martedì 30 settembre 2014

Lost Zombies, Dead inside: do not enter

 
Lost Zombies, Dead inside: do not enter
Nel fine settimana ho sfogliato la versione elettronica di un libro insolito: Dead inside: do not enter (2011). Insolito non per l’argomento (che anzi è un luogo comune: l’apocalisse zombie) ma per il modo in cui lo racconta. Il libro infatti è composto quasi per intero da riproduzioni fotografiche di avvisi, appunti e lettere che, nella finzione, sono stati realizzati mentre un’epidemia di zombie travolgeva gli Stati Uniti. Gli autori facevano parte della rete sociale “Lost Zombies”, attiva con un proprio sito web dal 1 maggio 2008 al 22 marzo 2014 e nata con lo scopo di realizzare un finto documentario sulla catastrofe. A quel che ne so, il documentario poi non è mai uscito e il libro Dead inside è il prodotto più avanzato di questo progetto collettivo.
 
A livello generale, il tema è di grande successo ma non mi coinvolge troppo. Nella cultura americana, evidentemente, l’idea dei “morti viventi” tocca corde profonde. A me invece gli zombie classici sono sempre sembrati ben poco spaventosi, e la mia sospensione dell’incredulità non arriva al punto da vedere come una minaccia quelli che in fin dei conti spesso vengono presentati come esseri umani lenti e instupiditi, ancorché pronti a mordere. Né mi colpisce più di tanto il fatto che questi zombie spesso si ritrovino a cercare di ripetere ciò che facevano in vita, aggirandosi per esempio negli uffici o nei centri commerciali. Idea lanciata, credo, nei film di Romero, dotata di indubbie possibilità letterarie e ben sfruttata nel miglior romanzo che mi sia capitato di leggere su questo argomento, Zona uno di Colson Withehead. Però idea che, tutto sommato, si esaurisce in fretta.
 
Mi sento leggermente meno scettico davanti alle opere che razionalizzano l’effetto degli zombie come effetto di un’epidemia e che mostrano gli zombie stessi come versioni scattanti e minacciose degli esseri umani. È il caso, al cinema, di 28 giorni dopo e World war Z. Ed è un po’ il caso anche di questo libro, che per non sbagliare inserisce nel suo scenario questi zombie più vivaci (“runners”) accanto a quelli classici. Ma informazioni di contesto di questo genere sono molto poche, nel libro, e provengono da una prefazione. Il grosso dello spazio è invece occupato da fotografie che riproducono una raccolta di “documenti autentici” che, nella finzione, vengono ritrovati nello zainetto di una bambina che viene morsa dagli zombie e prontamente uccisa dall’autore della nota introduttiva.
 
I documenti sono interessanti per me perché, anche se finti, coprono in modo sorprendentemente verosimile il modo in cui oggi gli esseri umani usano la scrittura in una società moderna. O perlomeno, sul modo in cui la userebbero se, interrotta la corrente elettrica, i telefoni smettessero di funzionare e le stampanti di stampare (con qualche eccezione). Ci sono quindi bigliettini d’auguri riutilizzati, volantini stampati al computer e commentati con note a penna, lettere private, cartelli d’avviso, il calcio di un fucile occupato per intero da una lunga serie di tacche che si conclude con la parola “me”… Insomma, i modi molto variati in cui nella realtà si scrive e si usano le lettere per lasciare segni sul mondo. Incluso questo impiego creativo, anche se sfortunato, dei fogli con estremità trasformate in bigliettini:
 
Take a tab
 
Oppure questo esempio di come, sulla carta, sia quasi istintivo accoppiare parole e disegni per mostrare cose che sarebbero difficili da descrivere usando solo uno dei due sistemi:
 
Mappa di un morso
 
In quanto alla tipologia: il libro contiene 130 esempi di scrittura a mano in stampatello (maiuscolo o minuscolo) e solo 18 esempi di scrittura a mano in corsivo. Il corsivo viene però usato per diversi testi lunghi, alcuni dei quali evidentemente attribuiti a bambini, ed è di solito molto leggibile. Insomma, anche nella cultura americana il corsivo non è ancora uno zombie – anche se, realisticamente, in molti testi esposti al pubblico viene sostituito dal più standardizzato stampatello minuscolo – che in Italia è ancora oggi raro vedere in un cartello scritto a mano.
 
