giovedì 31 gennaio 2013

Bianchi, Castelli e Tavosanis: Analisi dei fenomeni di contatto...

 
Lessico e lessicologia, a cura di Silvana Ferreri
Mentre ero a Hong Kong, è uscito il volume Lessico e lessicologia (Roma, Bulzoni Editore, ISBN: 8878706558), a cura di Silvana Ferreri, che raccoglie gli atti del convegno della Società di linguistica italiana (SLI) tenuto a Viterbo dal 27 al 29 settembre 2010.

All’interno c’è anche un contributo scritto da Elisa Bianchi, Margherita Castelli e me: Analisi dei fenomeni di contatto fra inglese e italiano nella piattaforma MOODLE e nei forum di HTML.it (pp. 325-342). Il titolo spiega già buona parte del contenuto… da parte mia, però, aggiungo che è stato abbastanza sorprendente vedere, nelle coppie di sinonimi, la prevalenza delle parole italiane rispetto all’equivalente inglese, anche in contesti molto informali.

In sostanza, questo significa che nelle raccolte che abbiamo messo insieme “thread” è un po’ più frequente di “discussione”, ma “tracciamento” è più frequente di “tracking”, “utente” è molto più frequente di “user”, eccetera. La percentuale complessiva, alla fine, è del 70% di forme italiane contro il 30% di forme inglesi nelle discussioni degli utenti di Moodle, e del 65% contro il 35% in quelle degli utenti di HTML.it. Anche se, certo, la pressione della lingua inglese è forte, e produce esiti interessanti anche nella formazione di composti nominali (“invio mail”, eccetera).
 

martedì 29 gennaio 2013

Enciclopedia dell’italiano

 
Enciclopedia dell'italiano
Dopo un mese di uso, sono soddisfatto nella sostanza e un po’ perplesso su alcuni dettagli della struttura. L’Enciclopedia dell’italiano diretta da Raffaele Simone è un’opera di dimensioni ragguardevoli: xxix + 1681 pagine di grande formato, su due colonne (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010; l’edizione che ho comprato io è in volume singolo, datata 2011, ISBN 978-88-12-00048-7, ma quella principale è in due volumi). Sarebbe presuntuoso dare un giudizio d’assieme dopo averne letto, in totale, poche decine di pagine. Però qualche cosa si può forse dire lo stesso, e mi sento di confermare i giudizi che avevo dato in un post di un mese fa e nei relativi commenti.
 
In primo luogo, l’alta qualità delle voci che ho usato corrisponde a lacune sorprendenti dal punto di vista strutturale. Se si vuole sapere quante persone sono in grado oggi di parlare italiano, l’Enciclopedia dell’italiano non fornisce nessuna risposta… eppure questa non è un’informazione da poco, per una lingua! Quante persone parlano italiano in Italia? Mistero. Quante fuori d’Italia? Non si dice nulla.
 
Molte voci fermano poi la propria trattazione in punti arbitrari. Per esempio, la voce sull’Italiano in Europa (di Harro Stammerjohann) tratta l’argomento fino al Settecento. Che cosa è successo nell’Ottocento? O nel Novecento? O all’inizio del terzo millennio? In pratica, su questi periodi storici non viene detto nulla.
 
Altre scelte sono discutibili a livello forse più soggettivo, ma non molto. Per esempio, ci sono voci dedicate alla lingua di alcune delle principali città italiane: Milano, Napoli, Palermo, Torino, Roma, Venezia. Si può discutere sull’inserimento di Palermo al posto di Genova… ma non è chiaro il motivo per cui è stata esclusa invece Firenze, che ha avuto per secoli un ruolo modellizzante e perfino oggi, anche solo come centro urbano, non ha certo un peso inferiore a quello di Venezia. Del resto, poi, al rapporto tra italiano e toscano non è dedicata nemmeno una voce apposita – ce n’è una di Silvia Calamai sui Dialetti toscani, e stop. Il che è piuttosto strano!
 
Comunque, queste stranezze strutturali non tolgono nulla al valore delle singole voci, che appunto ho cominciato a usare in abbondanza. E va detto che dal punto di vista comunicativo l’Enciclopedia ha una caratteristica fantastica, anche se poco pubblicizzata: è raggiungibile anche online, attraverso il Portale Treccani, che mette gratuitamente a disposizione del pubblico del web tutti i contenuti dei volumi!

Certo, dal punto di vista della consultazione non mi sembra ci sia un sistema per limitare la ricerca solo a queste voci, e l’interfaccia è ben poco trasparente e usabile: come scriveva Licia, il modo migliore per leggere le voci sembra stanarle tramite Google. Ma resta il fatto che la pura e semplice quantità del materiale messa a disposizione in questo modo è tale da colmare da sola la lacuna nell’informazione linguistica e grammaticale disponibile sul web di cui parlavo non troppo tempo fa.

[Per trasparenza: io ho scritto due contributi per la rivista del Portale Treccani, e spero di scriverne altri in futuro.]
 

lunedì 28 gennaio 2013

Quanti italiani all’estero sanno parlare italiano?

 
Bella domanda. Alla fine della scorsa settimana ho fatto appunto qualche altro intervento sulla voce di Wikipedia Lingua italiana, in risposta a interventi di un altro utente, e rielaborando a fondo una sezione.
 
E allora, quanti italiani all’estero (includendo sia i cittadini italiani, sia le persone di discendenza italiana che però non hanno cittadinanza italiana) possono parlare italiano? Sull’argomento tace, se ho ben visto, l’Enciclopedia dell’italiano; e tace anche, il che è più sorprendente, la Storia linguistica dell’emigrazione italiana nel mondo a cura di Massimo Vedovelli (anche se in entrambi i volumi si trovano dati relativi a singole situazioni).
 
In compenso dice qualcosa di specifico il libro di Barbara Turchetta Il mondo in italiano (Roma-Bari, Laterza): che è del 2005, ma descrive una situazione che probabilmente in questi ultimi anni non è troppo cambiata. La risposta che viene fornita qui, e che ho visto spesso citata, è: “circa 4.000.000” (p. 14). Mi sembra però che le cose siano assai meno chiare di come sono descritte nel libro.
 
Il modo in cui Barbara Turchetta arriva al suo dato è abbastanza diretto. I quattro milioni sono infatti i cittadini italiani che risultano iscritti all’Anagrafe Italiana Residenti Estero. Quest’ultima includerebbe infatti solo cittadini che “provengono da residenze anagrafiche in Italia ed erano quindi precedentemente iscritti anagraficamente presso comuni italiani” (p. 13). Non includerebbe invece coloro che hanno acquisito “la cittadinanza in quanto oriundi fino alla quarta generazione” (p. 13). In altri termini, i figli (nati all’estero) di cittadini italiani, o loro discendenti, che spesso “non sono mai di fatto vissuti in Italia”.
 
La spiegazione del libro si fa qui però confusa, perché subito dopo si dice che
 
Come conseguenza di ciò [cioè, sembra di capire, del fatto che molti oriundi non sono neanche mai stati in Italia] molti iscritti all’AIRE non sono stati scolarizzati in italiano né hanno mai parlato la nostra lingua in contesti formali e non, non avendo neanche appreso l’italiano in famiglia (p. 13).
 
