uno di essi è un programma di OCR ($ 9,99 nella versione “Educational”) che prende il controllo della videocamera del telefono: basta quindi inquadrare il carattere o i caratteri che si vogliono leggere, e lo schermo mostra una rapidissima successione di alternative. Dopodiché, se si inquadra quella giusta, si può fermare il tutto – e il display mostra non solo il carattere, ma anche la trascrizione in pinyin e la traduzione inglese della parola (o delle parole):

 
Chi ha già una buona familiarità con i caratteri cinesi mi dice che il modo più rapido per ricostruire i caratteri è tracciarli a mano. Usare la videocamera, però, dà tutta un’altra sensazione... quella di essere, in effetti, nel 2012!
 

domenica 7 ottobre 2012

La gita a Lamma

 
Ieri sera c’era la cena del gruppo MULTI / ospiti stranieri del Politecnico. Oggettivamente, il vino non è mancato... e stamattina (domenica) mi sono risvegliato intontito. Postumi da Chianti? Com’è ovvio, in un caso del genere la cosa più ragionevola da fare è prendere il ballonzolante minibus della residenza, andare a Tsim Sha Tsui, prendere l’ancor più ballonzolante Star Ferry per Central Hong Kong, e da lì imbarcarsi sul traghetto per l’isola di Lamma, al cui confronto gli altri mezzi di trasporto citati sono piantati sulla roccia.
 
Stranamente, però, la cosa ha funzionato meglio di come si poteva immaginare, anche se il viaggio d’andata non è stato privo di momenti problematici. Tra l’altro, la rotta per Lamma è quella su cui c’è stato l’incidente d’inizio settimana: ai moli ci sono fasci di fiori per le vittime, e inviti della polizia perché eventuali testimoni si facciano vivi. Lasciandosi Central e Kowloon alle spalle, si capisce anche come sia potuto succedere – tutta la zona è piena di enormi portacointainer all’ancora o in movimento (una marchiata ITALIA, un’altra HYUNDAI...) , navi ormeggiate, traghetti che vanno e vengono, motoscafi lanciati a tutta velocità. Il traghetto si infila quindi in lunghe serie di scie, con immensa gioia mia e del mio stomaco.

 
Comunque, dopo mezz’ora di navigazione si arriva a Lamma. Isola assolutamente turistica, ma meno di quel che ci si potrebbe aspettare da un posto che si trova direttamente di fronte alle pareti di grattacieli di Aberdeen. La passeggiata classica, dicono le guide, è quella che in un’oretta e mezzo porta da Yung Shue Wan, il porto in cui sono sbarcato, fino a Sok Kwu Wan, sull’altro lato dell’isola, dove si può prendere un altro traghetto per tornare a Central. Entrambi i villaggi hanno una strada principale che è una lunga successione di ristoranti di pesce e negozietti:


Tuttavia, a Yung Shue Wan io tiro dritto, vado a visitare il misero tempietto “storico” di Tin Hau, mi inerpico per qualche strada laterale e alla fine mi ritrovo fuori. Il sentiero classico è oggi chiamato “Family trail” ed è, ahimè, completamente cementato. Appena fuori da Yung She Wan scopro però che lo percorre un numero stranamente ridotto di turisti, quasi tutti occidentali. Ogni tanto, qualche rara bicicletta (su Lamma i veicoli a motore sono vietati); e viceversa, tantissime farfalle – la zona di Hong Kong in generale ha le farfalle più grandi e colorate di qualunque altro posto che abbia mai visitato.