Certo, dal punto di vista narrativo i limiti di questa presentazione sono abbastanza evidenti. Buona parte dei “documenti” è ripetitiva e consiste di biglietti scritti da bambini spaventati o confessioni piene di atrocità. I singoli frammenti non mandano avanti una narrazione coerente e si limitano a mostrare sfaccettature di una catastrofe immaginaria che è già stata descritta in molte varianti in una moltitudine di film e romanzi. Parecchi testi, poi, sono proprio brutti – e in alcuni casi, pure ben poco leggibili come calligrafia. Tuttavia, è difficile per me non provare un po’ di fascino per questa idea, molto in linea con quanto mostrato dagli studi di antropologia della scrittura.
 
Il libro viene presentato come il frutto del lavoro collettivo dei membri di “Lost Zombies”. Del resto, la riproduzione di un numero così alto di mani diverse sicuramente sarebbe una sfida tecnica anche per un calligrafo molto smaliziato! Sui motivi per lanciare il prodotto oggi non riesco più a trovare informazioni in rete, ma sospetto che abbia contribuito molto una spinta ben poco concepibile in Italia: l’amore, più che per la fantascienza catastrofica, per gli aspetti formali della scrittura e per le sue varietà. Compresi questi giudizi sprezzanti ed estremi sul Comic Sans:
 
Comic Sans
 
Linguisti e addetti ai lavori, mi sembra, sottovalutano molto il radicamento della scrittura nelle società moderne e la varietà delle forme in cui la scrittura stessa si presenta. Un libro come questo, invece, parte evidentemente da una percezione chiara sia del radicamento sia della varietà. In questo senso, un po’ a sorpresa, pur essendo finzione è il prodotto più realistico che mi sia capitato di vedere. Oppure mi è sfuggito qualcosa di meglio?
 
Lost Zombies, Dead inside: do not enter, versione Kindle, Chronicle Books LLC, 2011, venduto da Amazon, € 6,99, ASIN: B005M0ZO86. Per leggere i testi nelle immagini un Kindle non basta e occorre almeno un computer o un tablet con uno schermo di discrete dimensioni (alcune immagini sono presentate in orizzontale, quindi la possibilità di ruotare facilmente lo schermo è molto utile). Per lezioni e presentazioni, ne ho ordinata anche una copia su carta.
 

martedì 23 settembre 2014

Testa, L’italiano nascosto

 
L’italiano nascosto di Enrico Testa è un libro importante. Mostra infatti in modo convincente come, per alcuni aspetti (non per tutti!), gli storici della lingua siano stati troppo pessimisti nel valutare la diffusione dell’italiano in età moderna.
 
Questo pessimismo è stato una costante negli studi di storia della lingua italiana del Novecento. Secondo una famosa stima di Tullio De Mauro, per esempio, così come viene presentata nella seconda edizione (Bari Laterza, 1970) della sua Storia linguistica dell’Italia unita, nel 1861 solo il 2,5% degli abitanti del neonato Regno d’Italia era in grado di parlare italiano. Punto di partenza del ragionamento erano i dati per cui “Nel 1862-63 la istruzione postelementare”, considerata già all’epoca necessaria per arrivare a un pieno possesso della lingua, “veniva impartita all’8,9 per mille della popolazione in età fra gli 11 e 18 anni” (p. 42). Da qui, De Mauro arrivava alla percentuale definitiva valutando che in Toscana e a Roma la vicinanza del dialetto alla lingua fosse tale da rendere sufficienti due anni di scuola per arrivare al possesso della lingua, e aumentando quindi i numeri sulla base degli italiani che, nelle aree indicate, raggiungevano questo livello di scolarizzazione.
 