Il discorso non è chiaro. Ma il punto è che, contrariamente a quanto detto nel libro, l’AIRE non registra solo cittadini che “provengono da residenze anagrafiche in Italia”: il Ministero dell’Interno dice anzi esplicitamente che devono iscriversi all’AIRE sia “i cittadini nati e residenti fuori dal territorio nazionale, il cui atto di nascita è stato trascritto in Italia e la cui cittadinanza italiana è stata accertata dal competente ufficio consolare di residenza” sia “le persone che acquisiscono la cittadinanza italiana all’estero, continuando a risiedervi”.
 
Piuttosto discutibile mi sembra quindi anche la conclusione, che porta l’autrice a fornire appunto la stima dei quattro milioni: “risulta evidente che, sebbene il numero di cittadini italiani residenti all’estero si avvicini a quello degli italofoni all’estero, esso è certamente in eccesso rispetto a quest’ultimo” (p. 13). Sicuro?
 
Prescindendo dalla poco chiara frase citata sopra, le idee alla base del discorso di Barbara Turchetta mi sembrano queste:
  1. Chi è nato in Italia è in grado di parlare italiano, anche se è emigrato all’estero
  2. Chi è nato all’estero non è in grado di parlare italiano, anche se figlio di uno o due genitori italiani
 
Il primo punto sembra abbastanza realistico. Oggi gli italiani residenti all’estero ma nati in Italia rappresentano in buona parte, direi, generazioni nate dopo la guerra, quando il contatto con la lingua italiana ha cominciato a essere diffuso – sono generazioni nate da genitori che in Italia hanno avuto probabilmente un po’ di scolarizzazione, e hanno spesso visto il cinema o sentito la radio. Quindi si può dare per scontato che un rapporto con l’italiano ci sia.
 
Il secondo punto sembra confermato all’ingrosso da quel che sappiamo sull’evoluzione delle comunità italiane, ma presenza di sicuro numerose eccezioni. La mia famiglia è, credo, rappresentativa da questo punto di vista. Da un lato, infatti, esistono numerosi Tavosanis d’Argentina, emigrati dalle terre patrie a inizio secolo… e nessuno di loro è ovviamente in grado di parlare italiano. Dall’altro, visto che mia sorella è esempio di emigrazione più recente, o di ciò che oggi si chiama “fuga dei cervelli”, tre miei nipoti sono nati in Germania ma sono perfettamente capaci di parlare italiano (anche se con accento tedesco), di guardare film in italiano, eccetera.
 
Oppure: negli Stati Uniti risultano oggi residenti, secondo l’AIRE, poco più di 200.000 cittadini italiani, ma nel censimento del 2000 i cittadini americani che dichiaravano di parlare italiano in famiglia sono risultati circa un milione. In molti casi avranno parlato in realtà un dialetto, e molti di loro saranno stati molto anziani, ma sospetto che negli Stati Uniti le persone capaci di parlare italiano oggi siano comunque più numerose dei cittadini italiani residenti! Un dato relativo al 2007 fornito dall’United States Census Bureau valuta ancora i parlanti italiano a più di 700.000, cioè più del triplo rispetto ai cittadini italiani residenti nel paese.
 
Insomma, se da un lato molti iscritti all’AIRE non saranno in grado di parlare italiano, dall’altro ci sono di sicuro moltissime persone in grado di parlare italiano e non iscritte all’AIRE. Temo quindi che non ci sia scampo: per arrivare a una valutazione più credibile del numero di italiani all’estero in grado di parlare italiano, occorre fare un lavoro più di fino, e vedere di integrare meglio i dati disponibili. E magari procurarsene di nuovi!
 

martedì 22 gennaio 2013

Ferguson, Engineering and the mind’s eye

 
Ferguson, Engineering and the mind's eye - in parte su Google Books
Negli anni ho sviluppato una profonda diffidenza nei confronti degli imbonitori che promettono di rendere ogni cosa più chiara attraverso immagini, animazioni, 3D , eccetera. Nel settore in cui lavoro io, infatti, in prima approssimazione nessuno di questi strumenti ha la minima utilità. Un accordo non si redige manipolando simboli, una relazione non si scrive interagendo con un’animazione tridimensionale, un libro non si capisce esaminando un grafico e così via.
 
In altri settori, però, le cose stanno in modo diverso. Engineering and the mind’s eye di Eugene S. Ferguson (Cambridge, Massachusetts, MIT Press, 1992, pp. xiv + 241, ISBN 0-262-06147-3) è per esempio un’esaltazione del pensiero “visivo” nel mondo dell’ingegneria (nota: anche se le parole inglesi engineer ed engineering hanno un significato più esteso rispetto a ingegnere e ingegneria in italiano, penso che ai fini di questo commento si possa sorvolare sulle differenze).
 
Le idee di base dell’autore sono esposte in modo chiaro nella prefazione. Ferguson nota infatti che i prodotti moderni, pur essendo influenzati dalla scienza, sono determinati principalmente dalla tecnologia e dalle capacità creative dei progettisti. Il processo di progettazione, d’altra parte, si basa pesantemente su ciò che è stato fatto in passato. Come dice l’autore più avanti:
 
An auto engine is an everyday machine whose existence 500 years ago is impossible to imagine. Yet except for the electrical components – the ignition coil and the spark plugs – nearly all of its elements were known when Leonardo was alive (1452-1519) (p. 63).
 
Questo rapporto di continuità viene descritto da Ferguson soprattutto nel terzo capitolo (intitolato Origins of modern engineering), che mostra la continuità della tradizione ingegneristica dagli apparecchi romani di pompaggio fino alle soluzioni moderne, dedicando spazio soprattutto al Rinascimento italiano, da Brunelleschi a Francesco di Giorgio Martini e Leonardo, fino a Domenico Fontana. Nel quinto capitolo (The development and dissemination of engineering knowledge) si parla invece soprattutto del periodo che va dal Cinquecento al Ottocento, fino alla formazione di una pratica ingegneristica più scientifica.
 
Il punto di forza del libro, però, più che nella sintesi storica sta nell’esaltazione dei principi che si trovano alla base della tradizione ingegneristica. In particolare, Ferguson insiste molto sull’importanza dell’“occhio della mente” (The mind’s eye è anche il titolo del secondo capitolo). Nella sua ricostruzione, infatti, il pensiero “ingegneristico” lavora principalmente per immagini. Immagini che spesso si possono tradurre in parole e numeri solo attraverso un lavoro lungo e difficile, documentato facendo riferimento non solo al lavoro degli ingegneri ma anche a quello dei fisici del Novecento, incluso Einstein.
 
Nel lavorare con le immagini, lo strumento essenziale dell’ingegnere diventa quindi il disegno tecnico, con il suo “graphic language” (p. 3), descritto soprattutto nel quarto capitolo. In parte per riflettere tra sé; in parte per dare istruzioni ad altri; e in parte per discutere con i colleghi:
 
In the 1980s, a young engineer in the design division of a “mid-size, mid-tech” machine works equipped with computer-assisted design equipment, commented on her initial surprise at the customary mode of communication. Two designers never “just sit down and just talk,” she said. “Everybody draws sketches to each other.” (…) Kathryn Henderson, a sociologist who is studying the politics of engineering design at first hand in design departments of several industries, remarked on the way talking sketches were made: she “observed designers actually taking the pencil from one another as they talked and drew together on the same sketches” (p. 97).
 