Comunque, l’idea del viaggio per mare si è rivelata funzionale, e dopo pochi minuti di strada mi accorgo che nausea e mal di testa sono spariti. Il sentiero porta rapidamente alla spiaggia di Hung Shing Yeh, ma è ancora presto e la spiaggia, deserta, è direttamente di fronte a un’immensa centrale elettrica a carbone (che incombe anche sul resto dell’isola, ma che qui in pratica forma metà del paesaggio). Quindi tiro dritto lungo il sentiero, che si inerpica tra le colline e ogni tanto offre scorci panoramici niente male:


Alla fine arrivo alla spiaggia di Lo So Shing, anch’essa deserta nonostante sia piacevolmente ombreggiata da alberi che arrivano fino sulla riva (la voce di Wikipedia conferma che lo spopolamento non è un fatto occasionale). L’attrezzatura fa invidia a qualunque sistemazione italiana: subito sopra la spiaggia ci sono bagni puliti, cabine per infilarsi il costume, docce, pronto soccorso e postazione in cemento armato per il bagnino che sorveglia la zona. Tutto, ovviamente, gratis. Ma tutta questa organizzazione ha peraltro, sembra, delle contropartite: la zona balneabile è minima, delimitata da boe; una piattaforma piazzata a un centinaio di metri dalla riva riporta il divieto di tuffarsi e immergersi; e una grossa rete antisquali sigilla la baia. Il tutto sotto lo sguardo di un secondo bagnino che, piazzato sotto un ombrellone su un patino alla viareggina, arranca da un punto all’altro della zona balneabile per tenere d’occhio i bagnanti.
 
I quali bagnanti, a un certo punto, sono solo io: la spiaggia continua per un bel pezzo a essere deserta, a parte qualche turista straniero che ogni tanto fa capolino tra gli alberi. Beh, io mi spoglio e mi tuffo nelle tiepide onde del Mar Cinese Meridionale. L’acqua non è eccezionale, ed è piatta quasi come quella di una piscina, ma almeno è salata e senza cloro... La sabbia grossa della spiaggia va giù in un istante, e a cinque metri dalla riva già non si tocca più. La rete antisquali evidentemente funziona: non incontro creature pericolose (anche se ogni tanto qualcosa di strano... micromeduse?... mi dà delle strinate alle braccia), e alla fine mi stendo soddisfatto sulla riva ad asciugarmi e a leggere il Sunday Morning Post:


Sul giornale trovo tra l’altro un articolo che spiega come a Hong Kong sarebbe necessario insegnare a nuotare alla gente, per evitare che incidenti come quello d’inizio settimana si trasformino in stragi. Solo un abitante di Hong Kong su cinque sa nuotare, dice l’articolo; e questo in effetti spiega un po’ il vuoto della spiaggia, che continua comunque a lasciarmi perplesso... al punto che quando arriva una comitiva di chiassosi ragazzini di Hong Kong, sono perfino contento.

Da lì in poi, la strada porta in pochi minuti a Sok Kwu Wan, attraverso paludi, canali e grotte in cui a suo tempo, sembra, i giapponesi avevano preparato basi di barchini-kamikaze (ma più probabilmente, semplici depositi di materiali), in attesa di uno sbarco che non c’è mai stato. Anziane signore con cappello conico curano qua e là qualche orto:


Evitando giapponesi, comitive e gite scolastiche, alla fine rientro pacificamente da Sok Kwu Wan a Central con il traghetto delle 16.05; e poi a casa, a riguardare un documento ICoN accanto alla piscina, a mandar via le lettere più urgenti e a riflettere su una città di mare in cui ben pochi, sembra, vanno anche solo in spiaggia.  

venerdì 5 ottobre 2012

In treno con il Kindle

 
Birra, Kindle e verdurine nel deserto del Gobi: cose che danno soddisfazione
Le mie due settimane di viaggio sono state anche l’occasione per mettere alla prova il vecchio Kindle che ho in dotazione dalla Facoltà di Lettere e Filosofia (e che nel frattempo, chiuse in Italia le Facoltà, è rimasto orfano: dovrò trovare un modo per registrarlo con il nuovo Dipartimento cui afferisco). Per fortuna si tratta di un modello 3G, e come tale ha la connessione gratuita all’Amazon Store e a Wikipedia in lingua inglese da qualunque parte del mondo...
 
Beh, quasi qualunque parte. In realtà la connessione ha smesso di funzionare in Bielorussia, è ripresa in Russia, ma si è interrotta di nuovo più o meno all’altezza del lago Bajkal (nella regione dei buriati). In Mongolia non ha mai funzionato. Si è riattivata al confine con la Cina, e da lì in poi non ha più avuto problemi. Globale con qualche lacuna, insomma – ma, visti i costi del normale roaming internazionale, non ci si può lamentare!
 