Anche posizioni critiche successive come quella di Arrigo Castellani (arrivato a stimare una percentuale di italofoni pari al 10%) non hanno modificato molto il risultato di base. Che corrisponde senz’altro a una situazione reale, ma che al tempo stesso è un po’ difficile da raccordare a capacità linguistiche specifiche: a che cosa corrisponde, esattamente, la soglia di “effettiva e definitiva acquisizione” di cui parla De Mauro (p. 42)? Per avere qualche dettaglio in più occorre affidarsi al giudizio dei testimoni dell’epoca, spesso probabilmente non immune da esagerazioni.
 
Il problema della soglia se ne porta dietro un altro, perché la tentazione è stata spesso quella di vedere l’acquisizione dell’italiano come una specie di discrimine, in modo a volte poco verosimile dal punto di vista linguistico. L’italiano di metà Ottocento, e per estensione quello dei secoli precedenti, è stato spesso considerato come una lingua da un lato del tutto ignota al 97,5% della popolazione, dall’altro buona solo per la letteratura. Come ricorda Testa (p. 13), De Mauro arrivava a dire che:
 
Fuori di Roma e fuori della Toscana, al sistema linguistico italiano si faceva ricorso solo negli scritti e solo nelle occasioni più solenni (…) Per secoli, la lingua italiana (…) ha vissuto soltanto o quasi come lingua di dotti (citato dalla p. 27 della Storia linguistica dell’Italia unita).
 
L’italiano nascosto mostra che una posizione del genere è troppo estrema. Molti lavori recenti hanno infatti portato alla luce testimonianze di come l’italiano fosse in realtà piuttosto diffuso in tutta Italia in contesti del tutto estranei alla letteratura: nei tribunali, nella Chiesa, nella vita quotidiana. Mettendo a frutto queste ricerche, e basandosi quasi per intero su edizioni esistenti, nel primo capitolo del libro (Le scritture dei semicolti) Testa presenta in ordine cronologico una nutrita serie di esempi di testi “italiani” attribuibili a personaggi di non alto livello culturale. Spesso, beninteso, si tratta di testi linguisticamente molto lontani dallo standard, ma comunque giudicabili “italiani con qualche tratto dialettale”, e non “dialettali con qualche tratto di italiano”.
 
