giovedì 27 dicembre 2012

Twitchett, Printing and publishing in Medieval China

 
Twitchett, Printing and publishing in Medieval China
Con Printing and publishing in Medieval China di Denis Twitchett (Frederic C. Beil, New York, 1983, pp. 94) ho fatto un primo tuffo nel mondo, appunto, dell’editoria cinese medievale. Il libro è in realtà un libretto: ridotto nel formato e nel numero delle pagine, e perdipiù abbondantemente illustrato, è “based on a talk given to the Wynkyn de Worde Society at Stationers’Hall London on 28 September 1977” (p. 6). Ragion per cui il tempo di lettura è minimo. Non importa: ciò che ne emerge è affascinante. Per chi si è occupato solo di editoria europea, è un piacere scoprire lunghe serie di somiglianze e differenze nel mondo dell’editoria cinese.
 
Una differenza base è data intanto dalla maggiore antichità. Giusto per riferirsi a due prodotti che si possono rimirare a pochi passi di distanza nella sala esposizione della British Library, tra la più antica stampa cinese datata, la Sutra del diamante dell’868, e la Bibbia di Gutenberg, probabilmente terminata nel 1455, passano quasi sei secoli. Inoltre, diversi esempi non datati di stampe cinesi risalgono probabilmente all’VIII secolo (pp. 13-14). Il margine di vantaggio, insomma, è notevole.
 
Certo, nel caso della stampa cinese c’è il grosso problema di individuare le origini di una pratica che ha forti continuità con altre. L’invenzione di Gutenberg si basava su diversi componenti molto originali: innanzitutto, i caratteri mobili in metallo; poi, un torchio capace di mettere in contatto forma e fogli con una rapida e potente strizzata dall’alto; e infine, un meccanismo a carrello per muovere il materiale. La stampa cinese invece non si distacca molto da pratiche come le “rubbings on paper” che, per i classici confuciani e altri testi incisi su pietra, si facevano già “by the early seventh century if not before” (p. 14), e che ancora vengono realizzate, per la gioia di appassionati di calligrafia e turisti, in posti come la Foresta di stele a Xi’an.
 
Le stampe cinesi classiche furono inoltre prodotte in sostanza da xilografie, incise in rilievo (oppure, “in rare cases”, da blocchi fatti in terracotta, corno o metallo: p. 68). Il meccanismo, a differenza di quello della stampa europea, era semplicissimo: “The printer inked the block with one end of double-headed brush, laid the paper on the inked face of the block, and took an impression by rubbing over the paper with the other end of his brush” (p. 70). I fogli prodotti in questo modo venivano raccolti in vario modo: in rotoli nei primi secoli della stampa, e successivamente in libri a fisarmonica, stampati da un lato solo, secondo un sistema rimasto stabile fino al Novecento (p. 68). Questo sistema permetteva tra l’altro una notevole flessibilità a tutti i livelli. Per esempio, permetteva di combinare facilmente testo e immagini (p. 86), ma anche di aggiungere o togliere “pagine” ai libri.

Pagina di un testo medico stampato nel 1211 (Twitchett, p. 41, riproduzione XII)
  
Per giunta, le matrici erano sorprendentemente resistenti: “blocks of some books cut in the seventeenth century were still being used in this century [nel Novecento]” (p. 85). In effetti, “once the block was cut it could be stored, and the book could remain ‘in print’ indefinitely” (p. 70), a differenza dei libri europei, in cui le costosissime matrici venivano di regola composte e scomposte al volo, per la stampa di ogni singolo fascicolo. Questo permetteva “an early form of that ‘printing on demand’ that we associate with modern techniques of reprography” (p. 85), basata anche sull’esistenza di enormi archivi statali da cui gli editori potevano prendere in prestito le matrici per una ristampa.
 
Contropartita di questa flessibilità era probabilmente un costo maggiore rispetto ai libri europei. Il confronto diretto è impossibile da fare, ma Twitchett fornisce a p. 64 alcuni esempi, mostrando che alcuni libri costavano quanto lo stipendio mensile di un funzionario di medio livello.
 
Anche con questo limite, però, la stampa aveva una notevole diffusione, così come l’avevano le tecniche precedenti: se già in epoca Tang “manuscript copies of texts, popular poems and rubbings of stone inscriptions were on sale in the markets of the great cities” (p. 17), nel IX secolo i poeti potevano lamentarsi per il fatto che le proprie opera venivano stampate abusivamente. E nello stesso periodo si diffondevano le stampe di manuali e compiti modello da prepararsi per gli esami imperiali… non male, considerato che in Italia era il tempo dei Dagoberti e degli Agilulfi. “Printing immediately multiplied the available supply of books, and in the course of the next two or three centuries transformed the whole business of publishing and bookselling” (p. 17).
 
Una svolta importante, e una differenziazione vistosa rispetto agli esiti dell’editoria occidentale, venne nel X secolo, all’epoca delle Cinque dinastie, quando la stampa divenne faccenda di Stato:
 
From 925 to 934 one of these dynasties temporarily gained control of Szechwan, and two of its ministers, Feng Tao and Li Yu, were so impressed by a print edition of the Wen hsuan, the most famous of all literary anthologies, which had been produced by a Shu minister called Wu Chao-I, that they decided to produce in wood-block printed form a standard orthodox edition of the entire canon of Confucian Scriptural writings. The preparation and editing of this huge work was overseen by the National Academy at Loyang, and the enterprise progressed slowly under four successive brief dynasties until in 952 the completed printing was presented to the emperor, and copies of the various classics were put on sale. Sad to relate, this, the world’s major printing project, ended with charges of embezzlement against its director, T’ien Min. But these were hurriedly hushed up. Meanwhile, in Szechwan the kingdom of Shu, independent once again, was publishing its own rival standard version of the Confucian canon, which based its text on a standard recension of the canonical works engraved on stone in their capital Ch’eng-tu between 944 and 951” (p. 31).
 
La stampa dei classici rimase un monopolio di Stato fino al 1064 (p. 32), e anche in seguito vennero prodotti imponenti progetti pubblici di sistemazione testuale e di edizione – in aggiunta alle versioni di riferimento in pietra che oggi si possono vedere a Xi’an e in altre parti della Cina. Ma, assieme ai testi di riferimento, alle banconote, alle edizioni dei canoni buddisti e taoisti, venivano pubblicati a stampa anche testi con destinazione molto diversa: dai calendari alle enciclopedie popolari, dalla poesia alla narrativa. Il tutto in un mercato di cui “we know tantalizingly little” (p. 52).
 

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