martedì 3 dicembre 2019

Speciale su Macchina, mente e lingua: i volti dell'intelligenza artificiale

  
 
Immagine dal film Her di Spike Jonze: Joaquim Phoenix
Sul sito Treccani è stato pubblicato ieri uno Speciale dedicato a Macchina, mente e lingua: i volti dell'intelligenza artificiale. Io mi sono occupato di una parte dell’attività di coordinamento, e devo dire non è stato facile trovare persone in grado di scrivere con competenza su questo tema! Per questo, vanno ringraziati in modo ancora più sentito del solito gli autori che hanno aderito all’iniziativa… e Silverio Novelli in Treccani, per la pazienza.
 
Lo Speciale è composto:
 
 
Nell’assieme, mi sembra un invito interessante a intensificare la conversazione su un argomento di grande interesse per i linguisti – e non solo.
 

martedì 19 novembre 2019

La traduzione automatica funziona

  
 
Foto: Mirko Tavosanis nel mezzo delle spiegazioni a CLiC-it 2019
La settimana scorsa, il mio viaggio al convegno CLiC-it a Bari è stato molto soddisfacente. Alla soddisfazione hanno contribuito anche due incontri aggiuntivi: uno a Lecce sull’italiano del web, grazie ad Annarita Miglietta, e uno all’Università di Bari sulla valutazione della traduzione, grazie a Maristella Gatto. Aggiungerei poi anche altre cose piacevoli: il viaggio di andata in vagone letto, il cibo (ottimo anche per un vegetariano), i paesaggi, la passeggiata nel centro di Bari…
 
Però vale la pena insistere sul motivo principale per cui ero lì, cioè presentare un mio lavoro di valutazione sulla qualità delle traduzioni automatiche. Non era uno dei centri tematici del convegno, anzi, il mio era proprio un contributo isolato. Però ho scoperto attività di valutazione molto importanti e, soprattutto, ho potuto riscontrare un fortissimo interesse per l’argomento in tanti addetti ai lavori. Al momento di presentare il poster sono stato sommerso di domande: nella foto mi si vede appunto in piena attività!
 
Credo quindi che valga la pena dire una cosa chiaramente: dopo più di mezzo secolo di false partenze, adesso la traduzione automatica funziona. E un miglioramento tanto visibile quanto rapido è dovuto all’introduzione dei sistemi a reti neurali, avvenuta per l’italiano a partire dal 2017, che ha fatto invecchiare molto in fretta il capitolo sulla traduzione automatica contenuto nel mio libro su Lingue e intelligenza artificiale. Ci sarebbe bisogno di un aggiornamento, in effetti… ma intanto è importante notare questa svolta storica.
 
Certo, le attività di traduzione si collocano lungo un continuum, per cui qualche applicazione pratica si è sempre trovata, e qualche azienda come SYSTRAN è riuscita a sopravvivere per decenni – ma erano cose molto di nicchia. Adesso però è possibile prendere un articolo di quotidiano o periodico in inglese e ottenere una traduzione in italiano ancora piena di errori ma che in sostanza riporta correttamente le informazioni del testo di partenza e non è poi molto lontana dal livello di un traduttore umano (qualche dettaglio in più sulla mia verifica è in questo post, e il resto è nel testo pubblicato).
 
Questa non è una cosa scontata. Per decenni, chiunque abbia lavorato nel settore si è sentito dire che la traduzione automatica “funzionava” quando in realtà dietro a questi discorsi non c’era molto: solo rivendicazioni esagerate e a volte ai limiti della truffa, a cominciare dalla celebre dimostrazione “Georgetown-IBM” del 1954. Ricordo bene, per esempio, di aver parlato nel 1990 con un bravissimo editore italiano – oggi scomparso – che raccontava di aver provato un sistema che funzionava bene e che gli avrebbe permesso di fare a meno di traduttori per i suoi libri. Sono ormai passati trent’anni, e nessuno dei libri della sua casa editrice è stato tradotto da un sistema automatico. Non solo: non credo che nessuno dei suoi libri sia stato tradotto con l’aiuto parziale di un sistema automatico.
 
Adesso però la svolta è molto interessante, e le reti neurali cambiano molte regole del gioco. Di regola, sintetizzare una materia complessa in una frase non è sufficiente. Anche nel caso della traduzione automatica occorrerebbe quindi fare un sacco di precisazioni, e di valutazioni. Però, in prima battuta, si può provare anche a condensare la novità in uno slogan: finalmente, la traduzione automatica funziona.
 

giovedì 7 novembre 2019

Da Torino a Lecce

  
 
Immagine dal sito del Festival della tecnologia di Torino
I prossimi giorni saranno per me fitti di impegni fuori sede!
 
Si inizia domenica 10, quando, dalle 15 alle 16:30, parteciperò a un dibattito all’interno del Festival della Tecnologia al Politecnico di Torino. Il titolo è: Storia di un e-taliano. Media e linguaggi nel mondo digitale; modera Gino Roncaglia e partecipano Vera Gheno ed Elena Pistolesi.
 
Mercoledì 13, alle 9, su graditissimo invito di Annarita Miglietta, terrò una lezione sull’Italiano del web a Lecce, all’Università del Salento, all’interno dei seminari di Sociolinguistica per gli studenti dell'area umanistica.
 
Nel pomeriggio dello stesso giorno sarò poi a Bari, dove inizia il convegno CLiC-it 2019. Alle 15:30 parteciperò alla sessione Poster Madness I con il mio lavoro sulla valutazione dei traduttori a reti neurali per i testi giornalistici tradotti dall’inglese in italiano.
 
Insomma, andrò da un capo all’altro dell’Italia... e in diagonale! Incrocio le dita e mi affido alla capacità di Trenitalia di portarmi in orario alle varie destinazioni.
 

martedì 5 novembre 2019

Tavosanis, Valutazione umana di Google Traduttore e DeepL per le traduzioni di testi giornalistici dall’inglese verso l’italiano

  
 
Schermata della pubblicazione online degli atti CLiC-it 2019
Ho un po’ di osservazioni da fare sulla traduzione automatica e, più in generale, sul modo in cui le tecniche di intelligenza artificiale permettono oggi l’elaborazione del linguaggio. Parto segnalando un mio contributo: Valutazione umana di Google Traduttore e DeepL per le traduzioni di testi giornalistici dall’inglese verso l’italiano. Il contributo appare negli atti del prossimo convegno CLiC-it 2019 (sì, nel settore si pubblicano spesso gli atti prima del convegno… cosa utilissima), su cui spero di riferire in diretta.
 
Per inquadrare il lavoro occorre fornire qualche spiegazione, collegata a quanto scrivevo nel mio libro su Lingue e intelligenza artificiale, ma tenendo conto del fatto che nel frattempo ci sono stati sviluppi notevoli. Dal 2017 a oggi la qualità delle traduzioni automatiche è molto migliorata, grazie all’adozione di tecniche di intelligenza artificiale… e fin qui nel libro c’ero arrivato. Poi però sono successe due cose importanti, entrambe nel corso del 2018:
 
  • la qualità delle traduzioni sembra essere ulteriormente migliorata, almeno per alcuni sistemi commerciali
  • la comunità della valutazione si è accorta del fatto che il sistema usato in precedenza sottovalutava in modo clamoroso i prodotti della traduzione a reti neurali
 
Di qui la necessità di rivalutare tutto il quadro, e l’unico metodo efficace è stato il ripartire da zero: fornire i prodotti della traduzione automatica a esseri umani e chiedere a loro di valutarli. I risultati sono clamorosi, perché finalmente mostrano i miglioramenti recenti in tutta la loro portata.
 