Per avere un’idea della varietà dei testi presentati e sinteticamente commentati nel libro, vale forse la pena fare l’elenco dei documenti da cui sono tratte le citazioni lunghe del primo capitolo (estese su più di una frase). Inserisco qui una descrizione dei documenti, chiusa dalla data di stesura e dal numero della pagina in cui inizia la citazione. Indico anche il luogo di origine degli autori, includendo la sigla della provincia attuale in cui si colloca, e il luogo di scrittura, nel caso si trovi in una provincia diversa; in diversi casi ho integrato dati non forniti nel testo. 
  • Confessione autografa di Bellezze Ursini da Collevecchio (RI), domestica e guaritrice: 1527 o 1528 (p. 24). 
  • Trascrizione del testo precedente, effettuata in contemporanea e negli stessi luoghi da Luca Antonio, notaio (p. 28) 
  • Lettera di Baldassarre da Orvieto (TR) al servizio di casa Orsini: scritta da Monterotondo (RM), 1539 (p. 31) 
  • Diario di Giorgio Franchi, parroco di Berceto (PR): 1551 e 1552 (p. 36) 
  • Lettera di Domenico Scandella detto Menocchio, mugnaio di Montereale (PN), ai suoi giudici: 1584 (p. 42) 
  • Deposizione di Anna Parolini da Plano (TN) a un processo per stregoneria: 1612-1614 (p. 49) 
  • Supplica al papa da parte degli abitanti del rione Campitelli di Roma (RM): 1610 (p. 55) 
  • Supplica al papa da parte del caporione e degli abitanti del rione Monti di Roma (RM): 1664 (p. 55) 
  • Ricorso anonimo, presentato a Roma (RM): 1685 (p. 55) 
  • Ricevuta scritta da Maddalena Morelli per conto di Giuseppe Morelli, fabbricante di sedie a Roma (RM): 1689 (p. 57) 
  • Cartello diffamatorio lasciato a Roma (RM): 1621 (p. 59) 
  • Diario o cronaca di Francesco Fongi, fabbro ferraio ad Alessandria (AL): 1690-1693 e 1696 (p. 61) 
  • Memoria difensiva di Giovanni Garbino, pescivendolo all’ingrosso a Genova (GE): 1747 (p. 68) 
  • Lettera di Francesco Elia da Asti (AT), servitore di Vittorio Alfieri, al conte di Cumiana: 1770, scritta da Pietroburgo (p. 74) 
  • Lettera di Antonino Fusco, amministratore di terre a Lentini (SR), al principe di Biscari: 1797 (p. 79) 
  • Cartello del brigante Carmine Crocco di Rionero in Vulture (PZ), esposto a Calvello: 1861 (p. 86) 
  • Lettera di ricatto del brigante Pasquale Cavalcante di Corleto Perticara (PZ) scritta a Calvello: 1862 (p. 87) 
  • Lettera di ricatto del brigante Gioacchino Longo (CZ?) scritta nella Sila (CZ?): 1865 circa (p. 88) 
  • Rapporto del generale Giuseppe Sirtori di Monticello Brianza (LC) scritto probabilmente ad Acri (CS): 1863 (p. 89) 
  • Lettera del tenente Pasquale Alamprese (PZ?) inviata da Ginestra (PZ) al giudice del Circondario di Barile: 1861 (p. 90) 
  • Lettera del mezzadro Domenico Mezzano (CN?) inviata da Cortemilia (CN) a Giuseppina Viola: 1859 (p. 94) 
  • Lettera del mezzadro Domenico Mezzano (CN?) inviata da Cortemilia (CN) a Giuseppina Viola: 1860 (p. 96) 
  • Lettera di Antonio D. di Rovigo (RO) alla famiglia, scritta nel manicomio di Genova (GE): 1916
Va detto subito che questa campionatura non esaurisce affatto i testi messi in luce negli ultimi anni, e che a loro volta le ricerche recenti non sono state affatto condotte in modo rappresentativo: ciò che è stato pubblicato e discusso rimane un campione casuale. Tuttavia, vale la pena notare che alcune caratteristiche della campionatura sembrano rappresentative. Per esempio, fino alle soglie dell’Unità non è affatto facile trovare testi “italiani” che provengano dal mondo contadino (e la popolazione italiana era, in assoluta maggioranza, parte di questo mondo), o dalle regioni meridionali. E il fatto che la documentazione seicentesca provenga quasi per intero da Roma si accorda con la tanto nota e precoce quanto eccezionale italofonia di quella specifica città, descritta in dettaglio da De Mauro per il periodo successivo.
 
