venerdì 20 dicembre 2013

Ascesa e caduta dei MOOC

 
 
Complessità dei MOOC (da Wikipedia in lingua italiana)
Molti esseri umani parlano per estremi e sembrano vivere in un mondo fatto di bianco e di nero. Le persone, per loro, sono sempre creature meravigliose o mostri. Le cose sono amate o sono odiate. È un modo intenso di descrivere la vita e forse è anche migliore rispetto al mio, che si basa in sostanza su sfumature di grigio su sfondo beige.
 
Sono però abbastanza sicuro che, quale che sia la sua positività per il singolo, questo modo non sia quello più adatto a descrivere e capire un sacco di fenomeni, tra cui quelli sociali. Che spesso non sono affatto riducibili al bianco e nero. L’estremizzazione qui è di regola eccesso di semplificazione, e quando ci si mettono di mezzo i giornali spesso la semplificazione arriva alla caricatura di sé stessa. Questo è poi ciò che accade di regola alle informazioni sull’educazione – e, negli ultimi giorni, a quella sui MOOC. L’anno scorso uscivano sui giornali esaltazioni improbabili di questi corsi online, che avrebbero rivoluzionato l’educazione. Oggi escono stroncature, spesso a firma degli stessi giornalisti.
 
Né l’una né l’altra cosa mi hanno sorpreso, anche se mi hanno leggermente intristito. Chi si occupa seriamente di e-learning sa che lo studio è un fenomeno complesso, e che non basta mettere in linea materiali o corsi nuovi perché masse di appassionati imparino cose nuove. Se bastasse quello, i libri a stampa avrebbero già fatto chiudere le scuole da un pezzo: in fin dei conti, ancora oggi è possibile sentire storie meravigliose su come un singolo libro possa dare un accesso alla conoscenza tale da rivoluzionare la vita delle persone. E i numeri trionfali che a volte si ottengono quando si regala un prodotto (buono o cattivo) sul web non significano che il meccanismo con cui lo si regala sia sostenibile sul medio periodo, per non parlare del lungo.
 
Vediamo qualche dettaglio sul caso specifico. Per esempio, in Italia, la Lettura (supplemento del Corriere della sera) ha dedicato ai MOOC nel numero del 15 dicembre 2013 un articolo di Massimo Gaggi (nelle stesse pagine, un più interessante articolo di Cristina Taglietti parla dei libri di testo “fai da te” nelle scuole italiane… settore da seguire da vicino). Lo stesso Gaggi aveva dedicato all’argomento un articolo molto positivo l’anno scorso, debitamente richiamato nel numero di quest’anno.
 
In entrambi i casi, ci troviamo però di fronte al classico giornalismo di seconda mano: nessuna ricerca originale, solo una sintesi e traduzione di cose già dette da altri (e qui va già bene, perché gli articoli sono scritti con competenza… spesso non si è così fortunati). Andando alle fonti, si segnala quindi una coppia di articoli del New York Times. Il 2 novembre del 2012 Laura Pappano aveva annunciato The Year of the MOOC; il 13 dicembre del 2013 Tamar Lewin spiegava invece che After Setbacks, Online Courses Are Rethought.
 
Che cos’è successo nel frattempo? Banalmente, che i MOOC sono stati provati. E che si è visto che, sorpresa, la dispersione degli studenti nelle iniziative di formazione a distanza è altissima. Oppure che, altra sconvolgente sorpresa, riescono a seguire meglio questi corsi le persone che hanno già un titolo di studio tradizionale. Tutte cose che gli addetti ai lavori sanno appunto da decenni, e che sono da tempo ampiamente pubblicizzate e documentate. Ogni tanto può anche essere utile riscoprire l’acqua calda, ma vedendo il modo in cui l’e-learning si presenta all’esterno si ha l’impressione che esista solo questo: un ciclo continuo in cui qualcuno che non aveva mai sentito parlare dell’acqua calda la riscopre, in circostanze più o meno traumatiche.
 