Il mio contributo presenta quindi una valutazione delle prestazioni dei due sistemi migliori, Google Traduttore e DeepL, usati attraverso le interfacce web disponibili al pubblico. Per la valutazione ho usato un campione di 100 frasi tratte da testi giornalistici in lingua inglese tradotti in italiano, valutate da studenti del mio corso di Linguistica italiana II (2018-2019) che avevano ricevuto istruzioni e fatto pratica con l’assegnazione di punteggi. Le scale usate sono state:
 
Adeguatezza
  1. Il contenuto informativo dell’originale è stato completamente alterato 
  2. È stata trasmessa una parte del contenuto informativo, ma non la più importante 
  3. Circa metà del contenuto informativo è stata trasmessa 
  4. La parte più importante del contenuto informativo originale è stata trasmessa 
  5. Il contenuto informativo è stato tradotto completamente
Fluenza
  1. Impossibile da ricondurre alla norma 
  2. Con più di due errori morfosintattici 
  3. Con non più di due errori morfosintattici e/o molti usi insoliti di collocazioni 
  4. Con non più di un errore morfosintattico e/o un uso insolito di collocazioni
  5.  Del tutto corretta

I risultati sono stati, appunto, sorprendenti.
  • Google : adeguatezza 4,15, fluenza 3,90 
  • DeepL: adeguatezza 4,30, fluenza 3,94 
  • Umano : adeguatezza 4,60, fluenza 4,46 
In sostanza, la differenza è molto più ridotta di quello che si poteva pensare in base alle metriche usate finora per le traduzioni: una delle più usate, BLEU, assegnava alle traduzioni automatiche punteggi attorno alla metà di quelli ricevuti dai traduttori umani. La situazione è invece molto diversa e, anche se i sistemi automatici continuano a fare un sacco di errori, la distanza è ridotta. Inoltre, in diversi casi le frasi che producono sono indistinguibili per qualità da quelle dei traduttori umani reali – o addirittura migliori. Su questo ci sarà da riflettere molto.
 
Aggiungo poi che di questo lavoro mi fanno particolare piacere tre cose: aver pubblicato in un contesto di linguistica computazionale, sempre un po’ fuori settore per me; aver fatto il lavoro in modo interattivo, assieme agli studenti del mio corso; e infine, aver pubblicato l’articolo in italiano, in un contesto in cui la conferenza accetta sia italiano che inglese, ma, se vedo bene, su 75 articoli accettati quelli in italiano sono solo due.
 
Mirko Tavosanis, Valutazione umana di Google Traduttore e DeepL per le traduzioni di testi giornalistici dall’inglese verso l’italiano, pp. 1-7, in CLiC-it 2019 – Proceedings of the Sixth Italian Conference on Computational Linguistics, Bari, Italy, November 13-15, 2019, a cura di Raffaella Bernardi, Roberto Navigli e Giovanni Semeraro, CEUR Workshop Proceedings, Aachen University, ISSN 1613-0073.
 

giovedì 31 ottobre 2019

Tavosanis, Variazione linguistica nei commenti su Facebook


 
Copertina di Italiano LinguaDue 11/1
Nuovo contributo pubblicato da poco: è appena uscito l’ultimo numero di “Italiano LinguaDue”, la bella rivista del Master PromoItals dell’Università di Milano. Nello specifico, si tratta del Quaderno n. 2, che raccoglie, a cura di Massimo Prada e Giuseppe Polimeni, gli Atti del Convegno di studi Uno standard variabile. Linee evolutive e modelli di lettura della lingua d’oggi, tenuto a Milano nel 2017, di cui ho parlato a suo tempo.
 
Nel Quaderno c’è appunto anche un mio intervento dedicato alla Variazione linguistica nei commenti su Facebook. L’intervento è dedicato in sostanza a illustrare la variabilità anche all’interno di un unico genere testuale, quello del commento: genere importante per la sua grande diffusione, ma anche per il modo in cui è stato al centro delle polemiche politiche negli ultimi anni.
 
Alla base dell’analisi ci sono diversi corpora recenti di commenti, realizzati per tesi di laurea. In totale, i corpora hanno una dimensione complessiva di 650.000 token, e alcuni loro sottoinsiemi sono stati esaminati andando a vedere:
 
le differenze tra commenti appartenenti a diversi sottogeneri testuali la presenza di lingue diverse dall’italiano i valori delle statistiche linguistiche di base la frequenza di alcuni tratti linguistici innovativi
 
Qualche parola su questi ultimi, che sono stati scelti tra quelli che Lorenzo Renzi ha definito (o potrebbe definire) “snobismi”: “grazie di” + infinito presente riferito al passato, anziché al presente o al futuro; la parola “tipo” usata in senso grammaticalizzato; il “piuttosto che” con valore disgiuntivo. Tutti questi tratti sono ben testimoniati nella comunicazione professionale o semiprofessionale; risultano però rarissimi all’interno dei commenti.
 
Nell’assieme, l’analisi conferma che i commenti, accanto ad alcuni caratteri condivisi, presentano un alto livello di variazione. Questo livello potrebbe avere diverse cause, ma sembra collegato più alla presenza di singoli partecipanti con abilità di scrittura diverse che a una capacità dei partecipanti stessi di adattare la propria scrittura a contesti diversi. I vincoli di privacy non permettono di fare analisi a largo raggio su questo fenomeno, ma qualche esempio fa venire il sospetto che di regola gli individui scrivano più o meno sempre allo stesso modo – perlomeno quando si tratta di lasciare traccia della propria presenza su Facebook.
 
Mirko Tavosanis, Variazione linguistica nei commenti su Facebook, “Italiano LinguaDue”, 11, 1, 2019, pp. 112-125, DOI: https://doi.org/10.13130/2037-3597/12205.
 

martedì 29 ottobre 2019

Alivernini, La grande nemica

  
 
Copertina di: Flavio Alivernini, La grande nemica
Io non credo che Facebook e le altre reti sociali siano tanto decisive quanto oggi alcuni pensano. Sono senz’altro realtà importanti e si collocano all’interno di una vita sociale complessa, in cui l’ecologia dei sistemi di comunicazione ha un ruolo di primo piano; ma non sono il fattore più importante della vita contemporanea, nemmeno in Italia. Sembro un marxista vecchio stile se ritengo che la struttura economica sia più importante delle sovrastrutture, e in buona parte (anche se in modo non meccanico) le determini?
 
Fatta questa importante precisazione, poi, è possibile vedere un po’ meglio Facebook e la sua realtà. Non come creature invincibili e dotate di una propria volontà, ma come sistemi condizionati dalle scelte dei proprietari e dalle reazioni del pubblico. In cui, in particolare, le reazioni consapevoli possono determinare ciò che il sistema può fare – indipendentemente da ogni determinismo ingenuo.
 
Partendo da qui ho letto con molto interesse il libro recente di Flavio Alivernini La grande nemica: il caso Boldrini. Il libro è infatti un’importante testimonianza dall’interno sul “caso Boldrini”, per l’appunto: cioè l’assurda situazione per cui una rispettatissima politica italiana è stata vittima di un’ondata di insulti e di odio sulle reti sociali, e in particolare su Facebook. Alivernini è stato testimone diretto degli eventi come componente dell’ufficio stampa di Laura Boldrini quando quest’ultima era presidente della Camera. Inoltre, il libro è preceduto da un’introduzione di Nicola Biondo, ex dipendente della Casaleggio Associati, che fornisce una testimonianza dall’interno basandosi sulla propria prospettiva.
 
Eletta presidente della Camera il 16 marzo 2013, Laura Boldrini è stata da subito un bersaglio dell’estrema destra. Alla base di questo odio c’erano i suoi quasi venticinque anni di lavoro con le istituzioni internazionali, il suo ruolo come portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e le sue posizioni contro l’odio razziale. Tuttavia il salto qualitativo è venuto dopo: quando la Casaleggio Associati, che gestisce il blog del Movimento 5 stelle, ha deciso di prenderla come bersaglio, anche se i rappresentanti del Movimento avevano inizialmente mostrato molta simpatia e ammirazione per lei.

Alla base di questa scelta si trova una contrapposizione per una procedura parlamentare. Il 29 gennaio 2014, infatti, Laura Boldrini applicò uno strumento parlamentare per consentire alla Camera il voto sul cosiddetto decreto Imu-Bankitalia, superando l’ostruzionismo del Movimento 5 stelle (p. 33). La mossa provocò una vera e propria rissa parlamentare, e una ritorsione decisa a tavolino.
 
Nicola Biondo ha raccontato la sua versione di questa storia nel libro Supernova. La ripresenta anche qui, nella sua introduzione al libro di Alivernini, attribuendo la scelta di base a Pietro Dettori, all’epoca dipendente della Casaleggio Associati. Dettori infatti assegnò sul blog di Beppe Grillo un titolo provocatorio a un video pubblicato due giorni dopo lo scontro alla Camera:
 
Io ero lì, uomo-macchina della comunicazione 5 Stelle in posizione di vertice, e posso raccontare cosa successe. Il video, girato da un attivista, era leggero, esilarante, piacevole. (…) Un ragazzo al volante con accanto un cartonato raffigurante la presidente della Camera a cui venivano poste domande, ragionamenti, proposte. Tutto qui, tutto molto lieve. Dettori, che in quel momento gestiva i social di Grillo, lo titolò Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?. (…) E per giorni si scatenò l’inferno, sul web e nella politica. Per giorni, quegli stessi lunghissimi e pesanti giorni, io portai l’imbarazzo e la vergogna addosso (p.7).
 