In sostanza, quindi, con un Kindle 3G è possibile comprare e-book da Amazon da buona parte del pianeta esattamente come se ci si trovasse in Italia. Per me, si è rivelato un sistema meraviglioso per evitare di sovraccaricarmi di libri... tra Kindle e cavetto di ricarica, il peso e l’ingombro sono meno di quelli di un singolo tascabile. Considerato che mi portavo dietro la roba per tre mesi in climi caldi più un po’ di materiale di sopravvivenza per climi freddi, è stata un’ottima scelta.
 
Certo, durante il viaggio ho soprattutto tentato di studiare il cinese. Ho fatto conversazione con i miei compagni di viaggio. Ho guardato un sacco fuori dal finestrino. Ho cercato di lavorare a distanza. E però, anche così, di tempo per la lettura amena ne è rimasto molto. Avevo dietro due libri cartacei, arrivati in regalo per il viaggio e apprezzatissimi. Finiti quelli, sono riuscito a far fuori sul Kindle:
 
  • Ghost train to the eastern star di Paul Theroux: una serie di viaggi in treno attraverso l’Asia compiuti dall’autore nel 2006, più di trent’anni dopo la pubblicazione del suo famoso libro di viaggi The great railway bazaar Molto adatto alle circostanze – include ovviamente un viaggio con la Transiberiana, dipinta in modo un po’ più deprimente di come la Transmongolica è sembrata a me.   
  • Bêtes, hommes et dieux di Ferdynand Ossendowski: la traduzione francese (l’originale inglese non era disponibile su Amazon) di Beasts, men and gods, un resoconto che l’autore, antibolscevico, pubblicò in America dopo esser fuggito dalla Russia via Mongolia nel 1921. Il grosso del racconto si incentra sul tempo trascorso in Mongolia, ed è stato un’ottima occasione per valutare somiglianze e differenze con quel che vedevo... Tanto per dirne una, è stato sorprendente notare che già nel 1921 i mongoli avevano capito che, stretti tra Russia e Cina, l’unica loro speranza di indipendenza era appoggiarsi agli Stati Uniti: dal 1991 in poi hanno fatto effettivamente così.  
  • Una barca nel bosco di Paola Mastrocola: il viaggio di un ragazzo attraverso la scuola superiore italiana, con appendici sulla sua vita universitaria e post-laurea. Le opere “saggistiche” di Paola Mastrocola sono semplicemente odiose; la narrativa ha altre regole, per fortuna, e così il romanzo, anche se con alti e bassi, si fa leggere.  
  • Redshirts di John Scalzi: la storia di come i membri dell’equipaggio di un’astronave simil-Star Trek si accorgono che nelle missioni pericolose qualche sfortunato ci lascia sempre la pelle, mentre un gruppetto di ufficiali se la cava sempre senza danni... e si rendono così conto di essere in realtà le comparse, sacrificabili, di una serie televisiva. Il prologo è divertentissimo; il resto del romanzo è meno geniale, ma si fa comunque leggere.  
  • The rapture of the nerds di Cory Doctorow e Charles Stross: la vita di un tecnofobo che, in un mondo post-singolarità, si trova coinvolto in alcuni assurdi complotti e deve poi giustificare alle onnipotenti civiltà aliene il diritto della razza umana a sopravvivere. In effetti, sembra più Stross che Doctorow, ma questo secondo me non è un male! 
  • Infine, Solaris rising: the new Solaris book of Science fiction, a cura di Ian Whates: raccolta di racconti di fantascienza, in buona parte britannici, di livello non eccezionale ma con alcuni punti validi. Questo libro l’avevo già un po’ spiluccato anche prima della partenza, e devo dire che ho trovato un po’ deprimente vedere come molti dei racconti inclusi avrebbero potuto benissimo essere stampati nel 1975, o giù di lì.
 Altra cosa notevole è che tutto questo assieme di letture, assieme a diverse consultazioni di guide turistiche (molto problematiche! Ma di questo forse parlerò a parte...) e di Wikipedia, l’ho fatto con due o tre ricariche in totale. Avessi cercato di fare lo stesso sull’iPhone, avrei dovuto passare metà tempo collegato alla presa di corrente. Apparentemente, per un viaggio come il mio, né la carta né altri apparecchi elettronici possono offrire un’esperienza migliore rispetto a quella dei Kindle.
 