Da un’analisi di questo tipo non può venir fuori la contestazione quantitativa delle stime di De Mauro, come Testa stesso riconosce. Il lavoro mostra però, con evidenza maggiore rispetto a ogni altra trattazione recente, due cose: che l’uso pratico della lingua esisteva; e che anche chi non riusciva a scrivere in modo del tutto aderente agli standard poteva comunque avere come punto di riferimento “un italiano comune, anche d’uso orale, unificato, al suo fondo, dalla persistenza di tratti nettamente condivisi” (p. 273). Un po’ meno interessanti a questo fine, al confronto, sono i tre capitoli successivi, dedicati a mostrare rispettivamente i Libri per leggere e libri per imparare rivolti a questo tipo di pubblico, le scritture meno sorvegliate che si trovano Nel retroscena dei letterati e, infine, Un volgare per la fede (cioè la produzione connessa alla chiesa cattolica, che in alcuni casi è anche opera di “semicolti” come quelli visti nel primo capitolo). In tutti questi casi, infatti, anche se compaiono ogni tanto esempi di lingua dei “semicolti” il grosso delle testimonianze proviene da letterati più tradizionali – dei quali nessuno ha mai messo in dubbio la capacità di scrivere in italiano, anche se a volte in modo volutamente semplificato e adattato ai destinatari.
 
Testa parla poi di un italiano dei “semicolti” che “si muove in un perimetro tracciato da forme relativamente unitarie” (p. 276). E in effetti, alcuni tratti di queste testimonianze, come l’uso di forme burocratiche, sorprendono per la loro costanza. Ma di sicuro occorrono descrizioni molto più estese e dettagliate prima che sia possibile indicare con una certa sicurezza le forme e le circostanze in cui il modello italiano riusciva a penetrare più a fondo e a sostituire più regolarmente il dialetto. Per esempio, quelli che Testa segnala come i tratti per cui i testi esaminati si allontanano maggiormente dall’italiano a livello fonologico sono anche in buona parte i tratti che oppongono molti dialetti d’Italia al toscano, e cioè:
 
il basso ricorso alla dittongazione; la tendenziale assenza dell’anafonesi toscana; la conservazione di ar protonico; la preposizione articolata dil e l’articolo plurale maschile li per ‘i’; le desinenze verbali della I pers. plur. dell’indicativo presente del tipo -amo, -emo; esiti anomali soprattutto nell’indicativo imperfetto e nel congiuntivo; il condizionale in -ia; e varie forme analogiche del verbo (p. 279).
 
Più interessante, nella mia ottica, è il fatto che una testimonianza indipendente della vitalità “pratica” della lingua arrivi da una fonte indipendente, e cioè da L’italiano d’oltremare, titolo del (breve) quinto capitolo del libro. La vitalità della lingua italiana all’estero è stata infatti notata, ma non valorizzata quanto sarebbe necessario – per il bacino del Mediterraneo e oltre, e dagli usi di alta diplomazia in giù. Non è insomma un caso, ma solo uno dei tanti esempi possibili, se a metà Seicento il pascià di Alessandria d’Egitto inviava al Granduca di Toscana lettere di questo tipo:
 
E però la prego quanto pregare la posso che non mi manche di consolarme con suoi lettere da me tante desiderate, perché altro non desidero che li suoi comandamente in quel che mi trova buono in questi parte: sempre sarò prontissimo in ogne suoi hoccasione. Non stendendome in altro mi resto con pregare Idio che li dia felicissime anne et a me dia gratia per servirla. Di Alessandria sotto li 4 aprile 1640 (citata a p. 267).
 
Dietro a queste lettere c’erano traduttori e mediatori professionisti, ma anche abitudini di comunicazione ben precise – al punto che nei territori ottomani e in generale in Medio oriente, fino alla Persia, l’italiano era usato non solo per comunicare con gli italiani, ma anche con gli altri europei (come nella lettera del dey di Tunisi ai governatori e consoli di Marsiglia citata a p. 270) e addirittura “tra occidentali di paesi diversi” (p. 269). Questa è una ricerca comunque ancora in buona parte da fare… e qualche piccolo contributo spero di poterlo mostrare anch’io durante il mio corso di Linguistica italiana II di quest’anno.
 