Parlando della cosa con Gianroberto Casaleggio, Biondi dichiara di aver ricevuto questa cinica risposta:
 
“Delle conseguenze non ti preoccupare. Ma noi dobbiamo imparare a canalizzare il sentiment della Rete e usarlo. Oggi abbiamo sbagliato, ma il risultato che ne è venuto fuori ci dice che la Rete è dalla nostra parte. È la Rete che decide la reputazione delle persone” (p. 7).
 
Nei giorni successivi all’uscita del video, la campagna di odio sulle reti sociali, rinfocolata anche dalla televisione e da alcune incertezze comunicative di Laura Boldrini e del suo gruppo, divenne ancora più estesa e violenta. A venire allo scoperto fu un grumo vergognoso di idee sessiste, razziste e violente, documentate nel libro in un modo che non è opportuno ripetere qui.
 
Il peggio però doveva ancora venire. Anche la Lega adottò Laura Boldrini come bersaglio, coinvolgendola esplicitamente in una serie di comunicazioni mirate a incitare all’odio contro gli stranieri. È il caso per esempio di un post di Salvini del 30 gennaio 2018, a commento dell’assassinio di Pamela Mastropietro a Macerata (p. 62).
 
In definitiva, dopo l’intervento della Casaleggio Associati, la Lega e gli altri partiti politici di estrema destra hanno usato continuamente Laura Boldrini come un bersaglio, nel modo che in precedenza era stato proprio solo dei movimenti più estremi. Il tutto al di là di qualunque rapporto con le posizioni reali (ragionevolissime e umane) dell’interessata nei confronti delle migrazioni e delle relazioni internazionali. L’importante era avere a disposizione un nome e cognome, possibilmente femminili, per suscitare e incanalare odio. Ne sono risultati decine di migliaia di commenti osceni e di incitamenti alla violenza, spesso firmati con disinvoltura con nome e cognome su Facebook.
 
Dal 25 novembre 2016 però Laura Boldrini e il suo ufficio stampa hanno iniziato a pubblicare e presentare, appunto, i nomi e cognomi degli autori di questi messaggi (p. 112). Il risultato è stato, ovviamente, un gran numero di messaggi di pentimenti, di scuse, di “non pensavo”… Dal 14 agosto 2017 poi sono iniziate anche le denunce (p. 118). E il 15 gennaio 2019 la prima condanna per questi atti di diffamazione, quella del sindaco leghista di Pontinvrea, Matteo Camiciottoli (pp. 121-122).
 
Probabilmente anche grazie a questi atti, il clima di comunicazione su alcune pagine Facebook è cambiato. Studiando questo genere di comunicazione, so che è difficile dare valutazioni quantitative solide; ma la percezione di un miglioramento dei toni, di un calo della violenza verbale, è molto forte negli ultimi mesi. E, a scanso di equivoci, va detto che quella violenza non era equamente distribuita: era nella quasi totalità una violenza di destra, razzista, antifemminista, omofoba, rivolta contro chi aveva opinioni che ancora oggi si possono caratterizzare “di sinistra”, ma che forse sarebbe più semplice definire “umane e ragionevoli”.
 
Le conclusioni di Alivernini sono ottimiste:
 
Gli odiatori seriali sui social di Laura Boldrini oggi sono davvero pochi. Rumorosi, certo, ma prontamente ricacciati indietro da una comunità digitale che si è stretta attorno ai propri valori e alle proprie idee politiche. (p. 129).
 
Non so se questo ottimismo può essere condiviso fino in fondo. Io, appunto, ritengo che l’odio che è stato fatto dilagare negli ultimi anni non sia stato creato dal nulla dalle reti sociali, e che non bastino operazioni di ripulitura delle reti stesse per cancellarlo. Però, appunto, in questa ecologia di comunicazioni, occorreva senz’altro reagire in nome dell’umanità e della civiltà. Non basterà, ma va fatto e rappresenta un componente importante per la nostra vita sociale.

In fin dei conti, e in sostanza: le espressioni di odio e gli incitamenti alla violenza non sono una componente inevitabile delle piattaforme online. Ospitare messaggi del genere è una scelta dei proprietari, e contrastarli è perfettamente possibile sia dal punto di vista tecnico che da quello sociale.
 
Flavio Alivernini, La grande nemica: il caso Boldrini, Milano, People, 2019, pp. 154, € 16, ISBN 978-88-32089-09-7. Comprato su Amazon.it.
 

giovedì 24 ottobre 2019

Convegno ILPE a Messina


 
Il treno in traghetto tra Calabria e Sicilia
Sono a Messina al convegno ILPE 4 – Les idéologies linguistiques dans la presse ècrite; l’exemple des langues romanes, ottimamente organizzato da un comitato internazionale di cui è membro italiano Fabio Rossi.
 
Oggi pomeriggio parlerò di un tema a me molto caro: L’ideologia linguistica e le pratiche di Wikipedia in lingua italiana. Prenderò in esame soprattutto le pagine di aiuto di Wikipedia, tra cui il Manuale di Stile, e alcune discussioni recenti per mostrare in particolare la spinta alla normalizzazione e i fattori che la rafforzano. Tra l’altro, diversi interventi tenuti al convegno negli ultimi giorni hanno mostrato quanto la spinta alla normalizzazione sia attiva in aree molto diverse della comunicazione elettronica… e io cercherò di documentare appunto somiglianze e differenze.
 
Aggiungo però che mi ha fatto molto piacere anche solo arrivare qui in treno, con l’Intercity Notte 35551 da Roma. Ottimi letti “Confort”, e una soddisfazione particolare nel trasbordo. Sì, perché come forse non tutti sanno, i treni italiani a lunga distanza non si fermano allo stretto di Messina: vengono scomposti, caricati su un traghetto delle Ferrovie e ricomposti allo sbarco in Sicilia. Il che permette anche al passeggero volenteroso di alzarsi presto e godersi spettacoli come l’alba in mezzo allo Stretto, con Scilla e Cariddi in lontananza.
 

lunedì 21 ottobre 2019

Scòzzari, Lassù no

  
 
Una vignetta di Baghdad
Mi sembra che nel fumetto italiano ci sia un buon numero di autori sottovalutati. En cima alla mia personale classifica c’è Filippo Scòzzari, uno dei grandissimi.
 
Non è l’unico, ma è quello che è riuscito ad andare avanti con la massima costanza e capacità di rinnovamento all’interno del proprio stile. Stefano Tamburini se n’è andato troppo presto. Massimo Mattioli, da poco scomparso, ha fatto cose incredibili come Joe Galaxy e le perfide lucertole di Callisto IV ma non ha variato molto il modello. Scòzzari no: si è allargato in diverse direzioni, e con successo. I suoi libri di memorie, da soli, basterebbero per assicurargli il posto in una storia della letteratura italiana contemporanea.
 
Negli ultimi mesi sono riuscito a ritrovare un po’ di gusto per il fumetto e ho fatto diverse letture interessanti. Mi sono anche comprato l’appena uscito Lassù no, una raccolta di 20 diverse storie a fumetti di Scòzzari, da poco uscita per Coconino Press. Ottima idea.
 
L’edizione purtroppo non è impeccabile. Nella storia Un buon impiego, grande lavoro del 1977, si apprezza il fatto che, come in diversi altri casi, le scansioni siano state eseguite sugli originali, non sulla versione stampata in rivista… però, nel farlo, è saltata la tavola 13! E in un paio di casi, ammetto che le scansioni di originali forse avrebbero potuto essere sostituite dalle versioni su rivista, che piallando le caratteristiche dell’originale ne limavano anche i difetti – cosa di cui l’autore, all’epoca, era ben consapevole, direi.
 
Io poi ho avuto anche l’idea di comprare il libro, per motivi di tempo, su Amazon. Scelta con molte controindicazioni, nel caso di volumi di grande formato: il libro è arrivato con una brutta ammaccatura che rovina la parte superiore della sovracoperta. Poco per prendersi il disturbo di fare la procedura di rimborso, ma fastidioso – e non è la prima volta che mi succede.
 
