lunedì 31 dicembre 2012

Papert, Mindstorms

 
Seymour Papert, Mindstorms
Nelle vacanze mi sono letto anche Mindstorms: children, computers, and powerful ideas di Seymour Papert (seconda edizione, New York, Basic Books, 1993, pp. xxi + 230, ISBN 978-0-465-04674-4; ne esiste anche una traduzione italiana del 1984). Sono però partito diffidente: un po’ perché l’edizione del 1993 ha tre terribili pagine di introduzione scritte da John Sculley nel 1993, un po’ perché la ristampa del 2012 che ho comprato su Amazon presenta alcune pagine in una stampa così distorta da darmi fastidio, un po’, e soprattutto, perché di sproloqui sul rapporto tra bambini e computer ne ho letti fin troppi, negli ultimi anni.
 
Sull’ultimo punto sono stato però lieto di constatare che i miei pregiudizi erano infondati. Il libro si colloca a una distanza stellare rispetto alla media dei discorsi su questo argomento, e racconta in modo intelligente esperienze complesse di didattica della matematica usando il linguaggio LOGO. Il testo originale è del 1980: l’edizione del 1993 lo presenta, se ho ben visto, immutato. I trenta e passa anni trascorsi dalla sua stesura non hanno però tolto molto al fascino del lavoro.
 
L’idea di base di Papert era molto semplice. Di fronte ai sistemi in cui “the computer is being used to program the child”, Papert proponeva una visione in cui “the child programs the computer and, in doing so, both acquires a sense of mastery over a piece of the most modern and powerful technology and establishes an intimate contact with some of the deepest ideas from science, from mathematics, and from the art of intellectual model building” (p. 5).
 
Non è difficile vedere il fascino di questa idea. Non è difficile però neanche vedere l’esito finale del confronto: le scuole oggi puntano meno a “programmare” il bambino, ma sono arrivate a questo risultato in modo indipendente dal computer. Nella stessa didattica della matematica, LOGO è ancora in vita in una varietà di forme, ma il suo ruolo e quello di sistemi simili sembra del tutto marginale.
 
Del resto, non è difficile neanche vedere le ragioni dietro a questi limiti. Per un’educazione costruttivista, nello stile di Piaget, il computer può infatti essere uno strumento didattico proteiforme… ma in molte situazioni semplicemente non ci sono motivi per privilegiarlo rispetto ad altri e più economici strumenti; mentre c’erano in passato, e ci sono tuttora anche nel nostro mondo così pieno di computer, moltissime situazioni in cui qualche dettaglio pratico rende preferibile usare un foglio di carta e una penna, piuttosto che un computer.
 
Insomma, rispetto allo scopo base dell’educazione il computer di Papert si rivela una versione un po’ aggiornata del torchio tipografico del metodo Freinet, seguito in Italia nel dopoguerra con successo da insegnanti straordinari come Mario Lodi. Più potente in alcuni punti, d’accordo, molto più limitata in altri.
 
Fin qui le cattive notizie. Ora le buone: in un contesto in cui la società è per fortuna andata nella strada descritta da Papert, ma senza usare troppo i computer, molte delle idee presentate nel libro sono ancora valide e sfruttabili. Certo, il nucleo è la matematica, e io non insegno matematica, ma alcune delle “idee potenti” presentate qui possono essere esportate senza problemi in altri settori – proprio in quanto idee applicabili ovunque. Papert parte del resto da un’idea di matematica affine a quella della lingua, e traccia paragoni tra l’apprendimento della matematica e quello di una lingua viva e di una lingua morta:
 
A living language is learned by speaking and does not need a teacher to verify and grade each sentence. A dead language requires constant “feedback” from a teacher. The activity known as “sums” performs this feedback function in school math. These absurd little repetitive exercises have only one merit: They are easy to grade. But this merit has bought them a firm place at the center of school math. In brief, I maintain that construction of school math is strongly influenced by what seemed to be teachable when math was taught as a “dead” subject, using the primitive, passive technologies of sticks and sand, chalk and blackboard, pencil and paper. The result was an intellectually incoherent set of topics that violates the most elementary mathetic principles of what makes certain material easy to learn and some almost impossible (pp. 52-53).
 
Di fronte a questo problema, dice Papert, la scuola può scegliere se usare i computer per insegnare la matematica nel vecchio modo, o approfittarne per riconfigurarla e insegnarla in modo più naturale, anche se meno legata al curriculum. La caratteristica più famosa del linguaggio LOGO è la sua possibilità di usarlo per controllare i movimenti di una “tartaruga” (meccanica o su schermo) capace di tracciare linee. In alcuni interessanti capitoli, Papert mostra come i bambini arrivino spontaneamente, attraverso la programmazione con LOGO, a riscoprire per conto proprio e interiorizzare alcune verità matematiche di alto livello, e a impadronirsi appunto di “idee potenti” tipo quella di scomporre problemi grossi in pezzi più piccoli o trovare soluzioni attraverso tentativi, errori e debugging. I concetti sono molto interessanti… e in alcuni casi, penso proprio che proverò ad applicarli nella pratica.
 

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