Appunti sul linguaggio e sulla scrittura, con particolare attenzione al linguaggio del web. Un blog di Mirko Tavosanis.
domenica 28 febbraio 2010
Baron, A better pencil
Buona parte dei libri che vengono pubblicati oggi in forma di "saggio" ruota attorno a un tema centrale. A volte più definito, a volte meno. Altri libri però il tema non ce l'hanno: perché il tema non esiste, perché l'autore ha raccolto senza uniformarli contributi dispersi su vari argomenti, e così via.
Difficile dire se A better pencil (OUP, 2009) rientra nella prima categoria o nella seconda. Il libro, di per sé, è una panoramica su argomenti molto diversi tra di loro, e uniformati solo dal rapporto con la "scrittura". Si passa quindi, per esempio, da una descrizione delle attività imprenditoriali di Thoreau come fabbricante di matite al problema dei profili personali su Facebook o MySpace, dal riassunto delle pratiche e delle teorie di Unabomber al confronto tra le interfacce di alcuni tra i primi programmi di scrittura per personal computer.
Va detto che Baron scrive delle cose molto interessanti e a volte presenta spunti originali. In molti casi si basa su fonti ben note: per esempio, direi che la storia tecnologica delle matite è stata realizzata quasi per la totalità riprendendo informazioni da un famoso libro di Henry Petroski del 1990, Pencil (però questo libro ancora non l'ho letto, anche se è da un po' di tempo nella mia lista delle letture che prima o poi dovrei fare... probabilmente nel mio terzo o quarto secolo di vita...). In altri casi invece il lavoro sembra originale. È il caso del sesto capitolo, When WordStar Was King, che per metà descrive appunto le interfacce di programmi di scrittura ormai dimenticati, da WordStar (quello su cui ho iniziato anch'io...) a WordPerfect. Va detto che le osservazioni sono quasi sempre molto intelligenti, e in alcuni casi innovative; e va aggiunto che la lettura è molto gradevole.
A un certo punto, l'autore stesso si pone il problema dell'argomento del lavoro, e propone una minima sintesi:
To recap some themes that I have touched on in this book: because of computers, more people are writing more; they are creating new genres of writing; and they have more control over what they write and how it is distributed (p. 229).
Indeed. E in generale, non ha senso ridurre a formula o regoletta buona parte della conoscenza storica. Alcuni temi vengono inoltre approfonditi in un modo che sarebbe stato difficile fare in un testo vincolato a un argomento preciso. È il caso delle reazioni polemiche davanti alle nuove forme di scrittura che, come viene ben mostrato, hanno accompagnato quasi tutte le tecnologie: dalla scrittura stessa su su fino alla stampa e al computer e, con più originalità, fino alla macchina da scrivere e all'evidenziatore (con una notevole eccezione: appunto, la matita). Tuttavia, perché non dedicare un libro direttamente a questo argomento?
Riassmendo: visto che le divagazioni mi piacciono molto, di solito non ho problemi con un modo poco strutturato per esporre informazioni interessanti. In questo caso però, da lettore, ho avuto la nettissima sensazione che una scelta migliore degli argomenti avrebbe giovato al libro.
venerdì 26 febbraio 2010
Istruzioni per l'uso
Ieri ho fatto la seconda lezione del corso, interamente occupata da una dimostrazione pratica. Mi sono portato dietro tre computer rotti e ho diviso gli studenti in tre gruppi. Il primo gruppo conteneva gli esperti: le persone già capaci di fare operazioni tipo montare una scheda di rete su un vecchio computer desktop e così via. Ho fatto uscire gli altri due gruppi e ho distribuito gli studenti rimasti attorno ai tre computer. A tutti ho dato l'incarico di eseguire (collettivamente) un semplice intervento sul computer, scrivendo in parallelo istruzioni per i compagni rimasti fuori, in modo che al rientro potessero ripetere l'operazione in autonomia.
