lunedì 5 novembre 2012

Blair, Too much to know

 
Ann M. Blair, Too much to know
Nel discorso politico e intellettuale di oggi c’è, agli occhi del ricercatore, una quantità impressionante di luoghi comuni sbagliati sul modo in cui gli esseri umani gestiscono l’informazione. E nemmeno “sbagliati” di poco, o in aree irrilevanti. Per esempio, il programma del Ministero dell’Istruzione italiano per la sostituzione dei libri scolastici con e-book sposterebbe un bel po’ di soldi e potrebbe avere conseguenze terribili sull’apprendimento, se fosse applicato così come descritto. Uno di questi luoghi comuni sbagliati è poi addirittura un presupposto di base per la retorica contemporanea: è il luogo comune secondo cui oggi siamo sommersi dall’informazione, e questa è una situazione completamente nuova nella storia del mondo…
 
Too much to know: managing scholarly information before the modern age, scritto da una docente di Harvard, Ann M. Blair (New Haven e Londra, Yale University Press, 2011; versione Kindle disponbile a € 15,62, ASIN B004G5Z780), mostra come la ricerca storica possa dire cose importanti su argomenti del genere. Non solo: cose che nessun altro tipo di conoscenza al mondo può oggi fornire. Per questo motivo, un libro dedicato in buona parte al modo in cui venivano assemblate e consultate alcune opere di consultazione del Rinascimento e della prima età moderna si rivela pieno di informazioni non solo affascinanti di per sé (almeno per chi si interessa dell’argomento…) ma utili in senso molto ampio.
 
Il punto di partenza è che, come nota l’autrice, lo sgomento per il diluvio di informazioni non è affatto una novità contemporanea. In Europa diventa un luogo comune, anzi, tra l’età umanistica e il Rinascimento; ma “the experience of overload was not new or unique to Renaissance Europe… even a briev nonspecialist inquiry turns up multiple premodern contexts in which the learned articulated a perception akin to overload and devised methods of information management that are still recognizable today” (loc. 326).
 
Già. E del resto, perché il problema dovrebbe essere nuovo, nelle culture dotate di scrittura? Anche limitando il discorso all’informazione scritta, come fa questo libro (ma l’informazione non-scritta presente nel mondo è comunque in grado di sommergere chiunque, sempre…), è ovvio che le cose non stanno così. Nell’età antica o nel Medioevo, nel mondo mediterraneo o in Cina, la quantità di libri disponibili nei centri principali è sempre stata superiore alle capacità di assorbimento del singolo. Certo, in qualche contesto ci si trovava a poter esaurire rapidamente tutto ciò che si era in grado di leggere… ma ciò accade ancora oggi. La differenza sta nel fatto che necessità e possibilità di accesso sono diventate più comuni, non al fatto che sono “nuove”.
 
Una volta sgombrato il campo da questo curioso pregiudizio, Ann Blair dedica il primo capitolo del libro a trattare di Information management in comparative perspective. Il che significa intanto parlare del Rinascimento europeo, con l’idea di base che, più che le scoperte geografiche o la riscoperta di libri antichi o la nascita della stampa, a produrre in quell’epoca un nuovo atteggiamento nei confronti dell’informazione sia stato soprattutto un nuovo clima culturale. E in secondo luogo significa descrivere la situazione al di fuori dell’Europa occidentale, cioè in particolare nell’Impero bizantino, nel mondo islamico e in Cina.
 
Questa parte del capitolo è interessantissima, ma viene al tempo stesso presentata riassumendo (in modo molto utile) bibliografia esistente. L’autrice entra più nel suo con il secondo capitolo, Note-taking as information management. Qui viene descritta la storia degli appunti personali, che oggi sono soprattutto “idiosyncratic” mentre agli inizi dell’età moderna, e fino al Settecento, seguivano “a set of subject headings that pedagogical practices and printed reference works helped to standardize” (loc. 1408 e 2031). In sostanza, quindi, gli studiosi copiavano il materiale e lo archiviavano sotto intestazioni diverse a seconda dell’argomento. Poi, anche se ci sono molte eccezioni a questo processo (una delle più notevoli sembra essere Tommaso d’Aquino, loc. 1858), al momento di scrivere qualcosa di nuovo gli appunti venivano tirati fuori in base all’argomento e di lì si partiva. Il processo venne esplicitamente codificato in alcuni libri di metà Cinquecento, e
 
Surviving notes indicate that the advice of pedagogues like Sacchini and Drexel corresponded in a general way to existing practices. Sacchini’s method of note-taking was precisely illustrated, for example, by an unusually complete set of annotated books and student notebooks owned by Duke Augustus of Brunswick (1579–1666) (loc. 1916).
 