Cioè, voglio dire: l’attuale sistema di formazione superiore non nasce dal caso. È il frutto di tentativi passati – più o meno corretti, più o meno meritevoli di aggiornamento, ma spesso sensati, ragionevoli e funzionali – di trovare modi per fornire formazione a grandi masse di studenti. I quali studenti, lasciati a sé stessi, a volte per fortuna trovano canali alternativi ma sui grandi numeri no. Un sistema di formazione è una cosa complessa e sperare di lanciare un’alternativa funzionante come se fosse un’app per scambiare foto di gatti, ignorando le infinite complessità nascoste che fanno funzionare il sistema esistente, è, come dire, irrealistico.
 
Non nascondo un po’ di frustrazione.
 
A questo punto abbiamo decenni di esperienza sulla comunicazione elettronica e sulla didattica via Internet. In questo settore non esistono ovviamente leggi formalizzate e applicabili, e qualche prodotto di successo apparirà sempre a sorpresa. Tuttavia ma siamo da tempo in grado di distinguere tra cose assurde in partenza e altre meno assurde. I MOOC possono funzionare benissimo come iniziative promozionali di grandi università, realizzate in perdita. Con qualche aggiustamento, possono anche trovare con facilità nicchie in cui prosperare. Non saranno invece, di per sé, una rivoluzione per l’educazione superiore. Punto.
 
Ma si può ottenere entusiasmo anche per un mondo che non è fatto solo di colori chiassosi e titoli strillati? Beh, io credo di sì. A me è capitato di andare in giro per l’e-learning e di trovare nei più diversi angoli del mondo persone che mi dicevano cose tipo: “Grazie al Consorzio ICoN ho potuto prendere una laurea italiana, e se non ci foste stati voi non ci sarei mai riuscita”. A queste cose i maggiori quotidiani del pianeta non dedicano molto spazio. Ma ci sono, funzionano, e un po’ alla volta cambiano il mondo, in un modo che spero più intelligente e fruttuoso di tanti altri.
 

venerdì 13 dicembre 2013

In partenza per la Crusca

 
La sede dell'Accademia della Crusca (foto da Wikipedia)Oggi dovrei passare tutta la giornata a Firenze, all’Accademia della Crusca. La mattina ci sarà la presentazione degli atti del X convegno ASLI: Il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) e la storia della lessicografia italiana, a cura di Lorenzo Tomasin. Il pomeriggio sarà invece dedicato all’assemblea annuale dell’ASLI stessa.
 

martedì 10 dicembre 2013

Marazzini, Da Dante alle lingue del web

 
 
Marazzini, Da Dante alle lingue del Web
Il titolo dell’ultimo libro di Claudio Marazzini mi aveva dato molte speranze, per quanto riguarda i miei argomenti di ricerca: Da Dante alle lingue del Web. Otto secoli di dibattiti sull’italiano (Roma, Carocci, 2013, pp. 333, ISBN 978-88-430-6173-0, € 25).
 
La precisazione “Nuova edizione” in copertina fa peraltro capire che il libro è in sostanza un aggiornamento del già classico Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano (1999), aggiornato e rinumerato per il nuovo secolo. Libro in sé ottimo, ma da cui purtroppo il web resta fuori. O meglio, Marazzini avverte nella Premessa di aver voluto solo “usare il riferimento al Web per evocare la realtà più recente del villaggio globale nelle sue ricadute sulla coscienza linguistica italiana” (p. 12). In altri termini:
 
lingue del Web è (…) un riferimento alla realtà variegata dell’italiano di oggi, che corre attraverso blog, forum, chat, wiki, o è collocato sulle “piattaforme” di condivisione dei media come Flickr, YouTube, Vimeo, o espresso dai social network come Facebook, Myspace, Twitter, Google+, Linkedin, Foursquare. (…) il mio libro non offre però un’ennesima analisi del linguaggio di siti o luoghi o mezzi informatici, un linguaggio che del resto non risulta affatto omogeneo e non è poi così diverso da quello che si manifesta o manifesterà altrove, ad esempio sui giornali, nei salotti buoni della gente che se ne intende e nei talk-show televisivi (p. 12).
 