Il sesto capitolo (The making of an engineer) apre la sezione polemica del libro: quella in cui Ferguson critica il modo in cui il sistema universitario americano, dopo la Seconda guerra mondiale, ha marginalizzato la conoscenza visiva e l’aspetto artigianale dell’ingegneria, favorendo invece un approccio “analitico” basato sulla matematica e sulle conoscenze scientifiche – più prestigioso e al tempo stesso più facile da insegnare.
 
Dal recente passato Ferguson passa poi al presente e al futuro nel settimo capitolo, The gap between promise and performance. Questa è forse la parte più debole del libro, in quanto parte dal presupposto che i primissimi anni Novanta abbiano visto una “harrowing succession of flawed designs” (p. 171) nei prodotti ingegneristici americani. Il che è senz’altro vero, ma la domanda è: sono errori che con un diverso sistema di formazione degli ingegneri si sarebbero potuti evitare? E sono più numerosi rispetto al passato? Gli esempi di Ferguson sono infatti aneddotici o speculativi, dai problemi del telescopio spaziale Hubble fino a quelli del sistema di protezione dell’incrociatore Vincennes, e non permettono certo di dare un giudizio comparativo sulla diversa qualità dei due sistemi.
 
Il lavoro si conclude comunque con un’appassionata rivendicazione della natura artigianale e non formalizzabile di buona parte della conoscenza ingegneristica:
 
No matter how vigorously a “science” of design may be pushed, the successful design of real things in a contingent world will always be based more on art than on science. Unquantifiable judgments and choices are the elements that determine the way a design comes together. Engineering design is simply that kind of process. It always has been; it always will be (p. 194).
 
Io, inutile dirlo, simpatizzo molto con questo discorso. Che nel campo della scrittura è sicuramente altrettanto valido.
 

lunedì 14 gennaio 2013

Bibliografie nelle voci di Wikipedia

 
Adattamento di una vignetta di Randall Munroe - da Wikimedia Commons
Nel fine settimana (in pochi minuti, perché avevo poco tempo) ho cominciato a inserire una bibliografia ragionata in fondo alla voce Lingua italiana di Wikipedia.
 
Una riflessione basata sull’esperienza: in Italia l’abitudine di indicare le proprie fonti di informazione non è molto diffusa. Nei temi non ci sono note. Negli articoli di giornale nemmeno. Quando si legge un articolo di giornale e si leggono informazioni virgolettate, non è facile capire chi le abbia fatte (o, se l’indicazione c’è, bisogna sperare che non sia inventata).
 
Wikipedia ha uno standard alto da questo punto di vista – e in passato ciò l’ha resa anche un utilissimo strumento didattico per i miei studenti. L’uso del “senza fonte” / “citation needed”  è in effetti un ottimo strumento per far capire a chi scrive che l’affermazione appena fatta è, oggettivamente, discutibile. Eccetera.
 
Insomma, l’uso di Wikipedia dovrebbe essere incoraggiato anche solo per diffondere in Italia l’abitudine a indicare correttamente l’origine delle informazioni. In molte voci c’è però ampio spazio per migliorare, e per indicare al lettore interessato, per esempio, almeno i testi per i primi approfondimenti.
 

sabato 12 gennaio 2013

Schermi flessibili

 
Il limite stimola l’inventiva. A una prima visione, questi schermi flessibili dimostrano, più che una, due buone idee:
 
 
La prima idea è ottima, ed è la più evidente: uno schermo minimo, flessibile, che lascia molte possibilità per la creazione di interfacce innovative. Poi, a me non piace l’aspetto plasticoso di quel che si vede nel video, ma, appunto, le promesse sono tante.
 
La seconda idea sarebbe banale, se non fosse che nessuno la ripropone: perché non separare di nuovo gli schermi e i computer? Adesso non è più questione di collegare al computer un tubo catodico, ma un dispositivo con una maneggevolezza diversa. Chiaro che avere tutto in un unico blocco fisico è meglio, dal punto di vista dell’interazione dei componenti, ma per esempio, perché non usare come tablet uno schermo minimo, collegato wireless o addirittura con un cavo fisico al computer-madre?
 
In molti contesti (per esempio, nell’ordinario lavoro di ufficio) una combinazione del genere potrebbe essere vincente. Tipo, normalmente uso lo schermo per leggere, o magari ci prendo appunti con una penna. Poi, se ho bisogno di una tastiera accendo la tastiera e la faccio riconoscere allo schermo, se ho bisogno di una chiavetta USB c’è un dock fisso in cui posso inserirla, se devo trasferire finestre con file e applicazioni da un dispositivo all’altro posso farlo con comodità, eccetera.
 

venerdì 11 gennaio 2013

Linguistica su Wikipedia: diamo i numeri

 
Dicevo qualche giorno fa che non è facile capire quanto siano lette le pagine di Wikipedia con informazioni dedicate ad argomenti linguistici. Adesso però ho trovato un sito che fornisce (credo) una parte della risposta.
 
Il sito è linkato da una pagina di Statistiche di Wikipedia in lingua italiana, ma le informazioni sulla sua attività sono molto ridotte. Come fonte dei dati viene dichiarato un sito di Wikimedia, mentre, se capisco bene, una pagina presenta le 1000 voci di Wikipedia in lingua italiana più visitate nel dicembre 2010 (sì, solo per quel mese).
 
La classifica disponibile sembra dominata da film, calciatori e serie televisive. La pagina più visitata risulta quella dedicata alla Banda della Magliana (con 427.630 visualizzazioni in un mese), il che è strano, anche se sospetto che nel dicembre 2010 ci sia stato in televisione qualcosa su questo argomento – ma in sostanza la lista sembra piuttosto plausibile.
 
Sulle 1000 prime voci, ce ne sono sei (non poche, tutto sommato) che secondo me possono rientrare a pieno titolo nell’area linguistica:
 
Alfabeto greco – numero 335 nella classifica (37.370 visualizzazioni)
 
Lingua italiana – numero 433 (33.034 visualizzazioni)
 
Alfabeto fonetico internazionale – numero 685 (26.370 visualizzazioni)
 
Grammatica italiana – numero 699 (26.223 visualizzazioni)
 
Dislessia – numero 813 (24.378 visualizzazioni)
 
Lingua inglese – numero 895 (23.104 visualizzazioni)
 
Dalla lista terrei fuori voci che in realtà hanno solo una parentela lontana con la linguistica, come Locuzioni latine – 182 (50662 visualizzazioni) o Terminologia di One Piece – 648 (27190).