A lavoro terminato ho fatto rientrare il secondo gruppo, che ha eseguito le istruzioni mentre i colleghi del primo gruppo rimanevano a osservare. Ne è venuta fuori qualche semplice modifica ai testi, ma il lavoro è stato portato a termine in tutti e tre i casi senza problemi. Poi è stato il turno dell'ultimo gruppo, che ha lavorato sulle istruzioni ritoccate e ha completato il lavoro molto in fretta.
La prova è stata istruttiva da molti punti di vista. Per esempio, gli studenti del primo turno hanno capito molto in fretta che per rendere le istruzioni più comprensibili era utile usare dei semplici disegni. A dire il vero, alcuni hanno avuto le tipiche esitazioni da compito in classe ("possiamo fare dei disegni o dobbiamo fare tutto solo a parole?"), ma l'importanza dei disegni è stata evidente a tutti. Uno dei gruppi è arrivato addirittura a colorare i disegni, per far capire meglio quali erano i cavi elettrici descritti nel testo. Proprio in vista di questo risultato avevo chiesto di lavorare con carta e matita: se avessero dovuto fare lo stesso lavoro al computer, probabilmente nessuno di loro avrebbe pensato a un disegno... visto che al computer è scomodo disegnare anche solo tre righine in croce.
Il gioco avrà funzionato, a livello didattico? Spero di sì. L'importante, comunque, era dare la sensazione che un testo professionale, come ogni altro strumento, serve a fare un lavoro. Se poi il testo è scritto bene, pensando al destinatario e guardando le cose dal suo punto di vista, può dare anche qualche soddisfazione all'autore e al lettore. Per esempio, quando gli autori vedono con i propri occhi persone che, dopo aver letto qualche riga di istruzioni ben fatte, riescono a eseguire operazioni mai provate in precedenza.
Certo, se gli studenti fossero stati venticinque invece di cento e passa, avremmo lavorato meglio. E se l'aula fosse stata più grande, tutto sarebbe stato più comodo. Ma forse la lezione ha funzionato anche in queste condizioni non ottimali.
A lavoro terminato ho fatto rientrare il secondo gruppo, che ha eseguito le istruzioni mentre i colleghi del primo gruppo rimanevano a osservare. Ne è venuta fuori qualche semplice modifica ai testi, ma il lavoro è stato portato a termine in tutti e tre i casi senza problemi. Poi è stato il turno dell'ultimo gruppo, che ha lavorato sulle istruzioni ritoccate e ha completato il lavoro molto in fretta.
La prova è stata istruttiva da molti punti di vista. Per esempio, gli studenti del primo turno hanno capito molto in fretta che per rendere le istruzioni più comprensibili era utile usare dei semplici disegni. A dire il vero, alcuni hanno avuto le tipiche esitazioni da compito in classe ("possiamo fare dei disegni o dobbiamo fare tutto solo a parole?"), ma l'importanza dei disegni è stata evidente a tutti. Uno dei gruppi è arrivato addirittura a colorare i disegni, per far capire meglio quali erano i cavi elettrici descritti nel testo. Proprio in vista di questo risultato avevo chiesto di lavorare con carta e matita: se avessero dovuto fare lo stesso lavoro al computer, probabilmente nessuno di loro avrebbe pensato a un disegno... visto che al computer è scomodo disegnare anche solo tre righine in croce.
Il gioco avrà funzionato, a livello didattico? Spero di sì. L'importante, comunque, era dare la sensazione che un testo professionale, come ogni altro strumento, serve a fare un lavoro. Se poi il testo è scritto bene, pensando al destinatario e guardando le cose dal suo punto di vista, può dare anche qualche soddisfazione all'autore e al lettore. Per esempio, quando gli autori vedono con i propri occhi persone che, dopo aver letto qualche riga di istruzioni ben fatte, riescono a eseguire operazioni mai provate in precedenza.