Al di là di queste seccature minori, però, il libro è splendido. Scozzari riesce a combinare come pochi testi e immagini creando un mondo surreale e coerente. Le storie incluse sono 20, realizzate dal 1976 (Fango) al 2003 (Baghdad); e le più recenti sono tra le più spettacolari. Al punto che, dovessi sceglierne una, sceglierei appunto l’ultima, uscita durante la lunga attesa dell’invasione americana dell’Iraq. Sono solo sei tavole, ma contengono undici microscenette impostate sul “quanto tutto andrebbe meglio se fossimo a Baghdad”: una per ognuna delle prime cinque tavole, e poi sei (una per vignetta) nella tavola finale. Il risultato è una combinazione riuscitissima di grafica, senso del parlato, rinvii all’attualità. Giusto per avere un’idea delle battute tipiche:
 
[personaggio senza occhi e senza bocca] No! Léi, è ufficiale? Se è ufficiale, e anche se non lo è, le suggeriamo Baghdad!
Ci prendiamo cura noi del suo gelo, mentre è via! (p. 130)
 
Limiti? Beh, certo, dove porta questo surrealismo, e perché? C’è un motivo per cui alla fine mi sono dedicato alla ricerca, più che all’arte. Ma Scòzzari riesce a fare una cosa rara: far percepire la possibilità di qualcosa di diverso, che poi non esiste ma non è importante che esista. In questo momento, mi ci voleva.
 
Filippo Scòzzari, Lassù no, Roma, Coconino Press, 2019, pp. 218, € 25, ISBN 978-88-7618-426-0. Comprato su Amazon.it.
 

martedì 15 ottobre 2019

Tavosanis, Il rapporto tra le tecnologie, il cambiamento linguistico e l’educazione linguistica


 
Copertina Educazione linguistica e insegnamento
Mi è arrivato da poco un altro libro con un mio contributo: Educazione linguistica e insegnamento, a cura di Daria Coppola. Il libro è un’interessante raccolta di studi sul tema sintetizzato dal titolo, e nasce come sviluppo di un ciclo di incontri tenuti negli scorsi anni a Pisa.
 
Impossibile sintetizzare qui tutti i contributi, che, come sottolineato nell’introduzione di Daria Coppola, si basano su una “pluralità dei punti di vista, talvolta (e utilmente) non coincidenti” (p. 15). Mi limito qui a ricordarne uno: Educazione linguistica oggi: dal passato al prossimo futuro di Francesca Gallina (pp. 37-61), che fa un’ottima sintesi della storia del concetto di educazione linguistica in Italia, con particolare riferimento, naturalmente, a Tullio De Mauro e alle tesi del GISCEL.
 
Il mio contributo, Il rapporto tra le tecnologie, il cambiamento linguistico e l’educazione linguistica, ha un taglio molto diverso. Ho approfittato dell’occasione per riprendere e sintetizzare diverse riflessioni contro il determinismo tecnologico nei fatti di lingua. Alla base di questo ci sono polemiche un po’ remote, e in particolare quelle risalenti alla triste vicenda dei “nativi digitali” nel 2013. Tuttavia, per me è stato importante formalizzarle ora, ripensando a vicende e a contributi molto più recenti: le attività su Wikipedia da un lato, le riflessioni di Gino Roncaglia sull’età della frammentazione dall’altro.
 
L’idea che voglio proporre, in definitiva, è semplice – e, sarei tentato di dire, di buon senso. Le nuove tecnologie della comunicazione offrono possibilità che in precedenza non c’erano. Ciò che poi ne viene fuori non è rigidamente predeterminato, ma è il frutto di molti fattori. Economici, naturalmente, ma anche culturali. E tra questi c’è anche, com’è ovvio, la possibilità di intervenire volontariamente: di spingere perché gli strumenti vengano usati per i fini che ci sembrano positivi, e non per quelli negativi.
 
Il lavoro non è facile, ed è giusto che non lo sia. Le società umane sono ecologie complesse in cui spesso ricette semplici producono risultati non voluti. Ma per fortuna il lavoro è possibile, e credo che chi ci si impegna possa imparare molto, portandolo avanti.
 
Mirko Tavosanis, Il rapporto tra le tecnologie, il cambiamento linguistico e l’educazione linguistica, pp. 97-112, in Educazione linguistica e insegnamento, a cura di Daria Coppola, Pisa, ETS, 2019, pp. 213, € 15, ISBN 978-88-4675584-1. Copia autore ricevuta dall’editore.
 

venerdì 27 settembre 2019

CILGI 2019 a Campobasso

 
Particolare dell'immagine sul sito CILGI
In questi tre giorni sono a Campobasso per l’interessantissimo convegno CILGI 2019. Organizzato da Giuliana Fiorentino all’Università del Molise, il convegno è dedicato all’alfabetizzazione come pratica di cittadinanza. Un tema che mi sta molto a cuore, ovviamente…
 
Io ho parlato ieri (il 26 settembre) con un intervento su Alfabetizzazione digitale, scrittura enciclopedica ed educazione linguistica democratica. Cioè, in particolare, di quali siano gli spazi in cui oggi, nella vita civile e democratica, la scrittura ha la sua importanza. La mia idea è che questi spazi non siano molto ampi, ma che potrebbero esserlo e che varrebbe la pena, per la società tutta, investire consapevolmente energie in questa direzione – ampliandoli gli spazi che esistono, e creandoli dove non esistono. E, soprattutto, farlo dopo aver raccolto qualche informazione sulla situazione; perché di ciò che accade oggi nel mondo reale abbiamo una consapevolezza molto vaga.
 
Impostazione di base? Tullio De Mauro, ovviamente; ma tenendo presente che i lavori di De Mauro e della sua scuola non forniscono liste già pronte di spazi per la discussione civile. Al tempo delle Tesi del GISCEL, partiti e sindacati erano (e in parte sono) punti di riferimento; ma oggi? Non è esattamente uno spazio generale di discussione, e ha molte controindicazioni, ma un ambiente interessante da questo punto di vista è quello di Wikipedia, in cui da molti anni ho fatto esperienza.
 
Stamattina poi un vertice del convegno è stata l’interessantissima presentazione di Florian Coulmas, forse oggi il più importante studioso dei sistemi di scrittura su scala mondiale. Parlando in parte in italiano, Coulmas ha risposto alla domanda su quale sia “il miglior sistema di scrittura del mondo”. Spoiler: è l’alfabeto hangŭl usato in Corea (non sono rimasto troppo sorpreso). Ma in generale tutta la presentazione è stata affascinante… e adesso aspetto con interesse il resto del convegno.
 

giovedì 25 luglio 2019

Tavosanis, Dai computer come strumenti di comunicazione ai computer che parlano e scrivono

 
Copertina di: L'italiano che parliamo e scriviamo
Ho ricevuto da poco un nuovo libro, L’italiano che parliamo e scriviamo, curato da Sabina Gola. Pubblicato con il contributo dell’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, il libro prende le mosse dal convegno organizzato appunto a Bruxelles da Sabina Gola nel 2017. Gli interventi presentati vanno però oltre i temi originali e offrono una serie di interessanti approfondimenti su varie sfaccettature dell’italiano contemporaneo.
 
All’interno c’è anche un mio contributo: Dai computer come strumenti di comunicazione ai computer che parlano e scrivono (pp. 67-77). Ovviamente, il tema è collegato a quanto ho scritto nel mio libro su Lingue e intelligenza artificiale; tuttavia, avendo qualche mese in più a disposizione, in questo contributo sono riuscito a fare qualche accenno anche a novità successive all’uscita del libro. Una sezione del testo parla quindi di “altoparlanti intelligenti”, cioè in sostanza di Google Home e Amazon Echo, divenuti disponibili in italiano solo nel corso del 2018. Un’altra accenna agli sviluppi delle tecniche di conversazione, facendo riferimento anche al premio Alexa.
 