Il sito offre anche, dalla home page, la possibilità di ricavare il numero di visualizzazioni delle singole voci in altri periodi, fino a oggi. Per le sei voci indicate sopra, per esempio, il totale delle visualizzazioni nel dicembre del 2012, ultimo mese completo, risulta questo:
 
Alfabeto greco: 36.142 visualizzazioni
 
Lingua italiana: 28.067 visualizzazioni
 
Alfabeto fonetico internazionale: 10.799 visualizzazioni
 
Grammatica italiana: 10.991 visualizzazioni
 
Dislessia: 28.320 visualizzazioni
 
Lingua inglese: 19.286 visualizzazioni
 
Il calo è notevole per tutte le voci (a parte Alfabeto greco, che rimane stabile, e Dislessia, che aumenta di molto), ma i numeri sono comunque elevati. Circa trentamila visualizzazioni al mese vogliono dire, per esempio, 360.000 visualizzazioni all’anno. Per cui, sì, ho il sospetto che oggi in Italia la singola fonte di informazioni linguistiche più importante sia proprio Wikipedia.
 

giovedì 10 gennaio 2013

Il peso del fiorentinismo di Manzoni

 
Francesco Hayez, Ritratto di Alessandro Manzoni, da Wikipedia in lingua italiana
Ieri ho fatto qualche altro intervento sulla voce Lingua italiana di Wikipedia. Soprattutto ho riscritto un capoverso che, nella sezione Diffusione dell'italiano nell'uso quotidiano, diceva:
 
L'italiano rimase lingua di uso quotidiano per fasce molto ridotte della popolazione almeno fino alla seconda metà dell'Ottocento. A questo punto si deve a un altro pioniere della lingua italiana, Alessandro Manzoni, l'aver adottato il fiorentino come lingua ufficiale dell'Italia, che proprio allora stava nascendo come nazione. La sua decisione di donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta nel celebre proposito di «sciacquare i panni in Arno»,[12] fu il principale contributo di Manzoni alla causa del Risorgimento.[13]
 
Al di là dell’uso di definizioni di tipo giornalistico cui è molto difficile dare un senso preciso (tipo “pioniere della lingua italiana”), dal punto di vista scientifico in queste poche frasi ci sono molte cose che non vanno. Per esempio, Manzoni non “adottò” affatto il fiorentino “come lingua ufficiale dell’Italia”. Né si vede come un singolo cittadino, sia pure Senatore del Regno d’Italia nell’ultima parte della propria vita, avrebbe potuto farlo. E anche le date non tornano.
 
Al di là della faccenda della “lingua ufficiale”, però, la scelta fiorentina di Manzoni ha davvero lasciato un segno sull’evoluzione successiva dell’italiano?
 
Di sicuro, Manzoni ha contribuito moltissimo all’avvicinamento della lingua scritta a quella parlata. E alla fine dell’Ottocento l’imitazione del fiorentino parlato divenne di gran moda nella letteratura italiana. Tuttavia, è altrettanto evidente che molti tratti linguistici fiorentini lanciati da Manzoni e dai manzoniani non sono stati poi conservati dalla lingua: come si dice spesso, il dizionario di Giorgini e Broglio (pubblicato dal 1870 al 1897) si intitolava Novo vocabolario, alla fiorentina, ma l’italiano del Novecento ha saldamente seguito il modello dittongato degli scrittori del Trecento e della tradizione, e ha continuato a scrivere novo, buono e così via. E nei Promessi sposi un filatore lombardo può dire “La c’è la Provvidenza!”, ma oggi al telegiornale non si dice “La c’è una novità!”
 
Come bilancio sul manzonismo, per un po’ di tempo è andata del resto di moda la tesi decisa di Carlo Dionisotti, che nella sua Geografia e storia della letteratura italiana (Torino, Einaudi, 1967) diceva seccamente che “non pare che la dottrina manzoniana (…) abbia avuto alcuna efficacia sullo sviluppo della cultura italiana” (p. 101). Su questa linea, grosso modo, si collocano interventi di diversi altri, che hanno negato l’influenza delle scelte linguistiche di Manzoni, e del fiorentino in generale, sull’italiano moderno: il consenso è che Manzoni abbia dato un forte contributo all’eliminazione degli arcaismi e dei tratti letterari dell'italiano, ma che la sua spinta all’imitazione del fiorentino sia stata riassorbita presto.
 
Nel 1986 però Arrigo Castellani ha pubblicato un Consuntivo della polemica Ascoli-Manzoni (ora nei Nuovi saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1976-2004), a cura di Valeria Della Valle, Giovanna Frosini, Paola Manni e Luca Serianni, Roma, Salerno Editrice, 2009, tomo 1, pp. 139-162). Castellani sostiene “che l’efficacia culturale della teoria manzoniana e l’influsso linguistico toscano sono stati di notevole rilevanza” (p. 162), e basa questa sua valutazione su alcuni casi in cui la lingua italiana ha compiuto tra Otto e Novecento un “progresso verso l’uso toscano” (p. 157). I casi discussi da Castellani sono tuttavia solo quattro, e, a parte l’ultimo, molto definiti e non suscettibili di ampliamento attraverso ulteriori ricerche:
 
  • la riduzione a -o dei dittonghi in -uo- dopo consonante palatale (giuoco che è diventato gioco, e via dicendo: p. 157)
  • la diffusione della costruzione impersonale di I persona plurale nei verbi (“noi si fa” al posto di “noi facciamo”: p. 158)
  • la sostituzione della desinenza in -a della prima persona dell’imperfetto indicativo con la desinenza in -o (per cui da “io mangiava” si passa a “io mangiavo”: p. 159)
  • la fraseologia, illustrati con esempi ripresi dalle parole fiato e mano (per la diffusione di modi di dire toscani come “riprender fiato”: pp. 159-160)
 
Quattro tratti non sono poi moltissimi, rispetto per esempio ai circa 60 che oggi definiscono l’italiano neostandard. E anche in seguito, non mi sembra che nessuno abbia allungato la lista. Supponiamo quindi che oggi qualcuno mi chieda: “ma, a partire dall’Ottocento, il fiorentino quanto ha influenzato la fonetica, la morfologia e la sintassi dell’italiano?” La mia risposta, anche tenendo conto delle argomentazioni di Castellani, direi che dovrebbe essere “piuttosto poco”. E nella revisione della voce di Wikipedia ho quindi preferito non conservare riferimenti a Manzoni, né alla moda fiorentineggiante da lui inagurata: argomenti che penso sia meglio trattare solo quando si scende più nel dettaglio.
 

mercoledì 9 gennaio 2013

Webcomics e tooltip

 
Scene from a multiverse... ma, ehi, c'è un tooltip anche qui!
Da molti anni, all’inizio di ogni giornata lavorativa mi guardo un po’ di fumetti in rete. Due di questi, aggiornati alle 9 ora italiana, sono due strisce classiche dei quotidiani americani: Doonesbury, di Garry Trudeau, e Dilbert, di Scott Adams. Il primo è praticamente un classico della letteratura, un Grande (e intelligente) Romanzo Americano che va avanti da quarant’anni. Il secondo… beh, diciamo che in passato mi sono ritrovato in situazioni che mi hanno fatto capire che, anche se a prima vista non sembra, è un fumetto realistico. E comunque, è molto divertente.
 
Un’aggiunta più recente, carina anche se inferiore ai primi due, è Pearls before swine, di Stephan Pastis. Dopodiché, il panorama delle strisce tradizionali si conclude. Nel tempo ne ho provate altre, ma con poco successo.
 
In compenso, però, leggo diversi altri fumetti che escono a scadenze meno serrate. In questo caso si tratta di veri e propri webcomics: fumetti pubblicati solo o principalmente sul web (il termine inglese richiede meno precisazioni rispetto ad alternative italiane in tutto o in parte, tipo “fumetti online” o “fumetti in rete”).
 