Certo, se gli studenti fossero stati venticinque invece di cento e passa, avremmo lavorato meglio. E se l'aula fosse stata più grande, tutto sarebbe stato più comodo. Ma forse la lezione ha funzionato anche in queste condizioni non ottimali.
mercoledì 24 febbraio 2010
Descrivere le facce è difficile
Lunedì ho finalmente cominciato il Laboratorio di Italiano scritto per il I anno di Informatica umanistica. Speravo che fosse un corso di dimensioni seminariali, come quello dell'ultimo anno accademico, invece, a sorpresa, c'erano più di cento studenti. I casi della vita... ma spero di riuscire a fare comunque un buon lavoro.
Comunque ho iniziato con una prova pratica: far uscire due volontari dall'aula, e chiedere a un altro volontario di descrivere per iscritto la faccia di uno (una, nello specifico) degli altri presenti. Ai due volontari usciti dalla stanza è poi toccato cercare di identificare la persona descritta, basandosi solo sul testo.
Ovviamente, non ci sono riusciti: anche in presenza di persone capaci e impegnate, anche con una descrizione ben realizzata, le parole semplicemente non sono sufficienti a permettere di identificare un volto in mezzo ad altri simili. Basta che non ci siano tratti identificativi troppo vistosi ("cicatrice che attraversa la fronte diagonalmente..."), o somiglianze spiccate con personaggi famosi. Anche la controprova è riuscita: basta mostrare una fotografia dello stesso soggetto e, voilà, l'identificazione viene fatta immediatamente.
Qual era l'obiettivo? Mostrare che il nostro linguaggio ha dei grossi limiti anche in casi in cui non si tratta di descrivere visioni mistiche o di evocare stati d'animo. Anche molte attività della vita quotidiana sono difficilissime da descrivere a parole, e non è un caso se sui documenti che servono a identificarci compare una foto, e non un'articolata descrizione.
Il meccanismo di base non l'ho certo scoperto io: che le facce siano scarsamente descrivibili lo ricorda, credo, Pinker in uno dei suoi libri (anche se mi sono appena accorto di aver passato tutti gli ultimi a ex laureandi, ormai laureati , e quindi è difficile controllare). Però non penso che nessuno abbia mai usato questo giochino per spiegare i limiti della scrittura professionale. Chissà se avrà funzionato...
mercoledì 17 febbraio 2010
Studiare rende?
L'alfabetizzazione serve o no, dal punto di vista economico? Un dibattito sintetico ma interessante è stato ospitato nel 1996 nel primo Working Paper di una serie pubblicata dal Centre for Literacy del Quebec.
Di sicuro, un punto di forza è dato dal fatto che, semplicemente, come ricorda qui Stan Jones, di solito le società più alfabetizzate sono anche le più ricche, e gli individui che hanno titoli di studio più alti sono in media i più ricchi. Correlation is not causation, ma risulta molto difficile anche solo immaginare una società sviluppata che non abbia molti professionisti, indigeni o importati, attivi in settori che richiedono molto studio sui libri (dall'ingegneria alla medicina... fino alla ricerca universitaria?). Tutt'al più, il problema può consistere nell'individuare i livelli ottimali di sviluppo. Fermo restando che a parità di condizioni è senz'altro meglio avere un bel po' di studi alle spalle che non averli, ci deve essere senz'altro un punto in cui lo studio non produce più un adeguato ritorno dell'investimento, né per l'individuo né per la società. Ma se in teoria la cosa è facile, nella pratica oggi stiamo mirando troppo in alto o troppo in basso?