Peccato, perché io avrei letto con estremo interesse qualcosa del genere! Un inquadramento storico dell’italiano del web da parte di uno dei nostri massimi storici della lingua sarebbe stato un ottimo punto di riferimento… Ma d’altra parte mi fa piacere che due punti chiave del dibattito recente, cioè la non omogeneità del linguaggio della comunicazione elettronica e la sua sostanziale appartenenza a varietà di lingua già esistenti, vengano usati per sintetizzare lo stato delle conoscenze.
 
Occorre poi ricordare che il libro è dedicato alle discussioni sulla lingua, non alla descrizione della lingua stessa. E l’italiano del web ha prodotto ben poche discussioni articolate – al di fuori dello stretto giro dei linguisti, se ne è parlato poco e quasi solo a livello di proclami. L’aggiornamento più consistente in materia, spiega Marazzini, è venuto invece da un altro fronte: la pressione dell’inglese. Che per decenni si è concretizzata solo in una spolverata di prestiti linguistici, in pratica irrilevante su un piano complessivo, ma che proprio negli ultimi anni si è trovata al centro di un curiosissimo e mal diretto entusiasmo da parte della classe politica italiana. Di conseguenza, in questa nuova edizione del testo,
 
nello studioso emerge, a stento frenata, l’emotività del cittadino italiano che ama la propria lingua e la vede a volte sottostimata da altri italiani che occupano posti chiave nella società, e dovrebbero per primi amare e difendere gli emblemi e le glorie del nostro paese. Una classe dirigente acriticamente esterofila, con la mente perennemente rivolta oltre i confini e immemore di ogni tradizione nazionale che non attenga a slow-food e pizza (unico tema su cui si ammetta la legittimità di ragionare ancora all’italiana), ha sostituito una classe dirigente del passato tradizionalmente esterofoba, come si era rivelata nel lasso di tempo che va dal Purismo al fascismo. Da un provincialismo all’altro, insomma (pp. 11-12).
 
A livello di aneddoto, Marazzini cita poi le profezie sull’inglese e sul cinese contenute in un diffusissimo articolo di Giampaolo Visetti… che è un clamoroso esempio di plagio e di invenzione! L’aspetto serio (in quanto “preoccupante”, non in quanto “gestito da persone competenti”) della vicenda viene qui affrontato soprattutto nel cap. 22, Primo sguardo sul secondo millennio. Dove Marazzini dà per esempio conto delle proposte recenti, di varia origine, per sostituire l’italiano con l’inglese in vari punti del sistema formativo italiano, dall’università alla scuola. Gli storici della lingua hanno avuto a lungo l’abitudine di prendere proposte simili alla leggera, vista la loro ovvia inutilità e inapplicabilità. Adesso però, come in altri settori (per esempio l’uso degli strumenti elettronici nella didattica), anche sul destino dell’italiano si sta creando un senso comune che, oltre a essere scollegato dalla realtà, sembra trovare riscontro in politica… Io continuo a essere ottimista, ma forse è davvero arrivato il momento, per gli esperti di linguistica, di farsi avanti in pubblico per contrastare con energia le derive insensate.
 
Una nota per i conflitti d’interesse: a p. 324, l’ultimo paragrafo della bibliografia finale rinvia a proposito della comunicazione elettronica, al Parlar spedito di Elena Pistolesi e al mio libro sull’Italiano del web; mi ha però fatto piacere ritrovare elencato, in una sezione precedente, anche il mio lavoro su La prima stesura delle Prose della volgar lingua (p. 312).
 

venerdì 6 dicembre 2013

Passaggio da Perugia

 
 
Il Minimetrò di Perugia in funzione
Ieri sono stato all’Università per Stranieri di Perugia per un incontro con docenti di medie e superiori, ottimamente gestito da Sandra Covino. A dire il vero, a parlare avrebbe dovuto essere Elisa Bianchi: per motivi contingenti ho fatto da rimpiazzo io, e spero di essermela cavata bene nel mio ruolo di sostituto. Palazzo Gallenga, poi, per me è sempre un bel ricordo, perché è legato a un bel periodo di studio passato lì ai Corsi di Lingua italiana contemporanea di fine anni Ottanta (!).
 