Quello che preferisco è, naturalmente, xkcd, di Randall Munroe. Intelligente e molto divertente allo stesso tempo (e poi, con diversi riferimenti alla linguistica, e perfino alla linguistica computazionale: che cosa si può volere di più?).
 
Un’alternativa a cadenza settimanale è Oglaf, di Trudy Cooper e Doug Bayne: praticamente, una serie di storie a sfondo sessuale in ambientazione fantasy, ma con un taglio surreale che spesso trovo molto divertente (a volte, ammetto, le battute mi rimangono incomprensibili).
 
Poi, Scenes from a multiverse, di Jonathan Rosenberg. Un po’ un gusto acquisito, ma devo dire che anche in questo caso il surrealismo funziona molto bene.
 
Infine, Tom the dancing bug, di Ruben Bolling, che spesso è un ottimo fumetto politico.
 
Una caratteristica che tutti questi fumetti (a parte l’ultimo) hanno in comune è l’uso del tooltip. In pratica, nell’elemento HTML che riporta l’immagine del fumetto l’attributo title viene riempito, anziché con un titolo vero e proprio, con un testo che ha a che fare con il fumetto stesso – di solito, una specie di battuta finale o punchline. Tipo così:
 
<img alt="Sick Day" src="http://imgs.xkcd.com/comics/sick_day.png" title="Wikipedia path: Virus -&gt; Immune system -&gt; Innate immune system -&gt; Parasites -&gt; List of parasites of humans -&gt; Naegleria fowleri -&gt; Primary amoebic meningoencephalitis -&gt; Deciding I DEFINITELY shouldn't connect an aquarium pump to my sinuses" />
 
Quando il lettore apre la pagina web può portare il puntatore del mouse sul fumetto e, con i browser attuali, questo fa comparire la scritta sotto forma di riquadro di testo, o tooltip (ne ho parlato a proposito dei “microgeneri” te-stuali alle pp. 64-65 del mio libro sull’Italiano del web).
 
I webcomics elencati qui sopra non sono gli unici a usare il tooltip: ho trovato per esempio una lista  che riporta 91 esempi. Non li ho letti tutti, ma, cosa interessante, la lista include anche alcuni prodotti che non sono propriamente fumetti, oppure che non usano l’attributo title ma qualche sistema vagamente paragonabile (per esempio, nascondendo testo nel nome del file che contiene l’immagine). Come accade spesso in questo genere di situazioni, il meccanismo di base può infatti essere reso più complicato con estrema facilità – e anche qui rimando al mio libro, pp. 78-80. Si leggono quindi commenti tipo “L's Empire has some where the alt text for multiple pages need to be read in order to get the joke”.
 
La mancanza di webcomics italiani paragonabili è un po’ triste. Anzi, aggiungo che è un po’ triste anche il fatto che, con tutta la creatività del fumetto italiano, finora non sia riuscito a trovare neanche un singolo esempio di webcomic italiano che sia entrato tra le mie letture regolari (anche se Makkox ci va vicino).
 
Sono, naturalmente, aperto a suggerimenti e consigli.
 

martedì 8 gennaio 2013

Wikipedia e le conoscenze etimologiche degli italiani

 
In un post pubblicato domenica sul proprio blog, Michele Cortelazzo fa notare le “fesserie etimologiche di Wikipedia (e non solo)”. Cioè, la frequenza con cui Wikipedia in lingua italiana presenta nelle proprie voci etimologie del tutto fantasiose e non scientifiche. Gli esempi presentati sono bar, brigante, assurdo, e, in un post precedente, pirottino; e nel mondo delle etimologie italiane Michele Cortelazzo non ha bisogno di presentazioni, visto che ha curato assieme a suo padre Manlio la seconda edizione dell’opera di riferimento in questo settore, cioè il DELI (Dizionario etimologico della lingua italiana), realizzato in prima edizione appunto da Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli.
 
Nulla da dire, naturalmente, neanche sugli errori. Come molti (me compreso) hanno fatto notare, la qualità dell’informazione linguistica all’interno di Wikipedia in lingua italiana sembra bassa, comparata per esempio a quella di Wikipedia in lingua inglese. Il bello è però che la qualità di Wikipedia dipende dalle comunità che le ruotano intorno: prima le persone che contribuiscono regolarmente alle voci, poi gli utenti di Internet e la società italiana nel suo complesso.
 
Sul primo livello, vale la pena di notare che le persone che contribuiscono alle voci sono poche, sia in termini assoluti sia in proporzione al numero di voci. Infatti, Wikipedia in lingua italiana si sta avvicinando alla soglia del milione di voci. Rispetto a Wikipedia in lingua inglese si tratta di quasi un quarto del totale, ma secondo le statistiche ufficiali le persone che contribuiscono alla versione italiana sono, in proporzione, molto meno numerose. Nel novembre 2012, per esempio, hanno fatto almeno 5 interventi per le pagine in lingua italiana 2776 persone, di cui solo 461 hanno fatto cento o più interventi (gli “utenti attivi”, quelli cioè che hanno fatto almeno un intervento sono stati 8.120 nei 30 giorni precedenti il 7 gennaio 2013). Per la lingua inglese la soglia dei 5 interventi è stata invece superata da 32.213 persone, e quella dei 100 da 3.137. Insomma, in proporzione al numero di voci la comunità che gestisce le voci in lingua italiana è decisamente sottodimensionata rispetto a quella che gestisce le voci in lingua inglese.
 
I numeri poi sono piuttosto bassi anche in assoluto. Gli utenti registrati sono sì più di ottocentomila, ma chiaramente questo numero copre moltissimi utenti che hanno fatto registrazioni multiple oppure che si sono limitati a registrarsi senza poi in pratica fare interventi. I “Wikipediani” per la versione in lingua italiana sono 46.876 (mentre per Wikipedia in lingua inglese si arriva quasi a ottocentomila): una comunità estesa, ma che coinvolge pur sempre meno di un italiano su mille, per una media di poco più di 20 voci a Wikpediano. A occhio, gli appassionati che in dieci anni hanno contribuito all’enciclopedia con qualche costanza sono probabilmente non più di diecimila (e, secondo me, anche di meno).
 
Quanti di questi sono in grado di distinguere tra etimologie sensate ed etimologie campate in aria? Diverse persone che hanno contribuito alle voci di linguistica mostrano ottime competenze; ma è ovvio che le loro voci sono sommerse da quelle degli altri. Tuttavia, ciò è quanto accade anche nel mondo della carta stampata, dove etimologie fantasiose sono sparate a ogni piè sospinto da giornalisti, autori di testi pubblicitari, eruditi locali e semplici appassionati. Ricordo ancora, per motivi personali, un giornalista-letterato di una certa notorietà che qualche anno fa spiegava ai suoi lettori che le “immagini” portano nel profondo, perché “immagine” viene dalla parola latina imago, quindi da imus + ago… Se la cosa è particolarmente visibile su Wikipedia, forse la spiegazione è data dal fatto che lì voci buone e voci meno buone coesistono, mentre gli addetti ai lavori di solito nemmeno vedono le improbabili opere a stampa realizzate da agriturismi, pro loco e via dicendo.
 
