giovedì 28 novembre 2013

Sistematizziamo: l’italiano della comunicazione elettronica non è una varietà di lingua

 
La settimana scorsa ho finito una sezione di corso di Linguistica italiana (I anno, CdS in Informatica umanistica) dedicata alla variazione linguistica e alle varietà di lingua dell’italiano. L’argomento per me è interessante anche alla luce di discussioni recenti sulla possibilità che l’italiano della comunicazione elettronica sia una varietà di lingua. Secondo me non lo è affatto… ma per dirlo con sicurezza occorre rispondere a una domanda preliminare: che cos’è una varietà di lingua?
 
Come per molti altri concetti della sociolinguistica, la definizione di “varietà di lingua” non è poi così chiara e condivisa. Se si va a leggere un riferimento istituzionale come il Dizionario di linguistica diretto da Gian Luigi Beccaria (Torino, Einaudi, 2004) si scopre innanzitutto che la voce di riferimento, scritta da Tullio Telmon, è “Varietà della lingua”. La voce stessa precisa però poi che l’espressione da usare “piú propriamente” è “varietà di lingua”, e tale mi sembra l’uso ormai dominante.
 
Nella voce manca però una definizione specifica. Si dice infatti che l’espressione “designa il fatto, di ordine universale, che ogni lingua si presenta non già come blocco uniforme ed immutabile, bensí come insieme di elementi mutevoli”. Questo va bene sul piano generale, ma non spiega per esempio in base a quali ragioni Gaetano Berruto, nel suo fondamentale lavoro sulla Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, possa distinguere all’interno di questo insieme di elementi mutevoli proprio 9 (e non 3, o 187) “varietà”, tra le quali l’“italiano standard letterario” (n. 1) e l’“italiano parlato colloquiale” (n. 3).
 
Per l’analisi dell’italiano mi sembra quindi più utile partire proprio dalle definizioni di Berruto, che hanno il vantaggio di avere un taglio molto più operativo. L’Enciclopedia dell’italiano include un articolo sulle “varietà” scritto proprio da Berruto, e l'articolo presenta una definizione precisa:
 
Una varietà di lingua si può definire come un insieme coerente di elementi (forme, strutture, tratti, ecc.) di un sistema linguistico che tendono a presentarsi in concomitanza con determinati caratteri extralinguistici, sociali (…). È quindi sempre un’entità che presuppone una correlazione tra fatti linguistici e fatti non linguistici, e deve essere caratterizzata sulla base di entrambi. Una definizione più tecnica di varietà di lingua è: un insieme solidale di varianti di variabili sociolinguistiche.
 
Quindi identificare una varietà di lingua richiede che si possano indicare elementi linguistici particolari che si presentano “in concomitanza” con circostanze esterne alla lingua. La lingua della comunicazione elettronica presenta queste caratteristiche? Direi proprio di no. Nessuno, per esempio, mi sembra che finora abbia potuto indicare alternanze nell’uso dei pronomi o dei tempi verbali, o più in generale di “forme, strutture, tratti” tali da caratterizzare la comunicazione elettronica nel suo complesso. Mentre, viceversa, si può indicare la differenza tra “italiano standard” e “italiano neostandard” nel sistema dei pronomi mostrando che il neostandard impiega lui al posto di egli, e così via. In mancanza di qualcosa di simile, è semplicemente impossibile parlare di “varietà di lingua”. E, mi sembra, ormai siamo in molti a considerare questo come un giudizio consolidato.
 
Si può obiettare a questo rifiuto notando che la comunicazione elettronica presenta molti tratti caratterizzanti a livello della scrittura. Credo però che questa obiezione sia del tutto superabile, e spiegherò le mie ragioni in uno dei prossimi post.
 

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