Tutto questo rende il contributo, spero, un aggiornamento interessante su quanto detto nel libro. Sarebbe importante riuscire poi a continuare il lavoro, e chissà che non ce ne sia l’occasione…
 
In aggiunta a questo, nel libro sono presenti numerosi altri contributi di rilievo. Mi limito qui a segnalarne uno, La punteggiatura italiana contemporanea tra (neo)standard e lingua mediata dalla rete. Il caso della virgola e dei puntini di sospensione, di Angela Ferrari e Filippo Pecorari (pp. 43-55). Di particolare interesse qui è il trattamento di ciò che viene chiamato “virgola enunciativa”, collocata a cavallo di due enunciati al posto di un punto, di un punto e virgola o dei due punti. Si nota in particolare che nella comunicazione in rete la virgola “sembra essere il segno preferenziale” in uno dei casi in cui viene evitata nello standard: il cambio di funzione illocutiva (p. 49). Quindi si trova spesso per esempio quando si passa da una dichiarazione a una domanda, o, come in questo caso (preso da un forum), da un ringraziamento a un’asserzione:
 
volevo ringraziarti anticipatamente per la tua disponibilità, io sono nuova del forum ma ho trovato davvero utile il tuo mess
 
Anche su questa base, si osserva poi che “dal punto di vista della testualità, la scrittura elettronica è dunque altrettanto lontana dal (neo)standard che dal parlato: un aspetto che non viene mai osservato, ma che è cruciale per capire la specificità della lingua mediata dalla rete” (p. 50). Lato mio, mi sembra di averlo osservato spesso, in particolare nel mio lavoro su L’italiano del web; ma l’importante è che queste distanze vengano studiate e appropriatamente interpretate.
 
Mirko Tavosanis, Dai computer come strumenti di comunicazione ai computer che parlano e scrivono, pp. 67-77, in L’italiano che parliamo e scriviamo, a cura di Sabina Gola, Firenze, Cesati, 2019, pp. 145, € 18, ISBN 978-88-7667-771-7. Copia autore ricevuta dall’editore.
 

martedì 16 luglio 2019

Tavosanis, Perché parlare di lingue e intelligenza artificiale

  
 
Tavosanis, Perché parlare di lingue e intelligenza artificiale
Sul magazine Treccani è stato pubblicato la scorsa settimana un mio contributo dedicato a rispondere a una domanda precisa: Perché parlare di lingue e intelligenza artificiale? La risposta breve è: perché questo rapporto è interessante e importante! I dettagli sono sul contributo, ma non sciupo la sorpresa a nessuno se anticipo che il mio punto di vista è quello già espresso nel mio libro su Lingue e intelligenza artificiale.
 

martedì 18 giugno 2019

Perché un Laboratorio

 
Anche per l’anno prossimo terrò un Laboratorio di scrittura. Nell’anno accademico 2019-2020, nel secondo semestre, sarò di nuovo (incrociando le dita!) il docente del Laboratorio di scrittura per gli studenti del I anno del corso di laurea triennale in Informatica umanistica dell’Università di Pisa. Spero di replicare anche in questa occasione l’attività in corso adesso: scrivere voci di Wikipedia in lingua italiana. E chi volesse avere un’idea dettagliata delle voci che vengono realizzate proprio in questi giorni con il corso attuale, può dare un’occhiata al Tavolo di lavoro che presenta in dettaglio lo stato delle cose.
 
Il Laboratorio sarà una parte delle mie attività didattiche istituzionali, obbligatorie per i docenti universitari (terrò anche un corso di Linguistica italiana II per la laurea magistrale in Informatica umanistica, e mi occuperò di una parte del corso di Linguistica italiana per la triennale). A prima vista quindi non c’è niente di strano nel farlo. Però, parlando con i colleghi, negli ultimi mesi mi sono trovato a dover difendere la mia scelta, che al momento di fare la programmazione didattica si è presentata in forma di alternativa secca: per la triennale, insegnare nel Laboratorio di scrittura o nel corso di Linguistica italiana?
 
Alcune obiezioni sono state presentate in forma molto cortese e gentile. In particolare, perché non tenere piuttosto il corso di Linguistica italiana, che è più prestigioso? Io mi sono dato da tempo una risposta privata, ma credo sia opportuno articolarla anche in pubblico.
 
Innanzitutto: sono stupido, a fare questa scelta? Secondo molti, un Laboratorio di scrittura, come tutte le attività didattiche di questo genere, ha poco prestigio; i laboratori di scrittura, in generale, sono affidati a personale a contratto, giovani che hanno preso da poco il dottorato o anche solo la laurea, e che sono disposti a fare un lavoro ritenuto meccanico e poco rilevante; i corsi “veri” sono, agli occhi di molti, unicamente i corsi teorici; e così via.
 
Io però non sono sicuro che un atteggiamento del genere sia così diffuso. Il prezioso Annuario dell’Associazione per la storia della lingua italiana (ASLI) presenta anche i corsi tenuti dai soci, e basta scorrerlo per vedere che molti Laboratori sono tenuti da docenti di indubitabile profilo scientifico, anche a livello di professore ordinario. Mi sembra che sia quindi diffusa la consapevolezza che un corso deve essere giudicato dal merito, non dal titolo.
 
Ciò non vuol dire che l’atteggiamento che ho descritto sopra non esista. È perfettamente possibile che alcune delle persone che leggeranno il mio curriculum in futuro, per concorsi o altro, possano storcere il naso o considerare queste attività, in quanto tali e senza guardare al merito, come segno di un profilo scientifico inferiore. Questo sarebbe un danno per me… ma pazienza. Credo che ne valga la pena, e che invece non valga la pena preoccuparsi di pregiudizi infondati.
 
D’accordo, ma perché dovrebbe valerne la pena? Perché correre anche solo il rischio, quando la scelta alternativa sarebbe del tutto sicura? Una risposta a questa domanda potrebbe essere, per esempio, la pigrizia. Tenere un corso di Laboratorio potrebbe essere più facile: forse perché richiede meno tempo, meno sforzo e meno rigore intellettuale.
 
Per quanto riguarda il “meno tempo” e il “meno sforzo” posso mostrare su basi oggettive che non è così. Un Laboratorio richiede un’interazione più stretta con gli studenti rispetto a quelli che vengono definiti i corsi “frontali” puri, in cui il docente sta in cattedra e si rivolge al pubblico, e in cui l’esame finale è costituito da un test a scelta multipla o di una conversazione di mezz’ora o giù di lì con ogni studente. Nel mio caso, ho calcolato da tempo che la sola verifica finale richieda in media due ore a studente. Dati i numeri coinvolti, è un lavoro enorme – e che per diversi anni, in passato, ha molto limitato le mie attività per buona parte dell’anno.
 
Meno quantificabile è invece il rigore intellettuale. Tanto un corso quanto un laboratorio possono essere fatti in modo meccanico o in modo creativo; possono essere nuovi ogni anno, o ripetere pari pari i contenuti dell’anno precedente; possono essere aggiornati alle ultime scoperte oppure no. Dal lato mio, mi sembra che l’impegno che ho messo nel Laboratorio da questo punto di vista sia come minimo pari alla media dei corsi tradizionali che tengo e ho tenuto in passato… ma questo (a differenza delle ore di interazione) è difficile da valutare.
 
In sintesi, magari mi autoinganno, ma non ho mai pensato, nemmeno per una frazione di secondo, che fare un laboratorio possa essere un risparmio di tempo e di energie, a nessun livello.
 
Ma allora, come razionalizzare la scelta? Tenere il Laboratorio significa fare più lavoro in cambio (forse) di meno prestigio; è quindi un atto di autolesionismo? Nell’ultima edizione è stata scritta anche una voce di Wikipedia sulla tricotillomania, una forma di autolesionismo classificata dall’OMS come disturbo mentale. Correggendola mi chiedevo: non è che anche il fare laboratori di scrittura, quando non si è costretti a farli, dovrebbe essere considerato un disturbo mentale?
 
Di nuovo: un parere esterno sarebbe utile, ma non credo proprio che la spiegazione sia questa. A me il corso piace. E soprattutto, tenendolo, posso lavorare su un’area per me chiave e di ampia portata: le competenze di scrittura degli studenti che arrivano all’Università. Potrei valutarle in tanti altri modi, certo… ma passare ore a rivedere i loro scritti, a discutere con loro gli interventi, a cercare in generale di migliorare il risultato mi sembra uno dei modi migliori per farlo. Credo anzi che questa attività, ripetuta per anni, mi abbia dato una conoscenza di questi meccanismi molto diversa rispetto a quella che si può avere da altre prospettive.
 