Enrico Testa, L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Torino, Einaudi, 2014, pp. VIII + 321, € 20, ISBN 978-88-06-21165-3; letto nella copia della Biblioteca LM1 dell’Università di Pisa.
 

martedì 16 settembre 2014

Gazoia, Come finisce il libro

 
Alessandro Gazoia, Come finisce il libro
L’editoria digitale è un settore in cui un po’ entro e un po’ esco. Aspetti pratici, problemi editoriali, questioni sociologiche… Per lavoro o per passione, ogni tanto mi ritrovo di nuovo a trafficare con tutto questo. Poi arrivano altre faccende e mi trovo a lasciar cadere il discorso; ma ogni tanto si ricomincia.
 
Adesso mi è stato gentilmente prestato da Dario Besseghini un libro di Alessandro Gazoia, noto anche come “jumpinshark” – parola che è anche il titolo del suo blog. Il libro si intitola, con leggero paradosso, Come finisce il libro e riporta un ambizioso sottotitolo: Contro la falsa democrazia dell’editoria digitale (Roma, minimum fax, 2014, pp. 207, € 10, ISBN 978-88-7521-576-7). L’ho letto con piacere, ma mi sono rimaste anche diverse perplessità.
 
Innanzitutto, i lati positivi. Il libro è scritto molto bene ed è piacevole da leggere. Al di là di Introduzione e “Conclusione”, è diviso in tre parti, “Pubblicare”, “Digitale” e “Miti / Social”, e già nella prima ci sono diverse sezioni che ho apprezzato. Per esempio quelle in cui si ricorda che mode recenti, come l’autopubblicazione, in realtà hanno precedenti precisi nel mondo editoriale. Pare incredibile, ma molte discussioni recenti sull’editoria elettronica partono dal presupposto che “prima” il mondo fosse diviso in un bianco e nero, editoria cartacea da centomila copie oppure nulla. Viceversa, come ben ricorda Gazoia, c’era e c’è tuttora un “continuum”, che va dalle fotocopie agli editori a pagamento o alle pubblicazioni amatoriali, e le “vecchie riviste e fanzine di fumetti, musica, cinema e letteratura proiettano ancora oggi la loro ombra lunga nei mille blog culturali in rete” (pp. 53-54). Le dimensioni del fenomeno sono cambiate, ovviamente, ma forse non tanto quanto si potrebbe pensare.
 
Al di là di questo, Gazoia presenta in modo competente dati interessanti su molte evoluzioni recenti dell’editoria digitale. Cosa splendida per chi, come me, si ritrova appunto a seguire queste cose un po’ sì e un po’ no, e nella pratica si è perso molte vicende collegate per esempio alla diffusione in Italia del Kindle Direct Program, e così via. A livello internazionale, Gazoia richiama poi diverse sfaccettature rilevanti all’interno del movimento verso l’autopubblicazione: dai successi di E. L. James o di Hugh Howey fino alla diffusione dei servizi che offrono recensioni favorevoli, a pagamento, per i libri in vendita su Amazon. Tutto molto interessante.
 
L’analisi d’assieme è però piuttosto leggerina e non si avvicina nemmeno lontanamente a fornire un quadro d’assieme che giustifichi davvero, come minimo, titolo e sottotitolo. Ampio spazio viene dato per esempio al problema dei DRM (seconda parte) o alla descrizione di alcuni aspetti del fenomeno della fan fiction (terza parte), ma i dettagli non contribuiscono affatto a spiegare che rapporto ci sia tra tutto questo e una potenziale “fine del libro”. Le descrizioni restano frammenti: forniscono molte informazioni interessanti e che spesso non conoscevo, ma non si combinano molto tra di loro e non portano molto lontano. Beninteso, nessuno chiede onniveggenza, intelligenza infinita e preveggenza sovrumana… ma il libro di Gazoia, pur con i suoi aspetti positivi, è molto lontano dal livello che in Italia è stato raggiunto con La quarta rivoluzione di Gino Roncaglia.
 