mercoledì 3 ottobre 2012

La Festa di Metà autunno

 
Venerdì scorso ho incontrato il preside della Faculty of Humanities e alcuni colleghi: ho fatto i primi piani pratici di lavoro e ho ricevuto le chiavi del mio ufficio – decisamente migliore di qualunque sistemazione abbia mai avuto a Pisa. Dopodiché, il mio primo fine settimana a Hong Kong era anche la Festa di Metà autunno (secondo il calendario cinese, ovviamente). La ricorrenza è in realtà una festa nazionale cinese, importata a Hong Kong nel 1997, e comporta, in aggiunta al fine settimana, due giorni di vacanza (il lunedì e il martedì). Rinviata la ripresa delle attività al mercoledì, io ne ho approfittato per girare un po’ e fare qualche visita.
 
Sabato sera ho fatto una cosa tranquilla: sono stato a una cena di colleghi del programma Erasmus MULTI e dintorni in uno dei ristoranti del Politecnico. Domenica sera, invece, ho preso un traghetto che parte vicino al mio alloggio e sono andato sull’isola di Hong Kong, nel quartiere di Tin Hau, a vedere la Festa delle Lanterne e la Danza del Drago di fuoco. Quest’ultima è una cerimonia del quartiere durante la quale, spiegano le brochure, i residenti e gli ex residenti portano in processione per le stradine di quello che era un tempo un villaggio di pescatori (e oggi è una giungla di casermoni) un “drago di fuoco”: un lungo rotolo di erbe locali su cui sono infissi centinaia di bastoncini d’incenso accesi.
 

All’inizio mi ero preoccupato: la folla avrebbe reso impossibile vedere la processione? Tempo di arrivare in zona e mi sono reso conto che la cosa difficile non è trovare il Drago di Fuoco, ma sfuggirgli. Apparentemente, buona parte del divertimento dei portatori consiste nell’andare addosso ai passanti, caricandoli e scuotendo sulla loro testa l’incenso in fiamme!
 

Tutto sommato mi è andata bene: i tizzoncini roventi mi hanno prodotto solo un buco di pochi millimetri nello zaino e un’ustione ridotta sulla pianta del piede sinistro (se ne è infilato uno tra il piede e la suola del sandalo...). Colpa mia, che in un momento di pausa mi ero distratto con un gelato “Moon Cake” preparato con l’azoto liquido. La cui preparazione del gelato è peraltro più spettacolare del sapore...
 

Ammaestrato dall’esperienza, sono poi passato a vedere il più tranquillo Festival delle Lanterne, nello stadio Victoria. Troppo organizzato e commerciale, d’accordo, ma una buona alternativa alle microustioni. La parte più affollata era l’enorme “Lantern Wonderland” sponsorizzato dalla salsa di soia Lee Kum Kee. Un bel colpo d’occhio, in effetti:
 

Ritenendo di aver dato il giusto per i festival di Hong Kong, il lunedì ho riattraversato il porto, questa volta sul noto Star Ferry, e, attraverso l’altrettanto noto sistema di scale mobili (“Escalators”) ho cominciato la salita al Peak, il punto più alto dell’isola di Hong Kong. Salita ripidissima, in effetti... Poi, in cima, ho fatto il circuito di tre chilometri attorno al Peak, in mezzo alla folla di residenti e turisti. Al ritorno mi sono rifatto un po’ in un pretenzioso ristorante vegetariano lungo le scale mobili, e ho visto il pomeriggio festivo dell’isola: ressa all’Apple Store, decine di donne (filippine?) stese / chiuse in cartoni, lungo le passerelle pedonali, e impegnate a telefonare, giocare a carte, mangiare, scrivere al computer...