Di sicuro, un punto di forza è dato dal fatto che, semplicemente, come ricorda qui Stan Jones, di solito le società più alfabetizzate sono anche le più ricche, e gli individui che hanno titoli di studio più alti sono in media i più ricchi. Correlation is not causation, ma risulta molto difficile anche solo immaginare una società sviluppata che non abbia molti professionisti, indigeni o importati, attivi in settori che richiedono molto studio sui libri (dall'ingegneria alla medicina... fino alla ricerca universitaria?). Tutt'al più, il problema può consistere nell'individuare i livelli ottimali di sviluppo. Fermo restando che a parità di condizioni è senz'altro meglio avere un bel po' di studi alle spalle che non averli, ci deve essere senz'altro un punto in cui lo studio non produce più un adeguato ritorno dell'investimento, né per l'individuo né per la società. Ma se in teoria la cosa è facile, nella pratica oggi stiamo mirando troppo in alto o troppo in basso?
martedì 16 febbraio 2010
I tassisti di Delhi
Ripensando a quel che scrivevo un paio di post fa: ai tassisti di Delhi sicuramente servirebbe saper leggere. Soprattutto se ci fossero buone mappe a disposizione. Ma ne vale la pena? Qual è, per loro, il rapporto costi / benefici?
Negli ultimi anni si è discusso molto sui miti dell'alfabetizzazione. Al di là dei miti, mi sembra indiscutibile che, di per sé, saper leggere e scrivere non serva a molto al di fuori di alcuni precisi contesti. Se passo tutto il tempo a zappare, e quando torno a casa fa già buio e non ho lampadine, a che cosa mi serve l'alfabetizzazione?
Beh, io penso che serva comunque parecchio, e che sia di per sé una bellissima cosa. Però la domanda successiva è: sì, ma ne vale la pena? Qual è il rapporto costi / benefici? Dato per scontato che saper fare una cosa sia sempre meglio che non saperla fare, ne vale la pena?
In questi giorni sto leggendo una bella raccolta di studi: The Making of Literate Societies, pubblicata da Blackwell nel 2001 a cura di David R. Olson e Nancy Torrance. L'atteggiamento della maggior parte degli autori sembra ragionevole: l'alfabetizzazione di per sé non è una bacchetta magica. Occorre che ci sia attorno una società capace di gestirla. O, come dice uno degli autori, saper leggere e scrivere un contratto non serve a molto, se poi non c'è un sistema giudiziario efficace che lo possa far rispettare. Dal punto di vista economico, si vedono casi di società molto alfabetizzate ma prive di sviluppo economico, e di società prospere anche se a bassa alfabetizzazione. In India il confronto standard è quello tra il Kerala e il Punjab; in Europa, si potrebbe sostenere che è più o meno il rapporto che si è avuto per molti anni tra Regno Unito e Italia... se non fosse che, in questo caso, le diversità nazionali nascondono forse somiglianze più strette tra le regioni sviluppate.
In ogni caso, un concetto di base è quello di "covariation" (come usato in questo libro per esempio da Armin Triebel, p. 33): l'alfabetizzazione interagisce con molte altre variabili. E soprattutto, esistono tipi molto diversi di "alfabetizzazione" (il termine italiano poi è un po' infelice, visto che in alcune parti del mondo le scritture non sono alfabetiche: meglio usare il termine inglese literacy).
Negli ultimi anni si è discusso molto sui miti dell'alfabetizzazione. Al di là dei miti, mi sembra indiscutibile che, di per sé, saper leggere e scrivere non serva a molto al di fuori di alcuni precisi contesti. Se passo tutto il tempo a zappare, e quando torno a casa fa già buio e non ho lampadine, a che cosa mi serve l'alfabetizzazione?
Beh, io penso che serva comunque parecchio, e che sia di per sé una bellissima cosa. Però la domanda successiva è: sì, ma ne vale la pena? Qual è il rapporto costi / benefici? Dato per scontato che saper fare una cosa sia sempre meglio che non saperla fare, ne vale la pena?