Tema dell’incontro di ieri: testi espositivi e testi disciplinari. La conversazione, per fortuna, è stata molto vivace! Alla fine, in effetti, ho messo da parte quasi tutti i materiali che avevo preparato e siamo stati soprattutto a parlare di esperienze e difficoltà pratiche. Nella parte conclusiva poi abbiamo visto alcuni modi per usare Wikipedia in lingua italiana come strumento di didattica, in particolare per la scrittura di definizioni – esercizio che, anche se con le opportune differenze, può essere presentato agli studenti in tutto il percorso dalle medie all’università.
 
Peccato solo che il passaggio sia stato così rapido! Come ultimamente mi capita un po’ troppo di frequente, ho avuto solo la possibilità di arrivare, fermarmi per le tre ore dell’incontro e scappare via. Sono riuscito a parlare solo con Pawan e Rakesh, che avevo avuto a lezione a Delhi e che adesso sono a Perugia per un periodo di studio all’Università per Stranieri; e anche con loro sono riuscito a parlare solo perché mi hanno accompagnato, all’uscita, a prendere di corsa il Minimetrò.
 
Già, il Minimetrò. Un lato positivo del viaggio è stato scoprire il cosiddetto “people mover” di Perugia. Un terribile anglicismo per descrivere una funicolare veloce, dall’aspetto futuristico, che collega tra l’altro la stazione e il centro al prezzo di € 1,5 a tratta e che, avendo partenze ogni due minuti, taglia molto le percorrenze. Ai tempi miei, se ben ricordo, la tratta dalla stazione a Palazzo Gallenga richiedeva quasi un’ora. Con il Minimetrò sono arrivato al binario in meno di venticinque minuti. Un sistema simile è adesso in progettazione qui a Pisa: sono ancora un po’ scettico sulla sua funzionalità in pianura e in una zona già ben collegata, ma quella di Perugia è stata un’esperienza molto positiva.
 
Per il resto, una volta tanto le coincidenze di Trenitalia hanno funzionato perfettamente, e il viaggio in sé, in buona parte su regionali, è stato a sua volta un gradito ritorno agli economici mezzi di trasporto che preferisco. Molto meglio dell’Alta velocità! Particolare nota di merito va al bar della stazione di Perugia, che, in un contesto d’annata, fornisce due tranci di discreta pizza, una Peroni piccola alla spina e un caffè al prezzo complessivo di € 5; e mi spiace solo, al ritorno, di essermi scordato di prendere una china calda alla stazione di Terontola…
 

mercoledì 4 dicembre 2013

Test PISA 2012: è andata un po’ meglio

 
 
Ieri sono stati presentati i rapporti INVALSI sugli ultimi test PISA, condotti nel 2012. Di che cosa siano i test PISA ho già parlato in passato: in estrema sintesi, si tratta del più credibile tentativo oggi esistente per misurare e confrontare le competenze dei quindicenni in diversi paesi del mondo. I settori in cui le competenze sono misurate sono Lettura, Matematica e Scienze.
 
La posizione dell’Italia in questi test è sempre la solita: leggermente al di sotto della media OCSE. Tradotto in numeri, il “leggermente” significa quest’anno, secondo le parole della sintesi realizzata dall’INVALSI (p. 1):
 
Le competenze dei 15-enni italiani in Matematica si situano leggermente, ma significativamente, al di sotto della media OCSE (circa il 2 per cento, 485 punti a fronte dei 494 della media OCSE). Fra i paesi OCSE, ottengono un punteggio inferiore all’Italia solo Svezia, Ungheria, Israele, Grecia, Cile e Messico; sono equiparabili all’Italia (avendo valori che non se ne discostano in termini statisticamente significativi) Norvegia, Portogallo, Spagna, Repubblica Slovacca e Stati Uniti.
 