Cito un paio di aspetti su cui mi piacerebbe per esempio, da lettore, leggere qualche analisi più motivata. Intanto, negli ultimi mesi ho letto un po’ di narrativa “disintermediata”, pubblicata direttamente dagli autori, e i risultati sono stati… uhm, piuttosto soddisfacenti ma anche molto variabili. Ci sono infatti, mi sembra, aspetti dell’editoria tradizionale di cui i lettori possono fare volentieri a meno, mentre altri aspetti meriterebbero aggiunte – ma sono pareri condivisi? Non lo so. Uno sviluppo che invece noto da tempo con favore è la trasposizione di molta cultura “alta”, letteraria e poetica, in un giro fatto di blog e pubblicazioni elettroniche e dotato nel complesso di assai minore prestigio rispetto alle riviste letterarie di una volta. Il che è giustissimo, e credo che ponga rimedio a una curiosa aberrazione storica del secondo Novecento. Però il tutto meriterebbe discussioni ben più approfondite, sia come dati sia come capacità di analisi, di quelle viste finora. Speriamo di leggerle presto!
 

giovedì 11 settembre 2014

Novelli, Si dice? Non si dice? Dipende

 
Novelli, Si dice? Non si dice? Dipende
Chi ha seguito uno dei miei corsi di scrittura sa che la mia risposta normale alle domande è: “Dipende”. Si può iniziare una lettera in questo modo? Dipende. Posso scrivere questa cosa in una relazione? Dipende.
 
D’accordo, è chiaro che poi nella risposta si passa di regola a dire qualcosa di molto più definito, perché questo “dipende” dipende da fattori ben precisi: destinatari, circostanze e obiettivi della comunicazione. Una volta determinati questi fattori, si arriva quindi quasi sempre a un sì o a un no abbastanza secco. Resta il fatto che gli interlocutori, di regola, presentano i propri dubbi in termini tanto generali (si può? / non si può?) che nella realtà dell’italiano è necessario come prima parte della risposta fare tutta una serie di puntigliose precisazioni.
 
È chiaro quindi che il libro di Silverio Novelli Si dice? Non si dice? Dipende (sottotitolo: L’italiano giusto per ogni situazione, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. XXII + 195, € 16, ISBN 978-88-581-1013-3) non può non piacermi fin dal titolo. Aggiungiamo poi che il libro mi è stato gentilmente spedito da Silverio stesso, che è un amico con cui mi capita di lavorare abbastanza regolarmente da quasi vent’anni, e si capirà che questa recensione non può essere troppo imparziale!
 
La base del libro è data poi dall’attività di Silverio stesso negli ultimi dieci anni all’interno della sezione Lingua italiana – domande e risposte del portale Treccani. Il corpo del testo, dopo l’introduzione, è quindi formato dalle dettagliate risposte a una gran quantità di dubbi linguistici. Dopo due capitoli iniziali su La pronuncia e la grafia e La punteggiatura, l’esposizione è articolata secondo le tradizionali parti del discorso. Restano fuori, curiosamente, solo le interiezioni; e dico “curiosamente” perché, nella mia esperienza, molti italiani hanno un bel po’ di dubbi sia sull’ammissibilità stessa delle interiezioni in certi tipi di scrittura, sia, in modo ancora più radicale, sulla grafia delle interiezioni stesse. Cioè, l’uso prescrive per esempio ehi o boh, ma molti italiani scrivono hei, hey, bho e così via.
 
La presentazione in sé è poi, in primo luogo, competente e dettagliata. Anche gli addetti ai lavori possono imparare molte cose leggendo il libro – o perlomeno, questo è quanto è successo a me! In secondo luogo, l’assieme è molto più leggibile di quanto sarebbe lecito aspettarsi da una serie di consigli grammaticali marcati da simboli (137 in tutto, se ho ben contato; e sui simboli dirò qualcosa di più tra poche righe). Silverio ha scelto infatti di dare al tutto un andamento narrativo, tenuto assieme da molti richiami alla narrativa di fantascienza e, soprattutto, ai film e ai telefilm di fantascienza. Altri punti a favore, nella mia prospettiva… E, in terzo luogo, i consigli sono ragionevolissimi e riflettono un ampio consenso – i casi in cui io sceglierei altre soluzioni sono molto, molto pochi. Per esempio, nella declinazione dei plurali delle parole latine, io accetterei senza problemi “curriculum” anche come plurale, in alternativa a “curricula” (p. 79); ma i casi di questo tipo sono appunto rari.
 
