La biografia di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson è molto interessante per chi si occupa dei rapporti tra mondo “umanistico” e informatico. Io ho regalato a mio padre una copia dell’edizione Little, Brown (London, 2011, ISBN 978-1-4087-0374-8, pp. xix + 630), e dopo che lui l’ha finita ho cominciato a leggiucchiare qualche pagina qua e là... ma alla fine non ho resistito: qualche giorno fa me la sono portata a casa e sono riuscito a leggerla per intero tra i fine settimana e i dopocena.
Dal punto di vista narrativo, Isaacson ha fatto un ottimo lavoro: una pagina tira spesso l’altra. Per me poi c’era il fascino di ripercorrere esperienze e prodotti con cui ho avuto a fare i conti per trent’anni. In fin dei conti, di computer Apple ho cominciato a sentir parlare davvero verso il 1985, quando scribacchiavo articoli per varie fanzine e i realizzatori più facoltosi si incamminavano già verso il desktop publishing. Per me il discorso rimaneva teorico ricordo ancora lo shock provato quando, in una copisteria di Pisa, ho visto per la prima volta un Mac in azione, direi nel 1987): dati i prezzi, i miei primi computer sono stati di necessità IBM-compatibili, anche se nel 1993 ho dovuto comprarmi per motivi di lavoro un costosissimo Macintosh LC (= “low cost”...) III, con schermo Hantarex. Lì sopra ho realizzato anche le mie prime pagine web, e poi mi sono ben guardato dal comprare altri prodotti Apple – non ne valeva la pena – fino ai primi straordinari post-computer, cominciando con un iPod Touch nel 2008.
Nel mezzo poi ci sono stati anche tanti film Pixar, carini sì, ma che non mi sono mai sembrati troppo geniali – io sono più un tipo da Studio Ghibli. È però interessante vedere come Isaacson presenta il rapporto “umanistico” e “informatico” in questa situazione, dal cap. 19 del libro (“Pixar: Technology Meets Art”) in poi. Ci sono infatti diverse occasioni in cui Jobs descrive i suoi prodotti come una “combination” tra “art” e “technology”, considerando la Pixar da questo punto di vista “just as the Macintosh” (p. 244). In effetti, non c’è dubbio sul fatto che Jobs, a differenza dei suoi colleghi, avesse ben chiaro il fatto che realizzare un computer o un’interfaccia non è un problema puramente tecnologico. Oh, beh. La storia delle interfacce informatiche non è una storia di soluzioni inevitabili: la metafora del desktop è un’idea non tanto brillante, stancamente copiata (da Jobs per primo) per quarant’anni e oltre, e direi che le follie recenti su sistemi operativi “touch” mostrano che l’industria nel suo complesso brancola ancora nel buio.
Ma al di là di questo discorso, che richiede ben altra articolazione, i punti interessanti della biografia di Isaacson sono numerosi. Uno dei più risaputi è formato dalle dichiarazioni di Jobs sul corso di calligrafia del Reed College, da lui seguito nel 1973, che sarebbe stato il punto di partenza per la decisione di dotare il Macintosh di capacità tipografiche avanzate (qui se ne parla alle pp. 40-41). Uno dei più interessanti e recenti è invece l’incontro Jobs-Obama, a fine 2010, descritto alle pp. 544-547. Così come lo racconta Isaacson, l’incontro in pratica si esaurisce in un Obama che ascolta una lunga predica di Jobs; predica che include una sezione francamente imbarazzante sull’educazione:
Jobs also attacked America’s education system, saying it was hopelessly antiquated and crippled by union work rules. Until the teachers’ unions were broken, there was almost no hope for education reform. Teachers should be treated as professionals, he said, not as industrial assembly-line workers. Principals should be able to hire and fire them based on how good they were. Schools should be staying open until at least 6 p. m. and be in session eleven months of the year. It was absurd, he added, that American classrooms were still based on teachers standing at a board and using textbooks. All books, learning materials, and assessments should be digital and interactive, tailored to each student and providing feedback in real time.
Mah. Che io sappia, Jobs non aveva grandi competenze sull’educazione (anche se le scuole e le università americane sono state per lungo tempo il mercato fondamentale per i computer Apple), e, così come è riportato sopra, il suo sfogo è in sostanza una sequenza di luoghi comuni americani – non sempre fondati, credo. Più interessante è il fatto che Jobs, in collaborazione con Rupert Murdoch (!) avesse messo concretamente gli occhi sui libri di testo “as the next business he wanted to transform”, inquadrando il settore come “an $8 billion a year industry ripe for digital destruction” (p. 509). La sua soluzione? L’iPad. “His idea was to hire great textbook writers to create digital versions, and make them a feature of the iPad”, fornendoli gratuitamente – e riprendendo i soldi, immagino, dalle vendite degli apparecchi. I quali avrebbero quindi dovuto diventare obbligatori? Oh, beh: un meccanismo del genere potrebbe anche funzionare, ma, come minimo, far produrre i libri di testo a una sola casa editrice non sembra una mossa ragionevole: legarsi mani e piedi a un fornitore unico farebbe correre a qualunque sistema educativo un bel po’ di rischi sia dal punto di vista ideologico sia da quello economico.
Comunque, è inutile commentare nei dettagli ciò che viene presentato come un vaghissimo piano commerciale. Di sicuro, Apple è oggi un’azienda di dimensioni tali da potersi permettere di mangiare senza problemi interi settori dell’editoria. Non ho controllato se il fatturato dell’industria dei libri di testo negli Stati Uniti è davvero di 8 miliardi di dollari, ma Apple l’anno scorso ha fatto quasi 26 miliardi di dollari di profitti, a fronte di un fatturato di circa 100 miliardi. Non c’è dubbio quindi che volendo potrebbe creare da sé ottimi libri e regalarli a tutti gli studenti americani – ma è decisamente più difficile immaginare che la cosa abbia senso commerciale. Di sicuro, la prima mossa effettiva di Apple nel settore è avvenuta a un livello inferiore di diversi ordini di grandezza: la creazione di iBooks Author.
Vedendo le cose da un’altra angolazione: il mercato dei libri di testo è davvero un sistema contorto, negli Stati Uniti come in Italia, e un cambiamento di rotta potrebbe essere molto utile sia in questo settore sia in quello dell’educazione in generale. Tuttavia, non saranno certo iBooks Author o gli iBooks a produrre questa trasformazione. Un intervento veramente rivoluzionario richiede infatti, direi, un’operazione di complessità intellettuale ben diversa (capire bene a che cosa servono i testi, trovare un modo per integrarli efficacemente nelle pratiche quotidiane, riuscire a vendere al mondo questa soluzione nel modo adatto...). Non mi pare però che qualcosa di simile sia stato elaborato né da Jobs né da nessun altro, alla Apple o altrove. Non è detto neanche che qualcuno riesca per davvero a farlo – i tentativi sono numerosi, ma in genere patetici – però, diamine, di sicuro è un obiettivo a cui io personalmente dedicherei volentieri qualche decennio di vita.