Questo è, infatti, a quel che mi sembra, il livello medio delle conoscenze degli italiani istruiti: l’idea vaga che le parole si “spieghino” sulla base di qualche remoto significato ricostruibile non sulla base di leggi fonetiche o di documenti d’epoca, ma con slanci d’immaginazione. Le persone che sentono il fascino dell’indagine etimologica sono moltissime, ma le persone che studiano scientificamente l’argomento sono pochissime – anche la maggioranza dei laureati in Lettere di ogni epoca, direi, non arriva a capire come funzionano le cose in questo settore.
 
Wikipedia quindi sembra uno specchio abbastanza fedele della situazione. Ciò che spiace, semmai, è che gli addetti ai lavori non siano in grado di fare massa critica per migliorare il livello e risolvere problemi come questo. Io eseguo interventi su Wikipedia da cinque anni e mezzo, e avrò fatto scrivere ai miei studenti qualcosa come mille voci originali. In tutto questo tempo non ho conosciuto altri professori o ricercatori universitari nel settore della Linguistica italiana che abbiano dichiarato di aver fatto anche solo un singolo intervento… e del resto, perché dovrebbero farlo? Il lavoro su Wikipedia è divulgativo, non scientifico. Non viene riconosciuto come “lavoro” universitario a nessun titolo. Non è retribuito. E, dettaglio non trascurabile, il rischio di immagine in un’attività svolta alla pari con i non addetti ai lavori è molto alto.
 
Io personalmente ritengo che invece una ragione ci sia: Wikipedia non è solo uno specchio della realtà, ma è anche uno strumento molto usato. Per questo motivo quest’anno ho deciso di dedicare una parte del mio tempo a migliorare, per quel che posso, alcune voci di particolare interesse.
 
Quanto è usato, lo strumento? Come dicevo, non ho ancora dati in proposito, ma la sensazione è che molto spesso Wikipedia sia, su argomenti linguistici, la fonte di informazione oggi più usata dagli italiani, per il semplice fatto di essere disponibile in rete. E lo stesso accade a strumenti simili. Per fare un esempio, Cortelazzo cita con preoccupazione, e a ragione, il fatto che alcune voci di Wikipedia rimandino come fonte per le etimologie al Vocabolario etimologico di Ottorino Pianigiani (1907), opera oggi scientificamente impresentabile. Eppure in Italia esistono ottimi dizionari etimologici moderni, e in particolare appunto il DELI.
 
Perché allora le persone che contribuiscono a Wikipedia citano l’improbabile testo di Ottorino Pianigiani? La spiegazione mi sembra molto semplice: perché è consultabile in rete in modo rapido e immediato. Il DELI invece è un testo relativamente costoso (€ 115 a catalogo: non molti per un’opera di questo valore scientifico, ma non pochi dal punto di vista dell’utente occasionale); spesso reperibile, d’accordo, in biblioteca… ma gli italiani hanno poca familiarità con le biblioteche, e a loro volta le biblioteche a volte non sono poi così facili da raggiungere o da usare. Né arrivano a raggiungere lo stesso pubblico.
 
Aneddoto: a me qualche mese fa è stato chiesto da una docente d’italiano di Giacarta se esistesse un buon dizionario etimologico italiano in rete. “Ma all’Istituto italiano di cultura non c’è il DELI?”, ho chiesto in risposta io. Certo che c’è, è stata la risposta, ma è probabilmente l’unica copia in tutta l’Indonesia, e perfino se si sta di casa a Giacarta attraversare la città è un’impresa che richiede ore e ore per via delle dimensioni e del traffico, eccetera eccetera.
 
Di conseguenza, in mancanza di dati esatti sull’uso, sospetto che oggi il Vocabolario di Pianigiani sia molto più usato e consultato del DELI (la home page del sito si vanta di aver fornito, nel 2006, dieci milioni di pagine). E lo sarà, continuando a diffondere etimologie insostenibili, direttamente o attraverso Wikipedia, finché il DELI non sarà disponibile a sua volta in rete.
 

lunedì 7 gennaio 2013

Sull’utilità pratica dello studio del cinese

 
Metropolitana di Shanghai
Studiare il cinese mandarino è un’ottima cosa: la lingua è affascinante, il sistema di scrittura pure (anzi, di più). Inoltre, saper parlare il cinese è un ottimo modo per entrare un contatto con poco meno di un quinto dell’umanità – che solo occasionalmente parla inglese o altre lingue indoeuropee.
 
Tuttavia, girando per la Cina ho sentito regolarmente due pareri limitanti, da pare degli addetti ai lavori. Il più generale coincide con quello che i linguisti offrono da tempo: anche se la posizione economica della Cina dovesse continuare a migliorare, è molto improbabile che il cinese diventi un vero linguaggio di comunicazione internazionale. Difficilissimo da imparare per buona parte degli altri abitanti del pianeta, privo di tradizione in questo senso, pochi pensano che possa scalzare l’inglese prima che i progressi della traduzione automatica rendano obsoleta l’idea stessa di una lingua franca. Checché ne dicano i giornalisti più approssimativi, il cinese non sarà quindi la lingua del futuro… se non, è ovvio, per i cinesi (che oggi, spesso, nella vita quotidiana parlano altre lingue, a cominciare dal cantonese).
 
Il secondo parere è più specifico. A domanda se oggi valga la pena (soprattutto per un italiano) imparare il cinese per lavorare con la Cina, la risposta è stata categorica: no.
 
O meglio, la risposta ha distinto due situazioni. Imparare il cinese, mi è stato detto, è utilissimo per i bravi ingegneri, medici o docenti universitari. La Cina, anche se li fa entrare e lavorare solo in pochissime aree, ha fame di stranieri – ha fame perfino di studenti stranieri. E per quel poco che ho potuto vedere, il livello del “capitale umano” nei settori avanzati mi è sembrato in effetti molto basso – in particolare nell’area degli studi umanistici (la gestione del patrimonio culturale è priva di spessore in modo desolante), ma non solo.
 
D’altra parte, mi è stato detto diverse volte che non serve a molto imparare il cinese e basta. Il messaggio di base è stato: no, anche se ci sono eccezioni, gli italiani che arrivano in Cina avendo come unico punto di forza la conoscenza del cinese non trovano lavoro. Si fermano un po’ e poi ripartono senza aver concluso nulla. I contatti internazionali sono del resto gestiti con l’inglese, e si vede che il sistema funziona ragionevolmente bene (anche se, come dicevo sopra, nonostante anni di sforzi del governo è ancora oggi molto difficile, girando per la Cina, trovare persone che sappiano parlare inglese).
 
Può darsi che in Italia la situazione lavorativa sia diversa, ma di sicuro in Cina ciò che mi è stato raccontato è questo. Conoscere la lingua dà possibilità in più a chi ha già qualcosa da vendere, ma di per sé non sembra rappresenti un passaporto per il successo lavorativo.
 

sabato 5 gennaio 2013

In senso inverso

 
Capovolgendo quello che scriveva Eliot nei cori di The rock, mi vien voglia di lamentarmi:
 
Knowledge of silence, but not of speech;
Knowledge of the Word, and ignorance of words.
Where is the knowledge we have lost in wisdom?
Where is the information we have lost in knowledge?
 
Un rischio remoto? Può darsi. Ma in fin dei conti il grosso della storia umana è andato così. Quali che siano le nostre pratiche, siamo abituati a parlar bene della saggezza più che della conoscenza; ma qual è il vero rapporto costi / benefici?
 

venerdì 4 gennaio 2013

Quanti cittadini italiani sanno parlare italiano?