 
La sera c’è stato lo spettacolo impressionante dei fuochi artificiali lungo il braccio di mare tra isola e terraferma, tra due pareti di grattacieli. Io un po’ li ho visti da fuori, un po’ dalla finestra dell’alloggio e un po’ in televisione... ma nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, una collisione tra battelli ha prodotto il peggior disastro marittimo della storia recente di Hong Kong. Io ne sono rimasto bellamente all’oscuro finché il giorno dopo, alle otto ora italiana, mi ha telefonato mia madre che si era inquietata guardando il telegiornale del mattino! Qui a Hong Kong erano le due, e in effetti ero a pranzo con un vecchio amico di famiglia, Lawrence Lui, al ristorante di una delle altre classiche mete turistiche, l’Ippodromo (“Racecourse”).
 
E oggi, al lavoro.

lunedì 1 ottobre 2012

Da Pechino a Hong Kong

 
Il paesaggio che si vede arrivando a Pechino dalla Mongolia è spettacolare. Per buona parte della mattinata, il treno è passato attraverso montagne, torrenti e dighe (oltre a una discreta quantità di città industriali). In teoria da alcuni punti del lungo percorso si dovrebbe vedere anche la Grande muraglia, ma fin da subito ho fatto la conoscenza con la foschia cinese, che apparentemente si ritrova ovunque uguale.
 
 
Il paesaggio che si vede partendo da Pechino verso il sud è, viceversa, terribilmente monotono. Grandi città, tutte simili una all’altra; pianura piatta; campi di mais.
 
Devo dire poi che io sono partito già maldisposto. Un po’ per non aver trovato posto sui treni per Shanghai e Xi’an; e un po’ per la noia di dover essere in stazione novanta minuti prima della partenza, per i controlli doganali – il treno T 97 che ho preso in pratica non fa fermate, e quindi il passaporto di chi è diretto a Hong Kong viene controllato direttamente a Pechino, assieme ai bagagli.
 
Perfino con i compagni di scompartimento, poteva andarmi meglio: un distinto cinese di Hong Kong sulla mezza età, anche simpatico, ma con un inglese un po’ limitato e che ha passato buona parte del viaggio a guardarsi sul computer telefilm d’azione in cantonese; e, nei letti al piano terra, due ragazzine danesi (credo) che hanno passato il tempo a dormire e a leggere una guida della Thailandia. Per risparmiare due soldi, avevo prenotato infatti uno dei letti in alto, che in Cina costano un po’ meno rispetto ai più comodi posti in basso. Risultato: mi sono trovato per buona parte del viaggio confinato al piano di sopra.
 
A infastidirmi ulteriormente è stata l’impossibilità di trovare piatti senza carne nella carrozza ristorante. Anzi, quando ci sono stato, ho ordinato un piatto di “fried f...s” (le lettere centrali sul menu in inglese erano illeggibili), basandomi sulla foto di accompagnamento:


Risultato: mi sono ritrovato davanti un piatto di rane fritte, con accompagnamento di sedani. Per un po’ ci ho anche provato, ma quel mix di minuscoli ossicini e spine dorsali tritate non è proprio il mio genere.
 

La mattina dopo, in compenso, mi è passato il malumore. Il risveglio ha mostrato già il paesaggio della Cina del sud: risaie, montagne, laghi...


Una decente colazione mi ha un po’ riconciliato con le ferrovie cinesi, oltre che con la Cina.
 
E alla fine, a ora di pranzo sono arrivato a Hong Kong. Visto che il mio alloggio non era ancora disponibile, sono andato a rintanarmi in un’economica guesthouse di Nathan Road (di quelle catalogate tra “folklore locale” e “trappole in caso di incendio”, e ho passato pomeriggio e sera a riallinearmi con la posta con la connessione wifi, finalmente funzionante in pieno e senza blocchi da censura, o da albergo di lusso.


Tempo totale di viaggio: due settimane esatte, inclusi cinque pernottamenti “a terra” anziché in treno. La Cina è più vicina di quanto si pensa, e il mondo più piccolo: magari la prossima volta varrebbe la pena di provare a piedi, o in bicicletta...?