In questi giorni sto leggendo una bella raccolta di studi: The Making of Literate Societies, pubblicata da Blackwell nel 2001 a cura di David R. Olson e Nancy Torrance. L'atteggiamento della maggior parte degli autori sembra ragionevole: l'alfabetizzazione di per sé non è una bacchetta magica. Occorre che ci sia attorno una società capace di gestirla. O, come dice uno degli autori, saper leggere e scrivere un contratto non serve a molto, se poi non c'è un sistema giudiziario efficace che lo possa far rispettare. Dal punto di vista economico, si vedono casi di società molto alfabetizzate ma prive di sviluppo economico, e di società prospere anche se a bassa alfabetizzazione. In India il confronto standard è quello tra il Kerala e il Punjab; in Europa, si potrebbe sostenere che è più o meno il rapporto che si è avuto per molti anni tra Regno Unito e Italia... se non fosse che, in questo caso, le diversità nazionali nascondono forse somiglianze più strette tra le regioni sviluppate.
In ogni caso, un concetto di base è quello di "covariation" (come usato in questo libro per esempio da Armin Triebel, p. 33): l'alfabetizzazione interagisce con molte altre variabili. E soprattutto, esistono tipi molto diversi di "alfabetizzazione" (il termine italiano poi è un po' infelice, visto che in alcune parti del mondo le scritture non sono alfabetiche: meglio usare il termine inglese literacy).
sabato 13 febbraio 2010
Der Dialekt im italienischen Comic
La rivista tedesca Zibaldone. Zeitschrift fur italienische Kultur der Gegenwart, curata da Thomas Bremer e Titus Heydenreich, ha dedicato ai dialetti in Italia l'ultimo numero, il 48, uscito a fine 2009. All'interno del fascicolo si trova anche un mio articolo in traduzione tedesca (realizzata da Thomas Bremer): Der Dialekt im italienischen Comic, cioè "il dialetto nei fumetti italiani", pp. 154-167. È una carrellata rapida che va dal fumetto nei Disney italiani e da Hugo Pratt su su fino ad Andrea Pazienza e (naturalmente) Leo Ortolani - che di dialetto ne ha usato ben poco. Senza dimenticare poi traduttori come Marcello Marchesi e Ranieri Carano, che hanno fatto meraviglie.
Alla fine il censimento è molto rapido, con poche parole dedicate ai diversi esempi; però, se non sbaglio, nessuno aveva mai pubblicato niente di organico sull'argomento, e sono discretamente soddisfatto del risultato.
venerdì 12 febbraio 2010
Al rientro: la metro di Delhi
Bene, eccomi al rientro! Delhi è stata un'esperienza fantastica, soprattutto grazie alla gente: colleghi e studenti, ma non solo. E poi, il posto in sé era incredibile.
Poi naturalmente ci sono i problemi: un conto è sapere queste cose, un conto vedere dal vero la miseria di buona parte della popolazione. Ma l'unico aiuto vero, evidentemente, lo può dare un buona e sana crescita economica...
Il linguaggio c'entra qualcosa? L'India è una babele di lingue, e anche Delhi lo è - con l'inglese che, a quel che mi dicono, in una città di immigrati è spesso più gradito dell'hindi (lingua prevalente ma tutt'altro che universale).
E la lettura? Superficialmente, per testi esposti e così via, Delhi non è molto diversa da una città europea. Però, per esempio, i guidatori di taxi e simili spesso non sanno leggere. Quindi, niente cartine e navigatori: l'unico modo per individuare un posto consiste nel chiedere in giro, tornare indietro, farsi mandare da una parte e poi dall'altra...
A due giorni di distanza ho visto prima la metropolitana di Londra poi quella di Delhi. Nuova, quest'ultima, efficiente e ben fatta, e pure amichevole per quanto riguarda le indicazioni (anche se, a differenza delle metropolitane europee, all'ingresso c'è la perquisizione con metal detector, e un buon contingente di soldati appostati nei corridoi in trincee con sacchetti di sabbia...). Però a Londra una buona parte dei passeggeri seduti legge libri o traffica con qualche dispositivo elettronico. A Delhi, qualcuno manda messaggi con il cellulare ma non ho mai visto nessuno che leggesse un libro. E nemmeno una rivista, o un giornale. Per chi, come me, si interessa molto a questi aspetti, la differenza è vistosa.