 
Proseguendo il discorso di ieri, è chiaro a tutti che il grosso delle persone capaci di parlare italiano è formato dagli italiani residenti in Italia. Qui, i dubbi sono pochi: oggi gli italiani danno per scontato di poter andare in qualunque città italiana, chiedere informazioni in italiano e ricevere risposte in italiano…
 
Cioè, d’accordo, lo dànno per scontato, ma non sempre il meccanismo funziona. A me è capitato di viaggiare in Italia, chiedere informazioni a qualche residente del posto e non riuscire a farmi intendere, o a intendere la risposta. L’ultima volta, se non sbaglio, mi è successo a Napoli, nel 2002: io e un amico (entrambi residenti in Toscana) abbiamo chiesto indicazioni a un passante sulla strada da prendere per la più vicina fermata dell’autobus – e la risposta, fornita in napoletano, è stata dettagliata, simpatetica e convinta. Al termine della spiegazione abbiamo quindi ringraziato profusamente, ci siamo avviati per la strada indicata con gesti entusiastici della mano e dopo qualche passo abbiamo fatto un controllo:
 
“Tu ci hai capito qualcosa?”
 
“No. E tu?”
 
“Nemmeno. Vabbè, chiediamo all’edicola…”
 
Succede di rado, ma insomma, succede. Quanto spesso, però? Cioè, in pratica, quanti italiani, anche di fronte a chi chiaramente proviene da tutt’altra area linguistica, oggi non sono capaci di esprimersi in italiano? La storia della lingua italiana sono famose le ricostruzioni di Tullio De Mauro, che nella sua Storia linguistica dell’Italia unita è arrivato alla conclusione che nel 1861 non più del 2,5 % della popolazione fosse in grado di esprimersi in italiano. Secondo Arrigo Castellani, la percentuale reale era invece il 10 %. Sparute minoranze, in ogni caso, mentre oggi la situazione è ben diversa. Ma se si deve fornire un numero, il dubbio resta.
 
Il problema base è dato dal fatto che nessuno va oggi in giro a controllare se gli italiani, uno per uno, sono in grado di parlare italiano. I censimenti generali, come quello che si è svolto nel 2011, nel loro questionario non rilevano direttamente informazioni pertinenti alla lingua (anche se in questo caso è stato chiesto agli interessati di segnalare, alla domanda 5.3, il titolo di studio più elevato conseguito, partendo da “Nessun titolo di studio e non so leggere o scrivere”, e questo è un dato che in passato ha avuto una forte correlazione con la conoscenza dell’italiano).
 
Tuttavia, qualche indagine in proposito viene fatta dall’ISTAT, che nel 2006 ha realizzato appunto un’indagine multiscopo su La lingua italiana, i dialetti, le lingue straniere su un campione di 24.000 famiglie residenti in Italia, corrispondenti a circa 54.000 individui. Agli intervistati è stato chiesto quale lingua parlassero in tre diverse situazioni: in famiglia, con amici e con estranei. Le possibilità erano 4:
 
  • solo o prevalentemente italiano
  • solo o prevalentemente dialetto
  • sia italiano che dialetto
  • altra lingua
 
Risultato: nella situazione in cui la spinta all’uso dell’italiano è più forte, cioè quella “con estranei”, il 91,8% dei residenti dichiara di parlare “solo o prevalentemente italiano” oppure “sia italiano che dialetto” (rispettivamente, il 72,8 e il 19%). Parla invece “solo o prevalentemente dialetto” il 5,4% dei residenti, e un’“altra lingua” l’1,5% (non mi è chiaro che cosa parli, invece, l’1,3 % che manca a queste percentuali per arrivare al 100%). Prendendo per buono questo dato, quindi, almeno il 91,8% dei residenti ritiene di essere in grado di parlare italiano – e, poiché l’analisi non distingue chi ritiene di parlare “solo” dialetto da chi ritiene di parlare dialetto solo “prevalentemente”, il 5,4% dei residenti potrebbe essere collocato a un estremo o a un altro. Nel caso pessimo si ha quindi un 91,8% di residenti in grado di parlare italiano. Il che non è male, se si considera che i dati del censimento 2011 stimano che il 9 ottobre 2011 in Italia ci fossero in totale 59.433.744 residenti (p. 2), di cui 4.029.145, cioè il 6,8% circa, cittadini stranieri (p. 16; la differenza, cioè il numero di cittadini italiani residenti in Italia, è quindi di 55.404.599).
 
Naturalmente, non tutti gli stranieri ignorano l’italiano e non tutti gli italiani residenti in Italia lo conoscono. E nel 2006 la percentuale di stranieri residenti era senz’altro inferiore a quella del 2011. Però, in sostanza, non si va lontani dal vero se si stima che oggi quasi tutti i cittadini italiani si sentano in grado di parlare italiano – e l’esperienza quotidiana conferma questa convinzione, con uno scarto che al massimo può essere di pochi punti percentuali.
 
Mi ha colpito invece che la Premessa alla recente Enciclopedia dell’italiano Treccani il direttore, Raffaele Simone, dichiarasse che “è ancora molto alto il numero degli italiani che parlano solo dialetto, o perché non hanno mai imparato l’italiano o perché nel dialetto sono tornati a scivolare. Ciò significa che decenni e decenni di istruzione obbligatoria non hanno avuto il risultato che ci si aspettava” (p. VIII). Di sicuro, queste considerazioni si conciliano poco con il citato dato ISTAT secondo cui la somma degli italiani che parlano “solo” o “prevalentemente” dialetto è pari al 5,4 % del totale. Anche ammettendo che lo parlino tutti “solo” (anziché “prevalentemente”), e che lo facciano perché incapaci di fare altrimenti e non per scelta, il 5,4 del totale non sembra un numero “molto alto”. Né un fallimento del sistema di istruzione obbligatoria, visto che, come dice Gaetano Berruto nella stessa Enciclopedia, nel bell’articolo Sociolinguistica, partendo proprio dai dati ISTAT del 2006, si può stimare che in Italia esista:
 
una piccola minoranza (di entità difficile da quantificare, forse attorno al 5%, e da cercare prevalentemente fra coloro che sono privi di qualunque titolo di studio), soprattutto nelle generazioni più vecchie e in Italia meridionale, di persone che parlano solo dialetto (p. 1372).
 
Persone su cui, appunto, l’istruzione obbligatoria non ha avuto effetti: non perché fosse incapace di averli, ma perché gli individui le sono sfuggiti, come è accaduto per fasce di popolazione tanto più ampie quanto più si va indietro nel tempo o si scende verso sud. E forse oggi in parte identificabili con gli immigrati, tra cui è possibile che ce ne siano alcuni (quanti?) che oggi sanno parlare un dialetto italiano, ma non l’italiano standard.
 