Riuscirò a trasformare questo lavoro in qualcosa di livello superiore? Ci sto provando da tempo, con diverse angolazioni. Non so se ci riuscirò: il lavoro che ho in mente è molto diverso da quelli che si fanno di solito nelle università italiane, e non è detto che alla fine vada in porto, o che i risultati siano tali da giustificare lo sforzo. Però a me sembra di sì, e sono disposto a sacrificare molti lavori tradizionali per dedicare le mie energie a questo.
 
A scanso di equivoci: anche insegnare Linguistica italiana sarebbe stato bellissimo. Nel settore si può fare, e molti colleghi fanno, un lavoro splendido, su uno dei temi più interessanti che si possano immaginare (forse sono un po’ di parte, lo ammetto!). Però, visto che non si può fare tutto, credo che la scelta migliore sia dedicarmi appunto al Laboratorio. Migliore per me, di sicuro. Migliore per i miei studenti… lo spero, ma devono essere loro a dirlo! E migliore per la ricerca scientifica, se riuscirò a tirare le fila del lavoro e ricavarne quello che spero – che è comunque sempre un’incognita.
 
Aggiungo un’ultima cosa, per sintetizzare i risultati del Laboratorio. Io sento e leggo molti docenti, anche nelle materie umanistiche, lamentarsi (a volte in forma caricaturale) delle scarse capacità di scrittura e di espressione degli studenti. Io, lavorando a stretto contatto con loro e con i testi, non vedo nulla del genere. Vedo studenti che arrivano al I anno di università con una discreta padronanza media dell’italiano scritto, poca conoscenza dei principi della scrittura scientifica (com’è ovvio, visto che a scuola, con poche eccezioni, non si fa), ma anche molti interessi e una rapida capacità di assimilazione. Al termine del Laboratorio, indipendentemente dal percorso di partenza, ognuno di loro avrà scritto come minimo un’accettabile voce di enciclopedia su un argomento a propria scelta. In alcuni casi sarà stato un percorso facile, in altri decisamente più faticoso. A me però sembra che ognuno di loro compia in questo modo un passo importante sulla strada di una cittadinanza consapevole nella società di oggi; poter essere al loro fianco in questo percorso si è rivelato, negli anni, una fonte profonda, e difficilmente sostituibile, di soddisfazione personale.
 

giovedì 30 maggio 2019

Lingue e intelligenza artificiale in e-book

  
 
Copertina di Lingue e intelligenza artificiale
Aggiornamento pubblicitario: il mio libro Lingue e intelligenza artificiale (Roma, Carocci, 2018) è stato messo in vendita da poco anche come e-book! In questa forma, il libro è disponibile:
 
 
Insomma, per usare un abusato luogo comune pubblicitario: adesso non ci sono più scuse per non comprarlo!
 

martedì 28 maggio 2019

Tavosanis, Scrivere su Wikipedia dall’università alla scuola


 
Copertina di: Scrivere nella scuola oggi
Ho ricevuto da poco il corposo volume Scrivere nella scuola oggi, curato da Massimo Palermo ed Eugenio Salvatore. Il volume contiene gli atti del convegno ASLI Scuola del 2017 che si è tenuto all’Università per stranieri di Siena. Al convegno ho partecipato anch’io, e conseguentemente nel libro c’è anche un contributo mio, intitolato Scrivere su Wikipedia dall’università alla scuola.
 
Non ho ancora letto per intero gli altri lavori, che promettono di essere molto interessanti (del resto, il convegno è stato davvero interessante!). Il mio, comunque, è il racconto di alcune delle esperienze che ho fatto nell’ultimo decennio, presentando Wikipedia in lingua italiana come spazio per imparare la scrittura professionale. All’interno del contributo sono quindi descritti i miei Laboratori di scrittura, ma anche un corso con riflessione sulla scrittura di voci storiche che ho tenuto nel 2017 al Liceo Classico “XXV aprile” di Pontedera, con il coordinamento della professoressa Claudia Mazzei.
 
All’interno di quest’ultimo corso non è stato possibile fare scrittura collettiva vera e propria, ma abbiamo esaminato il modo in cui si scrivono le voci su personaggi storici. Dal punto di vista della lingua italiana, ci siamo concentrati soprattutto sull’uso dei tempi verbali: passato remoto (il mio preferito) o passato prossimo o presente storico? Le cose sono relativamente semplici quando si parla di personaggi dell’antichità, come lo storico greco Eforo di Cuma, di cui tra l’altro abbiamo ampliato la voce già esistente. Un po’ più complesse quando si parla invece di un presente relativamente vicino. Ma in generale, anche se in forma ridotta, il corso è stato un’ottima occasione per presentare le potenzialità didattiche di Wikipedia e incoraggiare gli studenti a scrivere.
 
In proposito, credo che Wikipedia goda di un vantaggio notevolissimo su tutte le altre possibili sedi di scrittura: gli studenti la conoscono già e la apprezzano. Nessuna piattaforma didattica allestita per l’occasione da un docente può ottenere lo stesso effetto – e, credo, rafforzare la motivazione in modo proporzionale. Per la didattica della scrittura, infatti, la motivazione del singolo studente, e il suo coinvolgimento su attività di interesse, mi sembrano il modo più efficace per trasformare un esercizio scolastico subito passivamente in qualcosa che ha un senso e viene vissuto in maniera attiva. Sarebbe comunque interessante sentire altre opinioni in proposito…
 
Mirko Tavosanis, Scrivere su Wikipedia dall’Università alla scuola, pp.173-182, in Scrivere nella scuola oggi. Obiettivi, metodi, esperienze, a cura di Massimo Palermo ed Eugenio Salvatore, Firenze, Cesati, 2019, pp. 494, € 40, ISBN 978-88-7667-758-8. Copia autore ricevuta dall’editore.
 

giovedì 23 maggio 2019

Un video su YouTube


 
Per questo semestre ho finito i corsi – e, come al solito, mi ha dato particolare soddisfazione il Laboratorio di scrittura con le sue voci di Wikipedia (che ora sto laboriosamente correggendo).
 
A fine corso uno studente mi ha chiesto un’intervista per il suo canale YouTube. Ho visto che sono stato etichettato come “esperto di Wikipedia”… beh, non sono certo uno dei massimi esperti italiani in materia, ma ho provato a rispondere a qualche domanda. Ecco qui il risultato:

 

E, sì, lo so: è molto tempo che non aggiorno il blog. Ma appunto, finiti i corsi spero di avere un po’
 di tempo per farlo.


giovedì 21 febbraio 2019

Gordin, Scientific Babel

  
 
Copertina di Michael D. Gordin, Scientific Babel
Del rapporto tra lingue e scienza si parla molto, com’è giusto che sia. Per l’italiano spicca in particolare l’impegno dell’Accademia della Crusca, con una serie di contributi che include, per esempio, gli atti della tavola rotonda Quali lingue per linsegnamento universitario?, pubblicati da Laterza nel 2013 con il titolo Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino.
 
Tuttavia, il pubblico non specialista non sempre ha presente il contesto, inteso in senso sia storico (= cosa succedeva davvero nel passato, anche recente), sia geografico (= cosa succedeva o succede altrove). Il bellissimo libro di Michael Gordin sulla Scientific Babel fornisce appunto una contestualizzazione molto utile. Il periodo coperto è soprattutto quello che va da metà Ottocento a fine Novecento, e il settore preso in esame più da vicino è la chimica; molte delle considerazioni fatte possono però essere estese a molti altri casi.
 
Dal punto di vista generale, i rapporti tra le lingue usate nella comunità scientifica sono perfettamente sintetizzati da questa presentazione grafica del numero di pubblicazioni riconducibile a ogni lingua (p. 5):
 
Grafico sul numero di pubblicazioni scientifiche per lingue, da Gordin 2015

Gordin esplicita bene le implicazioni di questi dati:
 
The most obvious and startling aspect of this graph is the dramatic rise of English beginning from a low point at 1910. The situation is actually even more dramatic than it appears from this graph, for these are percentages of scientific publication—slices of a pie, if you will—and that pie is not static. On the contrary, scientific publication exploded across this period, which means that even in the period from 1940 to 1970 when English seems mostly flat, it is actually a constant percentage of an exponentially growing baseline (pp. 6-7).
 