In una scala di lettura, sospetto poi che la metropolitana di Roma si collocherebbe più o meno a metà strada tra il modello-Delhi e il modello-Londra. Ma questo è un altro discorso...
lunedì 8 febbraio 2010
Nel cimitero di Agra
Oggi ho fatto la mia prima presentazione, parlando di Manucci. Ieri pero' era una giornata praticamente libera e ne ho approfittato per un classico del turismo indiano: la visita ad Agra.
Obiettivo principale era naturalmente il Taj Mahal. E, si', e' vero: dal vivo e' impressionante quanto in fotografia, anzi, decisamente di piu' (soprattutto dalla distanza a cui si fanno le foto classiche).
Prima del Taj Mahal, pero', sono andato a fare una visita a un monumento molto meno noto: il cimitero cattolico di Agra. Piccolo, circondato da mura, e' collocato vicino alla caotica Bypass Road (meno caotica del resto di Agra, comunque). Il cimitero e' ancora in uso, ma soprattutto conserva numerose tombe di inizio Seicento, epoca in cui e' stato fondato. Gran parte delle tombe sono antiche sono di appartenenti alla comunita' armena, quindi non sono riuscito a leggere nemmeno le iscrizioni; pero' ci sono anche quelle di molti italiani, a cominciare da Girolamo Veroneo e Bernardino Maffi. Quest'ultimo, medico veneziano per i Mogol, morto nel 1628, e' un po' il precursore di Manucci. Ma ci sono anche numerose conoscenze di Manucci stesso, a cominciare da Heinrich Roth, seppellito in una cappella dei cappuccini - assieme a diversi italiani, incluso un lucchese di cui non avevo mai sentito parlare.
Il cimitero era praticamente vuoto, a parte un paio di personaggi vicino all'entrata, stesi al sole a dormire in mezzo alle tombe. A un certo punto ho incontrato pero' una signora indiana, molto gentile, che stava facendo da guida a un'amica canadese. Le ho parlato un po' di Manucci e lei ha inquadrato immediatamente il nome: "Ah, certo... ma lei deve parlare allora con un mio amico a Delhi che sta scrivendo un libro su Dara Shikoh!" In Italia il nome di Manucci non e' noto nemmeno agli specialisti, e la differenza colpisce.
Comunque alla fine la gentile signora indiana ha perfino scattato qualche foto a me e alla visitatrice canadese, dicendo che pensava di scrivere un articolo per un giornale locale, per mostrare che c'e' ancora gente che viene al cimitero cattolico a cercare le tombe di qualche parente, o a fare ricerche storiche...
giovedì 4 febbraio 2010
Ma guarda un po'
Stamattina al Department of Germanic and Romance Studies di Delhi ho sentito alcune presentazioni di studenti di italiano del secondo e del terzo anno. Una di queste presentazioni era, guarda un po', sull'italiano dei mezzi di comunicazione elettronici: chat, e-mail, SMS. Ma guarda un po'...
Dal punto di vista turistico: giusto per partire dal semplice, oggi pomeriggio sono stato a visitare la tomba di Humayun (dove fu sepolto, tra gli altri, Dara Shikoh, il primo protettore indiano di Manucci) e la tomba di Nizamuddin, nel mezzo di un quartiere islamico come pochi.
Nel frattempo e' stato deciso anche il calendario dei miei interventi: faro' due ore di presentazioni al giorno, da lunedi' a mercoledi'.
Dal punto di vista turistico: giusto per partire dal semplice, oggi pomeriggio sono stato a visitare la tomba di Humayun (dove fu sepolto, tra gli altri, Dara Shikoh, il primo protettore indiano di Manucci) e la tomba di Nizamuddin, nel mezzo di un quartiere islamico come pochi.