Del resto, tutta la Premessa di Simone all’Enciclopedia contiene diversi altri punti discutibili. Per esempio, a p. VII si dice che Ariosto, Alfieri, Goldoni, Manzoni e Svevo “non parlavano italiano!” (con punto esclamativo finale). Cioè, in che senso? A parte Ariosto, che visse prima che si potesse parlare di italiano vero e proprio, tutti i letterati citati arrivarono nel corso delle loro vite a parlare tranquillamente italiano, pur non avendolo come lingua madre. No, su questo penso si possa stare tranquilli: così come i letterati italiani degli ultimi secoli sono stati di regola in grado di parlare italiano, oggi quasi tutti gli italiani sono in grado di fare altrettanto (così come molti stranieri). Ci si può chiedere semmai con quanta disinvoltura e proprietà lo parlino, ma questo è un altro discorso.
 

giovedì 3 gennaio 2013

Gli italofoni secondo Ethnologue

 
Il primo intervento significativo che ho fatto su Wikipedia è stato sulla voce Lingua italiana. Lì sono intervenuto innanzitutto sull’indicazione del numero di parlanti, che è un vecchio problema della voce… in passato, si sono viste per esempio stime che, per fraintendimento o per volontà di ingannare, collocavano i parlanti a 120 milioni, o giù di lì. Le persone in grado di parlare correntemente italiano, spesso chiamate “italofoni”, sono invece sicuramente molte di meno.
 
A livello internazionale, un punto di riferimento diffuso per le stime sui parlanti delle varie lingue è dato dalle cifre fornite dall’enciclopedia, e dal sito, Ethnologue, realizzato dalla SIL. Il numero di parlanti di una lingua, però, è sempre difficile da valutare. Riguardo a una popolazione, si possono avere dati abbastanza esatti sul numero di componenti, su quello dei maschi e delle femmine, sulla loro età… ma la conoscenza della lingua ha molte variabili. Quand’è che una persona dimostra di “conoscere” l’italiano? Quando sa dire “ciao”, “pizza” e “mafia”, come mi è capitato spesso nelle conversazioni sulla Transmongolica e dintorni? Quando sa dire “cappuccino” e “curva sud”? Oppure quando sa sostenere una conversazione in italiano su questioni di analisi logica? O quando ha letto un libro in italiano? O quando lo ha scritto?
 
Il quadro comune europeo di riferimento per le lingue, giusto per fare un esempio, non parla di “conoscenza” di una lingua in termini di sì / no. Distingue per esempio la competenza linguistica per fasce di competenza, da A1 a C2. La valutazione, però, è molto difficile da compiere – e nessuno in pratica può farla, se non su base statistica. C’è qualcuno che possa fornire, se non per estrapolazione da altri dati, un’idea di quante persone al mondo sappiano dire “ciao”?
 
Ethnologue quindi è una risorsa meravigliosa, ma come tutte le risorse di questo tipo, valutare l’efficacia dei dati lì presentati richiede un po’ di lavoro e diversi distinguo. Al momento la pagina dedicata all’italiano fornisce una stima di 61,7 milioni di parlanti, di cui 55 milioni residenti in Italia (inclusi “native bilinguals of Italian and regional varieties, who may use Italian as L2”). La stima è verosimile, ma su che cosa si basa? La voce spiega che le informazioni di partenza provengono “mainly from F. B. Agard 1984; B. Comrie 1987; R. Hall 1974; M. Stephens 1976”. Cioè da questi quattro testi:
 
  • Agard, Frederick B. 1984. A course in Romance linguistics, a diachronic view. Washington, D.C.: Georgetown University Press.
  • Comrie, Bernard (ed.). 1987. The world’s major languages, I, II. London: Routledge.
  • Hall, Robert A., Jr. 1974. External history of the Romance languages. New York: American Elsevier Publishing Co.
  • Stephens, Meic. 1976. Linguistic minorities in western Europe. Llandysul, Wales: Gomer.
 
Ammettiamo pure che tutti i lavori siano fatti bene: colpisce però il fatto che il più recente risalga al 1987, cioè a oltre 25 anni fa. Nel frattempo c’è stata un’evoluzione non da poco: tra nascite e morti, la popolazione italiana si è rinnovata più o meno per un terzo, l’Italia è diventata terra di immigrazione significativa e così via. Sembra quindi probabile che le stime siano come minimo da aggiornare.
 
Tuttavia è molto difficile trovare credibili stime alternative. Cosa che mi ha sorpreso, non mi sembra che la recentissima Enciclopedia dell’italiano (di cui spero di parlare a parte) contenga nelle sue 1681 fittissime pagine neanche una stima approssimativa sul numero di parlanti! Può darsi che mi sbagli, ma finora non sono riuscito a trovare niente di simile… quindi è arrivato il momento, direi, di fare qualcosa in autonomia.
 

mercoledì 2 gennaio 2013

Un anno di Wikipedia?

 
Wikipedia-logo-v2-it
Cosa strana, da un po’ di tempo per me l’arrivo dell’anno nuovo coincide davvero con qualche cambiamento. Magari piccolo… l’anno scorso, per esempio, il lavoro mi ha sommerso fino al momento della mia partenza per Hong Kong. Mi sommergeva anche in precedenza, d’accordo; però dopo la fine del 2011 sono riuscito a occuparmi solo dei lavori principali e delle scadenze inevitabili. Ne ha risentito anche quel poco che facevo su Wikipedia – che ho continuato a usare, ma su cui hanno scritto alla fine solo i miei studenti, mentre io ho perso il contatto.
 
Bene, per partire con un 2013 all’insegna del rinnovamento posso anche ricominciare a fare qualche intervento. La cosa mi sembra anche utile perché Wikipedia italiana continua ad avere alti e bassi, e le voci che trattano di lingua e linguistica mi sembrano a volte tra le più discutibili, nonostante che anche quest’anno si siano visti gli sforzi di molti utenti di notevole competenza. Io uso spesso il sito, ma, come avrà notato chi legge queste pagine, nella realtà mi trovo spesso a linkare voci di Wikipedia in lingua inglese più che di Wikipedia in lingua italiana, ed è un peccato.
 
Nel frattempo, però, l’algoritmo di Google continua a proporre ai primi posti di molte risposte a ricerche in lingua italiana proprio voci di Wikipedia, e questo non fa che consolidare il ruolo del sito e delle sue pagine – buone o cattive che siano. Le statistiche ufficiali del sito mostrano che gli interventi sono in sostanza stabili dal 2008, a indicare una sostanziale stabilità della comunità di riferimento (non cala, ma non cresce), non solo aumentano le pagine disponibili, ma anche quelle effettivamente viste. Nell’ottobre 2012 il totale di pagine viste ha superato i 500 milioni, il che significa quasi dieci pagine per ogni cittadino italiano: non male.
 
Quanti sono i visitatori per le pagine di interesse linguistico? Forse non moltissimi: per esempio, nessuna voce di interesse linguistico è inclusa in una lista delle 100 voci più visitate nel 2012 che è stata diffusa negli ultimi mesi. Però anche la centesima e ultima della lista è stata visitata oltra settecentomila volte, il che non è poco (i dati dettagliati per gli anni scorsi dovrebbero essere disponibili sul sito Wikimedia, ma dubito di avere il tempo di lavorarci sopra nel prossimo futuro).
 
E quindi, giusto per avere un proposito un po’ diverso dagli altri: nel 2013 cercherò di fare almeno un intervento rilevante su Wikipedia ogni settimana. Una goccia nel mare, certo, ma questo è proprio lo spirito del sito. Nome utente: Mirko Tavosanis. E vediamo che cosa succede.