Veniamo però al discorso dei simboli. Silverio ha deciso di qualificare il “dipende” usando come sostegno anche sette simboli che individuano diverse circostanze d’uso. Eccoli (da p. 2):

I simboli usati da Silverio Novelli
In questa soluzione apprezzo particolarmente il fatto che la “lingua scritta informale” sia messa in implicito parallelo alla “lingua parlata spontanea”. La scelta è in effetti testimonianza di quanto oggi sia ragionevole descrivere il rapporto tra scritto e parlato in questo modo: due canali di comunicazione che hanno strettissimi rapporti fra di loro, ma sono anche al tempo stesso autonomi, al punto che in entrambi si può avere una contrapposizione tra il “formale” e l’“informale” (o “spontaneo”). Che lo scritto informale sia simboleggiato da uno smartphone è poi testimonianza di quanto sia stato fondamentale, per diffondere e rendere visibile ciò che in misura minore esisteva anche in precedenza, il ruolo della comunicazione elettronica in italiano.
 

venerdì 5 settembre 2014

Si ricomincia?

 
Ricostruzione di scaffali di biblioteca romani (e relativi contenuti)
Bene, è stata lunga. Al solito, mesi di lavoro con poco margine per il resto… Dalla prossima settimana, spero di riuscire a tornare in linea con contributi regolari!
 
Nel frattempo, una parentesi. Lo scorso fine settimana l’ho impiegato in una girata di famiglia, molto gradevole, a Roma. Al Colosseo abbiamo fatto una visita guidata; io ne ho approfittato per vedere una mostra ospitata al primo piano e intitolata La biblioteca infinita.
 
Il titolo non è molto appropriato e la mostra è disomogenea, ma ha diversi punti di forza. L’obiettivo era presentare le biblioteche dell’antichità partendo da (o arrivando a) alcune scoperte archeologiche recenti, e un po’ marginali, sulle biblioteche della città di Roma. I contenuti sono quindi molto divulgativi in alcune sezioni, molto specifici in altre.
 
Tra gli aspetti positivi c’è l’inclusione di alcuni pezzi splendidi, come l’“ara degli scribi”, che immortala in due scenette la produttività di scribi e librai in età giulio-claudia. O gli affreschi del teatro di Nemi, veramente notevoli per il modo in cui presentano gli oggetti di uso quotidiano per gli attori (molte immagini pertinenti sono disponibili qui).

Ci sono poi anche alcune ricostruzioni di livello passabile, come l’armadio con rotoli e codex che si vede qui nella foto di apertura. Tuttavia è curioso, anche se molto italiano, che gli oggetti moderni siano messi sotto vetro, che il papiro sia sostituito dalla carta e che i rotoli di finto papiro siano privi di testi... chissà quanta competenza e quanti soldi richiede la ricostruzione di libri veri, fatti con papiro vero, contenenti testi classici originali copiati a mano e lasciati maneggiare dai visitatori.

Comunque, gli oggetti interessanti sono talmente tanti che alla fine non ho resistito e mi sono comprato il catalogo Electa: € 29,90 per un discreto condensato di riproduzioni (meno rilevanti, a una prima lettura, i contributi testuali). E poi, via, è una mostra dentro al Colosseo! Con l’arco di Costantino subito fuori, e il foro, e la via dei Fori imperiali, eccetera. Insomma, un buon auspicio. Adesso spero di ripartire davvero.