La gestione di questi appunti richiedeva poi spesso la loro indicizzazione. Processo lungo e costoso, che a volte, per i ricchi, si svolgeva grazie ad aiutanti, ma che soprattutto a volte si concludeva nella realizzazione di veri e propri libri a stampa composti di “appunti già fatti”.
 
Con questo si entra nel cap. 3, Reference genres and their finding devices. Il più vistoso genere di libro di “appunti già fatti” è naturalmente il dizionario, e Ann Blair insiste molto sul successo di uno dei primi e più famosi di questi prodotti, quello di Ambrogio Calepino, la cui prima edizione nel 1502 fu seguita “by 165 editions in the sixteenth century, 32 in the seventeenth, and a further 13 in the eighteenth” (loc. 2640). Ma all’epoca incontrarono fortuna anche generi oggi non più in uso, come i florilegi, a cominciare dalla Polyanthea di Domenico Nani Mirabelli, “first published in 1503, and in at least forty-four editions down to 1686, with successive additions that increased the size of the work sixfold from some 430,000 words in 1503 to more than 2.5 million by 1619” (loc. 2721). Oppure le miscellanee, o compilazioni come il Theatrum vitae humanae pubblicato nel 1565 da Theodor Zwinger e che nel 1631
 
formed the core of a massive sequel, the Magnum theatrum vitae humanae, compiled by the Flemish cleric Laurentius Beyerlinck in seven folio volumes totaling 7,400 pages and more than 10 million words, plus an eighth index volume. This largest of all enyclopedic compilations before the eighteenth century featured long articles (up to 100 folio pages in some cases) under topical headings arranged alphabetically (loc. 2881).
 
Altri problemi descritti in questo capitolo riguardano invece l’ordine di presentazione dei materiali, la gestione degli indici, l’uso di diagrammi , il formato dei volumi, la creazione di bibliografie e cataloghi, le recensioni… ognuno di questi meriterebbe un discorso a parte!
 
Il quarto capitolo, Compilers, their motivations and methods, ritorna in parte sul materiale già visto andando a parlare delle persone che effettivamente realizzavano compilazioni. In alcuni casi, allora come oggi, questa era una vocazione; per esempio, il tedesco Vincent Placcius “recounted that at age eight, ‘driven by natural ardor for excerpting,’ he would ask his nurse for books in order to copy them out in alphabetical order” (loc. 3906)! Le motivazioni dietro al lavoro di Zwinger o di Beyerlinck sono invece più materiali e più variegate.
 
In quanto ai metodi, Ann Blair fornisce una casistica meravigliosa. Sembra che il primo a suggerire l’uso di foglietti separati a fini di indicizzazione sia stato Conrad Gesner nel Cinquecento, ma le possibilità concrete erano moltissime: ritagliare e incollare pagine di libri a stampa o di manoscritti, per esempio, era un modo rapido, anche se costoso, per integrare i propri appunti. Oppure il lavoro di copia, invece che a un computer, poteva essere delegato a qualche assistente umano…
 
Il quinto e ultimo capitolo è dedicato a The impact of early printed reference books, ma in questo caso il titolo è un po’ eccessivo. Rimane fuori in effetti proprio la parte più importante, cioè una misurazione degli effetti pratici di questi strumenti. Ann Blair tratta invece la fortuna editoriale dei libri e le polemiche esplicite create dal loro uso. In particolare, per quest’ultimo punto, nota che
 
In many contexts the spread of reference books offering collections of excerpts or summaries triggered complaints, some of which resemble concerns voiced today about new methods of working, from Google Books to Wikipedia to data mining (loc. 5029).
 
La motivazione addotta dai polemisti era naturalmente, allora come adesso, quella per cui i libri di appunti già fatti “disabituano” allo studio. Come viene detto qui nell’epilogo,
 
The story of the management of textual information in personal notes and printed reference books, 1500–1700, could be presented as a decline narrative from the heights of great learning to an increasing reliance on shortcuts and substitutes, or alternatively, as a triumphalist account of new methods democratized and made increasingly sophisticated (…) among those reflecting on current and future developments, the doomsayers on the one hand and the info-boosters on the other often seem the loudest voices. I have tried to steer clear of such extreme positions, although I am conscious of having leaned more toward an optimistic stance because I am confident that new research tools and techniques can both enhance our ability to do thoughtful scholarly work and widen access to learning for broader audiences (loc. 5376).
 
Capire come vadano poi le cose davvero, oggi, sarà materia per altre ricerche. Ma questo libro è un ottimo punto di partenza per parlare del qui-e-adesso in modo assai più serio di quello che oggi usa, anche in sedi che dovrebbero avere una visione un po’ più sofisticata delle cose.
 

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