mercoledì 22 gennaio 2014

Sampson, The ‘Language instinct’ debate

 
 
Sampson, The ‘Language instinct’ debate
Ho una gran simpatia per chi si mette da solo, a ragion veduta, contro un’idea diffusa ma sbagliata. Geoffrey Sampson sembra una persona di questo tipo. La raccolta di studi da lui curata sulla complessità linguistica demolisce l’idea che tutte le lingue siano ugualmente complesse. Il suo precedente libro su The ‘Language instinct’ debate (Continuum, London – New York 2005, pp. XIII + 224, ISBN 0-8264-7385-7, letto da me nella copia posseduta dalla biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa) prende di petto l’idea più fortunata della linguistica contemporanea: quella che gli esseri umani siano dotati di un “organo del linguaggio” che li predispone a imparare facilmente la grammatica delle lingue naturali, ma non sistemi di comunicazione di altro tipo.
 
Rilanciata da Noam Chomsky a partire dagli anni Cinquanta, questa idea dalle radici antiche è oggi lo standard accettato dalla linguistica. Sampson dubita però che sia un’idea vera. Anch’io ho sempre avuto, fin dai tempi dell’università, qualche dubbio in proposito e adesso, leggendo il modo in cui il libro smonta alcuni argomenti portati a sostegno delle tesi di Chomsky, i dubbi si sono rafforzati.
 
Non che Sampson riesca a distruggere del tutto l’edificio. Però è interessante che, lavorando sui corpora moderni, riesca per esempio a documentare l’esistenza di strutture dichiarate “impossibili” dai chomskiani, oppure la relativa abbondanza di strutture che secondo i chomskiani non si potrebbero imparare in modo “tradizionale” perché sentite troppo di rado (cap. 3, How people really speak). Né la sua critica si limita a questo, perché include per esempio il riesame bibliografico del famoso caso della famiglia KE in Gran Bretagna, in cui diversi componenti hanno ereditato una mutazione nel gene FOXP2. Secondo le prime analisi, fatte in ottica chomskiana, i portatori di questa mutazione, dotati per il resto di facoltà intellettive normali, avevano un problema specifico nella gestione della grammatica. Secondo gli studi più recenti citati da Sampson (come questo), invece, le difficoltà cognitive dei soggetti sono generalizzate e non sembrano concentrate sulla gestione della grammatica.
 
Aggiungo che questa situazione non sembra molto diversa da quella di altri esempi recenti (non discussi da Sampson). Per esempio, il caso di “Christopher”, studiato da Smith e Tsimpli in ottica chomskiana, viene interpretato da altri in modo completamente diverso. E, dopo un po’ di controlli bibliografici, il minimo che si possa dire è che molte certezze della linguistica chomskiana non sembrano sostenute da basi così solide come si vorrebbe.
 
D’altra parte, a ripensarci, i presupposti metodologici di Chomsky mi sono sempre sembrati parecchio traballanti. Dichiarare che tutte le lingue del mondo funzionano allo stesso modo, per esempio, dovrebbe essere il punto di arrivo di una ricerca, non il punto di partenza! Diverse lingue ancora poco studiate, come il riau esaminato da David Gil, sembrano ben poco inquadrabili nell’ottica chomskiana.
 
Non tutto nel libro di Sampson è ugualmente convincente. Per esempio, un intero capitolo (il sesto) viene impiegato per discutere su quale sia l’interpretazione corretta del concetto di “creatività” in Popper. Argomento che avrà anche il suo interesse, ma si colloca su un piano diverso rispetto alle discussioni di fatto. Ed è un argomento che oltretutto Sampson gestisce in modo molto approssimativo, senza basarsi nemmeno su un’analisi completa delle opere di Popper ed entrando in discussioni marginali – il che non è un esempio di rigore metodologico.
 
Resta il fatto che, in estrema sintesi, ci sono ottime possibilità che Sampson abbia ragione sui punti chiave. Forse il linguaggio umano non è il prodotto di uno specifico “organo” mentale biologicamente predeterminato ma è semplicemente il risultato dell’azione di meccanismi intellettuali generici e di convenzioni culturali.
 

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