Solo leggermente migliori sono i risultati in Lettura e Scienze, con valori dell’Italia rispettivamente di 490 e 494 (a fronte di valori medi OCSE rispettivamente pari a 496 e 499). Fra i paesi OCSE, ottengono un punteggio inferiore all’Italia solo Cile, Grecia, Islanda e Messico, per la Lettura, vi si aggiunge Israele nelle Scienze; sono statisticamente equiparabili all’Italia, Danimarca, Repubblica Ceca, Ungheria, Lussemburgo e Israele - nella Lettura - Danimarca, Francia, Ungheria, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Spagna e Stati Uniti - nelle Scienze.
 
In altri termini: sotto alla media, ma di pochissimo, e in discreta compagnia. I paesi OCSE hanno del resto un livello quasi uniforme, con un’oscillazione massima del 10% in alto o in basso. Il che ha del sorprendente se si considerano le diversità sociali, di reddito e di sistema scolastico che intercorrono tra paesi come la Repubblica slovacca, il Giappone e la Spagna! In Matematica, per esempio, data una media OCSE di 500 nel 2000, il risultato migliore è oggi quello della Corea del Sud, che arriva solo a 553, mentre sotto il 450 si collocano solo i tre paesi OCSE che hanno un livello di PIL “medio-alto”, invece di “alto” come tutti gli altri, cioè Turchia, Cile e Messico. Tuttavia, che l’Italia si collochi in tutte e tre le aree al di sotto della media OCSE non può essere motivo di grandi festeggiamenti.
 
Le cose vanno un po’ meglio in prospettiva storica. Concentrandosi sull’area che mi riguarda più direttamente, e cioè la Lettura – o meglio, la literacy –, la media OCSE, che era 500 nel 2000 ed era calata a 493 nel 2009 (con buona pace di tutte le considerazioni sui “nativi digitali”), nel 2012 è risalita a 494. Differenze comunque minime! Anche per l’Italia le cose sono nel frattempo migliorate, e da 486 nel 2009 si sale a 490 nel 2012 (lo stesso punteggio ottenuto dall’Austria, che pochi, penso, caratterizzerebbero come un paese depresso o incolto). Lo scarto si riduce insomma in tre anni da 7 a 4 punti.
 
Certo, tutti i dati di questo tipo vanno presi con le pinze, e festeggiare o disperarsi per fluttuazioni statisticamente non significative ha poco senso in ogni caso. Quel che ne esce è comunque una serie di conferme a livello generale: i paesi ad alto PIL ottengono risultati molto simili, ma non c’è un rapporto diretto tra soldi spesi e risultati formativi (tant’è vero che paesi come il Vietnam ottengono buoni piazzamenti) e c’è comunque un margine di miglioramento. Soprattutto, però, viene confermato per l’ennesima volta un dato inquietante per l’Italia: a fronte di regioni che per la Lettura arrivano a 521 (Lombardia, Veneto e provincia di Trento), il Sud fa registrare percentuali drammatiche, fino all’incredibile 434 della Calabria. Che, se fosse un paese OCSE, si collocherebbe in penultima posizione, superando solo il Messico (424) e piazzandosi al di sotto degli altri due paesi a PIL solo “medio-alto”, cioè il Cile (441) e la Turchia (475).
 

lunedì 2 dicembre 2013

La codifica dei fumetti italiani

 
Dall'articolo di Walsh: Kirby come esempio di cbml:panel, eccetera
Giovedì scorso ha ottenuto la laurea magistrale in Informatica umanistica uno dei miei studenti, Salvatore Figuccia. La sua tesi (correlatore Roberto Rosselli Del Turco, controrelatore Alessandro Lenci) era intitolata Codifica CBML-TEI di fumetti italiani e analisi linguistica.
 