Nel frattempo e' stato deciso anche il calendario dei miei interventi: faro' due ore di presentazioni al giorno, da lunedi' a mercoledi'.
mercoledì 3 febbraio 2010
British Library: l'esposizione permanente
Ieri sera non sono arrivato alla British Library in tempo per studiare. Colpa mia: mi sono preso un alloggio economico in un Travelodg accanto a Heathrow, sperando di muovermi a piedi... e invece non c'erano percorsi pedonali tra albergo e metropolitana. L'unico modo per muoversi e' con gli autobus o i taxi. Perlomeno se non si vuole far la fine del protagonista di Concrete Island.
Pero' mi sono rivisto almeno l'esposizione permanente della BL, che e' sempre fonte di ispirazione. In una vetrina c'e' il Codex sinaiticus (il piu' antico testimone integrale dei vangeli, meta' del IV secolo) esposto accanto a un frammento di rotolo di papiro anteriore di cinquanta o cent'anni. Il contrasto e' notevole: due epoche diverse della scrittura. In esposizione accanto un altro codex fondamentale per la trasmissione del testo greco dei vangeli e dell'Antico Testamento, l'Alexandrinus.
Incredibile anche (me ne scordo ogni volta) l'esposizione dei testi a stampa orientali. IN particolare un foglio giapponese dell'VIII secolo. L'imperatrisce Shotoku ne fece stampare, si dice nel commento, un milione di copie. E poi la Bibbia di Gutenberg, e un'indulgenza stampata forse dallo stesso Gutenberg nel 1454-55. Peccato non sia seposto nulla dei testi cinesi o coreani stampati con caratteri mobili. Tanto piu' che i caratteri cinesi anche antichi sono incredibilmente simili a quelli moderni, e qualcuno sono riuscito a riconoscerlo perfino io (!).
Insomma, passaggio rapido ma, appunto, d'ispirazione. E anche tornare a rivedere la biblioteca di Giorgio III nella torre di vetro centrale non e' una brutta cosa.
Pero' mi sono rivisto almeno l'esposizione permanente della BL, che e' sempre fonte di ispirazione. In una vetrina c'e' il Codex sinaiticus (il piu' antico testimone integrale dei vangeli, meta' del IV secolo) esposto accanto a un frammento di rotolo di papiro anteriore di cinquanta o cent'anni. Il contrasto e' notevole: due epoche diverse della scrittura. In esposizione accanto un altro codex fondamentale per la trasmissione del testo greco dei vangeli e dell'Antico Testamento, l'Alexandrinus.
Incredibile anche (me ne scordo ogni volta) l'esposizione dei testi a stampa orientali. IN particolare un foglio giapponese dell'VIII secolo. L'imperatrisce Shotoku ne fece stampare, si dice nel commento, un milione di copie. E poi la Bibbia di Gutenberg, e un'indulgenza stampata forse dallo stesso Gutenberg nel 1454-55. Peccato non sia seposto nulla dei testi cinesi o coreani stampati con caratteri mobili. Tanto piu' che i caratteri cinesi anche antichi sono incredibilmente simili a quelli moderni, e qualcuno sono riuscito a riconoscerlo perfino io (!).
Insomma, passaggio rapido ma, appunto, d'ispirazione. E anche tornare a rivedere la biblioteca di Giorgio III nella torre di vetro centrale non e' una brutta cosa.
lunedì 1 febbraio 2010
Passaggio in India
Bon, sono in partenza per Delhi, dove andrò, tra le altre cose, a parlare di italiano del web, fumetti italiani e Storia do Mogor... Programma intenso, e non so se nei prossimi giorni riuscirò ad aggiornare il blog! Comunque, domani pomeriggio la prima tappa è Londra, e con un po' di fortuna riuscirò anche a passare qualche ora alla British Library.