Tuttavia, all’interno della storia principale ne sono evidentemente contenute altre due. Una è correlata a “another prominent feature of the midpoint of the graph (1935–1965): the dramatic growth of scientific Russian” (p. 7). L’altra è quella, definita “centrale” per il periodo 1910-1945, che vede “prominent rise and decline of German as a scientific language” (ibidem). Il tutto tenendo ben presente che, come avviene in altre aree, “the story of scientific language correlates with, but does not slavishly follow, the trajectory of globalization. Knowledge and power are bedfellows; they are not twins” (ibidem).
 
Questo è il quadro generale, ben noto nelle sue linee di base perfino ai non specialisti – anche se per esempio, per me sono stati una novità molti aspetti del ruolo del russo, che ovviamente possono essere compresa per bene solo da chi, come Gordin, conosce la lingua. Però a volte anche nella ricerca storica basta dire esplicitamente ciò che si sa inconsciamente per illuminare il tutto con una luce nuova. Una delle osservazioni introduttive fatte nel testo è che
 
taking languages that register a statistically significant proportion of the world production in something we might now call science, we find (in alphabetical order): Arabic, Chinese (classical), Danish, Dutch, English, French, German, Greek (ancient), Italian, Japanese, Latin, Persian, Russian, Sanskrit, Swedish, Syriac, and Turkish (Ottoman) (p. 4).
 
In totale si tratta solo di diciassette lingue, e Gordin nota giustamente che “There is no other sphere of human cultural activity – trade, poetry, politics, what have you – that takes place in such a limited set of tongues” (ibidem). Il lettore italiano potrà notare con interesse che per esempio sono rimasti fuori dalla lista spagnolo, portoghese e rumeno, nonostante l’enorme diffusione di alcune di queste lingue. Ma soprattutto, se l’elenco colpisce da un lato per la sua selettività, dall’altro, specularmente, colpisce anche per la difficoltà da parte di un normale lettore nel gestirlo tutto. In tutta la storia del mondo, gli individui capaci di leggere contemporaneamente in modo fluente il russo, il cinese e l’olandese sono stati pochissimi.
 
Com’è stato quindi affrontato il problema della diversità delle lingue? Uno dei modi preferiti era anche il più semplice: gli scienziati potevano imparare tutte le lingue necessarie. Cosa fattibile con ragionevolezza nel periodo tra fine Ottocento e inizio Novecento, in cui si può parlare di un “triumvirato” di lingue composto da inglese, francese e tedesco, con l’italiano e il russo in una posizione secondaria. Questo sistema però non permetteva di gestire fenomeni come, appunto, la rapida ascesa del russo dopo la Seconda guerra mondiale.
 
Uno dei modi alternativi per affrontare la Babele scientifica è stato l’uso di lingue artificiali. Oggi questa sembra una possibilità irrealistica, ma Gordin mostra in modo convincente che tra Otto e Novecento, in ambito scientifico, le lingue artificiali venivano prese molto più sul serio di quanto si pensa normalmente. I capitoli 4 (Speaking Utopian) e 5 (The Wizards of Ido) descrivono in dettaglio l’impegno di figure come il chimico Wilhelm Ostwald per la diffusione nel mondo della ricerca di lingue che vanno dall’esperanto al volapük e all’ido: è un’integrazione molto importante alle storie raccontate per esempio in un bel libro divulgativo di Arika Okrent di cui ho parlato qualche anno fa.
 
Particolarmente importante per me è però il modo in cui negli Stati Uniti venne affrontato il problema specifico del russo, negli anni Cinquanta e Sessanta. Tra gli scienziati e i tecnici attivi in America, molti erano all’epoca in grado di leggere il tedesco (anche perché molti erano tedeschi…). Solo lo 0,1 di loro, però, secondo una rilevazione fatta all’epoca, si sentiva in grado di leggere il russo (p. 216).
 
In questo contesto divenne sorprendentemente popolare l’idea di ricorrere a una soluzione tecnica: la traduzione automatica. La storia di questa idea, diffusa soprattutto da Léon Dostert, occupa una buona parte dei capitoli 8 e 9 – e non mi sembra che esistano ricostruzioni migliori di questo interessantissimo periodo. Dal famigerato “esperimento” Georgetown-IBM del 1954 fino alla stroncatura contenuta nel rapporto ALPAC del 1966, la traduzione automatica del russo sembrò a portata di mano. Non lo era, e agli addetti ai lavori questo era chiaro fin dall’inizio. Però si sentiva il bisogno di intervenire nel settore, e l’idea era appetibile e finanziabile.
 
Alla fine, il problema fu risolto per altri canali. In buona parte lo eliminò, semplicemente, l’incapacità della scienza sovietica di mantenere il livello di sviluppo di quella occidentale. All’epoca, tuttavia, furono importanti anche altri contributi: nel libro di Gordin è per me affascinante soprattutto la storia delle agenzie specializzate che traducevano integralmente (“cover to cover”) le riviste scientifiche sovietiche.
 
E oggi? Gordin preavvisa nelle prime pagine che la storia del suo libro “ends with the most resolutely monoglot international community the world has ever seen—we call them scientists—and the exclusive language they use to communicate today to their international peers is English” (p. 2). Oggi la comunicazione scientifica è diventata monolingue in molte discipline, e questo può far pensare che il monolinguismo sia una tendenza normale.
 
Ma, appunto, una delle cose che si imparano dalla storia è che questa non è condizione di natura: il libro è anzi dedicato a illustrare “how deeply anomalous our current state of affairs would have seemed in the past” (ibidem). Aggiungo che il ricordo del passato permette anche di immaginare che, date le opportune circostanze, questa anomalia potrebbe scomparire! Del resto, come nota Gordin, lo studio delle scienze naturali in Europa era basato sul monolinguismo latino, ma gli scienziati a un certo punto hanno “deliberately, consciously” (p. 5) deciso di passare alla frammentazione linguistica.
 
Va poi notato che uno dei fattori fondamentali per un’ipotetica evoluzione in questo senso potrebbe essere di nuovo la traduzione automatica che, mentre pochi se ne accorgevano, è finalmente arrivata davvero a un livello tale da rendere praticabile ciò che negli anni Cinquanta era irrealistico. Qualche ipotesi in proposito l’ho fatta nel mio libro su Lingue e intelligenza artificiale, ma ci sarebbe ancora molto altro da dire.
 
Michael D. Gordin, Scientific Babel. The Language of Science from the Fall of Latin to the Rise of English, Londra, Profile Books, 2015, pp. 415, € 5,53, eISBN 978-1-84765-958-3. Edizione Kindle comprata su Amazon.
 

venerdì 15 febbraio 2019

Kolkata Literature Fair

  
 
I classici taxi gialli di Kolkata
La settimana scorsa ho partecipato alla Kolkata Book Fair, e più in particolare alla Kolkata Literature Fair, ospitata all’interno della manifestazione principale. Tra le altre cose, ho partecipato a un dibattito su “New genres, new voices” nella letteratura, coordinato da Esha Chatterjee di Bee Books.
 
L’esperienza è stata fantastica! Sia per l’organizzazione (per me è stato fondamentale in particolare il lavoro fatto, oltre che da Esha Chatterjee, da Srabani Bhattacharya) sia per l’ambiente. La KBF è stata veramente partecipatissima e mi ha dato la sensazione di un ambiente editoriale molto vivace.
 
Una delle cose che ho apprezzato di più è stata la vivacità dell’editoria in lingue indiane. Purtroppo il bengalese è per me inaccessibile (a differenza di quanto avviene per l’hindi, non riesco nemmeno a leggere l’alfabeto, nonostante sia simile), ma la varietà delle produzioni è notevole. Questo va in contrasto con il panorama linguistico globalizzato di Kolkata, in cui l’inglese oggi domina nelle insegne e nella segnaletica. Trovo che questo sia un peccato, anche se in India il ricorso all’inglese è anche un modo funzionale per non far torto a nessuna delle lingue indiane: hindi, bengalese, marathi, lingue dravidiche…
 
Uno scorcio della KBF


Poi Kolkata si è rivelata affascinante di per sé. Un po’ per i suoi ritmi rilassati rispetto a Delhi, e un po’ per le trasformazioni. Io c’ero stato due anni fa, in una visita di poche ore, e mi sembra che anche in un tempo così breve i cambiamenti siano stati vistosi. Sul famoso ponte di Howrah non passano più bufali: il traffico è tutto a piedi o motorizzato. I risciò con motore a combustione interna sono stati in buona parte sostituiti da carrozzelle elettriche (anche se mi è capitato perfino di vedere dei risciò tradizionali, tirati da un uomo a piedi). Le costruzioni si moltiplicano. In generale, sembra che non solo stia arrivando un sacco di soldi, ma che il benessere si diffonda in fretta – anche se è ovvio che rimangono ancora molti problemi da risolvere.

