martedì 22 gennaio 2013

Ferguson, Engineering and the mind’s eye

 
Ferguson, Engineering and the mind's eye - in parte su Google Books
Negli anni ho sviluppato una profonda diffidenza nei confronti degli imbonitori che promettono di rendere ogni cosa più chiara attraverso immagini, animazioni, 3D , eccetera. Nel settore in cui lavoro io, infatti, in prima approssimazione nessuno di questi strumenti ha la minima utilità. Un accordo non si redige manipolando simboli, una relazione non si scrive interagendo con un’animazione tridimensionale, un libro non si capisce esaminando un grafico e così via.
 
In altri settori, però, le cose stanno in modo diverso. Engineering and the mind’s eye di Eugene S. Ferguson (Cambridge, Massachusetts, MIT Press, 1992, pp. xiv + 241, ISBN 0-262-06147-3) è per esempio un’esaltazione del pensiero “visivo” nel mondo dell’ingegneria (nota: anche se le parole inglesi engineer ed engineering hanno un significato più esteso rispetto a ingegnere e ingegneria in italiano, penso che ai fini di questo commento si possa sorvolare sulle differenze).
 
Le idee di base dell’autore sono esposte in modo chiaro nella prefazione. Ferguson nota infatti che i prodotti moderni, pur essendo influenzati dalla scienza, sono determinati principalmente dalla tecnologia e dalle capacità creative dei progettisti. Il processo di progettazione, d’altra parte, si basa pesantemente su ciò che è stato fatto in passato. Come dice l’autore più avanti:
 
An auto engine is an everyday machine whose existence 500 years ago is impossible to imagine. Yet except for the electrical components – the ignition coil and the spark plugs – nearly all of its elements were known when Leonardo was alive (1452-1519) (p. 63).
 
Questo rapporto di continuità viene descritto da Ferguson soprattutto nel terzo capitolo (intitolato Origins of modern engineering), che mostra la continuità della tradizione ingegneristica dagli apparecchi romani di pompaggio fino alle soluzioni moderne, dedicando spazio soprattutto al Rinascimento italiano, da Brunelleschi a Francesco di Giorgio Martini e Leonardo, fino a Domenico Fontana. Nel quinto capitolo (The development and dissemination of engineering knowledge) si parla invece soprattutto del periodo che va dal Cinquecento al Ottocento, fino alla formazione di una pratica ingegneristica più scientifica.
 
Il punto di forza del libro, però, più che nella sintesi storica sta nell’esaltazione dei principi che si trovano alla base della tradizione ingegneristica. In particolare, Ferguson insiste molto sull’importanza dell’“occhio della mente” (The mind’s eye è anche il titolo del secondo capitolo). Nella sua ricostruzione, infatti, il pensiero “ingegneristico” lavora principalmente per immagini. Immagini che spesso si possono tradurre in parole e numeri solo attraverso un lavoro lungo e difficile, documentato facendo riferimento non solo al lavoro degli ingegneri ma anche a quello dei fisici del Novecento, incluso Einstein.
 
Nel lavorare con le immagini, lo strumento essenziale dell’ingegnere diventa quindi il disegno tecnico, con il suo “graphic language” (p. 3), descritto soprattutto nel quarto capitolo. In parte per riflettere tra sé; in parte per dare istruzioni ad altri; e in parte per discutere con i colleghi:
 
In the 1980s, a young engineer in the design division of a “mid-size, mid-tech” machine works equipped with computer-assisted design equipment, commented on her initial surprise at the customary mode of communication. Two designers never “just sit down and just talk,” she said. “Everybody draws sketches to each other.” (…) Kathryn Henderson, a sociologist who is studying the politics of engineering design at first hand in design departments of several industries, remarked on the way talking sketches were made: she “observed designers actually taking the pencil from one another as they talked and drew together on the same sketches” (p. 97).
 
Il sesto capitolo (The making of an engineer) apre la sezione polemica del libro: quella in cui Ferguson critica il modo in cui il sistema universitario americano, dopo la Seconda guerra mondiale, ha marginalizzato la conoscenza visiva e l’aspetto artigianale dell’ingegneria, favorendo invece un approccio “analitico” basato sulla matematica e sulle conoscenze scientifiche – più prestigioso e al tempo stesso più facile da insegnare.
 
Dal recente passato Ferguson passa poi al presente e al futuro nel settimo capitolo, The gap between promise and performance. Questa è forse la parte più debole del libro, in quanto parte dal presupposto che i primissimi anni Novanta abbiano visto una “harrowing succession of flawed designs” (p. 171) nei prodotti ingegneristici americani. Il che è senz’altro vero, ma la domanda è: sono errori che con un diverso sistema di formazione degli ingegneri si sarebbero potuti evitare? E sono più numerosi rispetto al passato? Gli esempi di Ferguson sono infatti aneddotici o speculativi, dai problemi del telescopio spaziale Hubble fino a quelli del sistema di protezione dell’incrociatore Vincennes, e non permettono certo di dare un giudizio comparativo sulla diversa qualità dei due sistemi.
 
Il lavoro si conclude comunque con un’appassionata rivendicazione della natura artigianale e non formalizzabile di buona parte della conoscenza ingegneristica:
 
No matter how vigorously a “science” of design may be pushed, the successful design of real things in a contingent world will always be based more on art than on science. Unquantifiable judgments and choices are the elements that determine the way a design comes together. Engineering design is simply that kind of process. It always has been; it always will be (p. 194).
 
Io, inutile dirlo, simpatizzo molto con questo discorso. Che nel campo della scrittura è sicuramente altrettanto valido.
 

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