Come mai un argomento del genere? Beh, io sto studiando da molto tempo l’italiano dei fumetti. Argomento importante per la storia linguistica del Novecento ma quasi del tutto privo di studi sistematici: l’unica monografia oggi esistente è Parola di papero di Daniela Pietrini, dedicata però ai soli fumetti Disney. Certo, io ho pubblicato, negli anni, diversi interventi sull’italiano dei fumetti, ma tutti su argomenti molto circoscritti. Avendo tempo, sarebbe arrivato il momento di tirare le fila e sintetizzare…
 
Questo però significa avere alle spalle ampi spogli linguistici. Il che a sua volta richiede l’esistenza di corpus di fumetti in cui il testo sia stato trascritto e digitalizzato, in modo da poter fare analisi automatiche. E, a sua volta, ciò richiede uno standard di codifica intelligente, che contenga tutti gli elementi utili a un’analisi linguistica. Le caratteristiche editoriali dei fumetti rendono tuttavia questo tipo di lavoro tutt’altro che banale.
 
Facciamo un esempio pratico: il linguaggio dei diversi personaggi. In molti fumetti alcuni tipi di espressione sono collegati a un unico personaggio – nei fumetti Disney, solo Pippo fa yuk, yuk – oppure sono distribuiti tra personaggi in modo marcato e ripetuto. Quindi un’analisi, mettiamo, delle Sturmtruppen di Bonvi deve distinguere per esempio tra il finto tedesco delle Sturmtruppen e l’italiano non alterato di Galeazzo Musolesi, e così via. Per arrivare a questo risultato, però, si deve usare un sistema di trascrizione che non solo distingua tra i diversi personaggi ma consenta poi, accoppiato agli opportuni strumenti elettronici, di limitare per esempio i risultati di uno spoglio linguistico a uno specifico personaggio, o di escludere il personaggio medesimo da uno spoglio generale, e così via.
 
La maggiore iniziativa mondiale nella codifica di testi umanistici è la TEI (Text Encoding Initiative). La TEI pubblica importanti linee guida e ha previsto la codifica di molti tipi diversi di testo, dalle opere teatrali alle edizioni critiche, ma non ha mai fornito standard per i fumetti. Questa lacuna è stata di recente colmata in buona parte dalla proposta di John A. Walsh (Università dell’Indiana), che ha proposto il vocabolario CBML. In pratica, CBML è un sistema che da un lato indica come usare per la codifica dei fumetti i classici elementi TEI e dall’altro aggiunge a essi “a number of elements targeted at the distinctive formal features of comics, such as panels, balloons, and narrative captions”. La proposta è stata articolata da Walsh anche in un articolo del Digital Humanities Quarterly intitolato Comic Book Markup Language: An Introduction and Rationale, che aggiunge molte informazioni interessanti e casi d’uso.
 
Tutto bene, quindi? Sì e no. Nel senso che Walsh ha lavorato per la codifica dei “comic book” americani, cioè di prodotti editoriali di un certo tipo, e la codifica dei fumetti italiani richiede un po’ di aggiustamenti da questo punto di vista. Per esempio, i “comic book” americani contengono tipicamente una storia singola; molte riviste a fumetti italiane invece contengono più storie, di autori differenti (come nel caso di Topolino), e occorre quindi trovare un modo per raggruppare i diversi materali. E così via.
 
Di qui l’importanza della tesi di Salvatore Figuccia, che ha preso come punto di partenza il lavoro di Walsh e ha controllato la sua applicabilità anche ai fumetti italiani. Come avevano già suggerito esperimenti più limitati condotti in alcuni elaborati di laurea triennale, l’esperimento ha confermato che per trascrivere i fumetti italiani più popolari non è necessario aggiungere nuovi elementi alla proposta di Walsh – il che faciliterà l’interscambio di dati. Occorre avere invece dei criteri di trascrizione molto dettagliati, per mantenere coerenza tra prodotti che seguono standard piuttosto diversi. La tesi ha quindi incluso una prima bozza di criteri e, come dimostrazione, la trascrizione completa di un fascicolo di Topolino e di due prodotti bonelliani (un numero di Tex e uno di Dylan Dog), oltre a un primo assaggio di analisi linguistica sulle interiezioni. Nel complesso, si tratta di un importante passo avanti nella direzione del lavoro complessivo di cui parlavo all’inizio.
 
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