Sarasvati sul ponte di Howrah

Se uno vuole colore, comunque, basta ancora salire su un treno locale. Nelle carrozze senza aria condizionata passano continuamente venditori ambulanti di chai e di uova sode, suonatori baul, travestiti hijra che chiedono un’elemosina in cambio di una benedizione… Fuori dal finestrino, risaie e gente al lavoro nei campi. Carrozzelle e carretti trasportano le immagini di Sarasvati per la prossima puja.

Un baul particolarmente simpatico

E nel frattempo, soprattutto attorno all’aeroporto, una serie interminabile di cartelloni con la faccia di Mamata Banerjee vanta l’enorme crescita del PIL bengalese e il fatto che il reddito dei contadini è triplicato negli ultimi sette anni. La sfida del prossimo futuro potrebbe consistere soprattutto nel tenere ciò che è importante e accogliere ciò che è utile. Intanto io apprezzo gli enormi vantaggi che mi sembra che la globalizzazione stia portando in una quantità incredibile di posti.


venerdì 8 febbraio 2019

In Bengala

  
 
Il treno a vapore di Darjeeling
In questi giorni sono impegnato in una rapida trasferta nel Bengala occidentale. La ragione di base è partecipare al Kolkata Literature Festival a Kolkata (o Calcutta), dove domani pomeriggio parlerò del rapporto tra narrativa e fumetto in Italia. Tuttavia, all’arrivo ho fatto a spese mie una rapida deviazione con pernottamento a Darjeeling, un migliaio di chilometri più a nord, in quelle che vengono chiamate le “colline” dell’Himalaya. Che poi tanto colline non sono, visto che Darjeeling è a 2100 metri.
 
Procedura per arrivarci: da Delhi, volo per Bagdogra, lungo una rotta che per buona parte del tempo segue il Gange e da cui, per la prima volta in vita mia, vedo in lontananza le vette innevate dell’Himalaya. Da Bagdogra, autobus (un po’ ruspante) per Siliguri, 45 minuti. A Siliguri, jeep collettiva per Darjeeling, dopo una lunga attesa per fare il pieno di passeggeri, con 3 ore di percorso su una strada sorprendentemente buona. Le terre basse e le palme da cocco rimangono in fretta alle spalle, e il paesaggio inizia a far venire in mente il Tibet anche a chi, come me, non c’è mai stato. I passeggeri si alternano e salendo si fanno più numerosi quelli che parlano in nepalese, invece che in bengalese: è sempre una lingua indoeuropea e non è una lingua tonale… ma a me sembra proprio di sentire variazioni di tono e in alcuni casi qualche frase che sembra cinese. Sarà la suggestione del posto!
 
A Darjeeling l’obiettivo principale della mia visita era una delle principali attrazioni locali: il trenino passeggeri costruito dagli inglesi a inizio Novecento. Sarebbe stato bellissimo poter salire da Siliguri con quello, ma il viaggio completo dura otto ore e le poche partenze giornaliere erano incompatibili con i miei orari. In compenso però a Darjeeling c’è la possibilità di fare un giro turistico di due ore sulla linea, fino alla stazione di Ghum e ritorno, con un trenino moderno ma trainato da una locomotiva a vapore originale.
 
Bene, sono arrivato giusto in tempo per salire a bordo di questo giocattolone, e l’esperienza non ha deluso le aspettative. Da un lato, c’è l’interesse del viaggio a vapore. L’ho già fatto altre volte, ma è un interessante salto nel passato, che permette ogni volta di riscoprire i dettagli di quella che per un secolo è mezzo è stata l’esperienza di milioni di persone: dal fischio della locomotiva allo sporco della fuliggine. Dall’altro c’è il fascino del posto, e quello di un treno che passa all’interno delle strade normali, in mezzo alle case e ai negozi.
 
Un’altra attrattiva di Darjeeling dovrebbe essere la possibilità di vedere abbastanza da vicino le cime dell’Himalaya, e in particolare la vetta del Kanchendzonga. Purtroppo nei giorni del mio passaggio la foschia impediva di vedere molto lontano… mi sono contentato di visitare, la mattina di mercoledì 6, il centro del paese, e in particolare la mitica libreria Oxford nella piazza di Chowrasta.
 
Poi giù di corsa, verso il caldo e i trenta gradi delle pianure. Alla sera ero già a Kolkata, a sentire Carlo Ginzburg raccontare delle sue esperienze di storico in uno splendido cortile all’aperto del Victoria Memorial. Un fantastico inizio di missione.
 

domenica 27 gennaio 2019

Siedi il giornalismo linguistico?

  
 
Breve nota su un tema d’attualità. L’11 gennaio il servizio di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca ha pubblicato la risposta di uno dei nostri più illustri storici della lingua, Vittorio Coletti, a un dubbio linguistico. Il quesito era:
 
Molti lettori ci chiedono se è lecito costruire il verbo sedere con l’oggetto diretto di persona: siedi il bambino, siedilo lì ecc.
 
Nella sua risposta, Coletti nota che questa costruzione si trova oggi anche nei manuali tecnici ed è documentata anche da esempi remoti nel tempo. La ritiene quindi accettabile, in quanto “è stata accolta nell’uso, anche se non ha paralleli in costrutti consolidati con l’oggetto interno come li hanno salire o scendere (le scale, un pendio)”.
 
Personalmente, concordo con il criterio di Coletti. A studenti che vogliono / devono scrivere in modo formale consiglierei sempre di scrivere “prima della partenza, far sedere i passeggeri” invece di “prima della partenza, sedere i passeggeri” e così via, ma in molti contesti accetterei senza problemi l’uso con oggetto diretto.
 
Sul ragionevolissimo parere di Coletti si è però alzato uno dei soliti polveroni mediatico-linguistici. Alla base di molte osservazioni sta la semplice incomprensione di ciò che Coletti ha scritto. Ne è un esempio un articolo firmato da Katia Ricciardi e pubblicato oggi su “La Repubblica”. Nel suo testo, Coletti si è espresso solo sull’accettabilità di sedere. Altri usi, per quanto simili, hanno ovviamente un’accettabilità diversa: Coletti ne parla descrivendoli solo come forme diffuse negli “italiani regionali”. Non indica affatto la loro accettabilità nell’uso nazionale – che è molto più ridotta di quella di sedere, anche se in espansione.
 
L’autrice dell’articolo di “Repubblica” scrive invece che l’Accademia della Crusca “ha cambiato orientamento e giudicato accettabili espressioni più diffuse nel Sud Italia ma da sempre considerate errate”. Prende insomma la descrizione degli usi regionali fatta da Coletti come se fosse un’implicita accettazione di uso:
 
L'apertura riguarda infatti altre espressioni: "Una procedura sintetica che riguarda da tempo anche altri verbi di moto come salire e scendere ma anche uscire e persino, al Sud, entrare, che in molti italiani regionali (non solo meridionali) ammettono, specie all'imperativo, il complemento oggetto (sali /scendi il bambino dalla nonna, esci il cane)".
 
Il problema qui non riguarda le scelte linguistiche: il problema riguarda (ahimè) la comprensione del testo, e il capire che l’esistenza di una categoria di fenomeni non può essere implicitamente considerato un motivo per considerare tutti i fenomeni che le appartengono come se fossero sullo stesso piano da altri punti di vista.

Ultimamente, di esercizi di comprensione del testo ne ho scritti molti. Uno di questi, livello 3 nella classificazione PIAAC, avrebbe potuto essere: “dato questo intervento di Vittorio Coletti, se ne può trarre la conclusione che l’autore consideri accettabile l’uso di uscire con oggetto diretto?”. E la risposta avrebbe dovuto essere, assolutamente, no. Tutte le altre risposte sono sbagliate. Il parere di Coletti poteva essere più esplicito, ma un lettore competente non può fraintenderlo.
 
Però, evidentemente, la capacità di comprendere il senso di un testo del genere non può essere data per scontata nemmeno sulle pagine di uno dei più diffusi quotidiani italiani.