Il titolo dell’ultimo libro di Claudio Marazzini mi aveva dato molte speranze, per quanto riguarda i miei argomenti di ricerca: Da Dante alle lingue del Web. Otto secoli di dibattiti sull’italiano (Roma, Carocci, 2013, pp. 333, ISBN 978-88-430-6173-0, € 25).
La precisazione “Nuova edizione” in copertina fa peraltro capire che il libro è in sostanza un aggiornamento del già classico Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano (1999), aggiornato e rinumerato per il nuovo secolo. Libro in sé ottimo, ma da cui purtroppo il web resta fuori. O meglio, Marazzini avverte nella Premessa di aver voluto solo “usare il riferimento al Web per evocare la realtà più recente del villaggio globale nelle sue ricadute sulla coscienza linguistica italiana” (p. 12). In altri termini:
lingue del Web è (…) un riferimento alla realtà variegata dell’italiano di oggi, che corre attraverso blog, forum, chat, wiki, o è collocato sulle “piattaforme” di condivisione dei media come Flickr, YouTube, Vimeo, o espresso dai social network come Facebook, Myspace, Twitter, Google+, Linkedin, Foursquare. (…) il mio libro non offre però un’ennesima analisi del linguaggio di siti o luoghi o mezzi informatici, un linguaggio che del resto non risulta affatto omogeneo e non è poi così diverso da quello che si manifesta o manifesterà altrove, ad esempio sui giornali, nei salotti buoni della gente che se ne intende e nei talk-show televisivi (p. 12).
Peccato, perché io avrei letto con estremo interesse qualcosa del genere! Un inquadramento storico dell’italiano del web da parte di uno dei nostri massimi storici della lingua sarebbe stato un ottimo punto di riferimento… Ma d’altra parte mi fa piacere che due punti chiave del dibattito recente, cioè la non omogeneità del linguaggio della comunicazione elettronica e la sua sostanziale appartenenza a varietà di lingua già esistenti, vengano usati per sintetizzare lo stato delle conoscenze.
Occorre poi ricordare che il libro è dedicato alle discussioni sulla lingua, non alla descrizione della lingua stessa. E l’italiano del web ha prodotto ben poche discussioni articolate – al di fuori dello stretto giro dei linguisti, se ne è parlato poco e quasi solo a livello di proclami. L’aggiornamento più consistente in materia, spiega Marazzini, è venuto invece da un altro fronte: la pressione dell’inglese. Che per decenni si è concretizzata solo in una spolverata di prestiti linguistici, in pratica irrilevante su un piano complessivo, ma che proprio negli ultimi anni si è trovata al centro di un curiosissimo e mal diretto entusiasmo da parte della classe politica italiana. Di conseguenza, in questa nuova edizione del testo,
nello studioso emerge, a stento frenata, l’emotività del cittadino italiano che ama la propria lingua e la vede a volte sottostimata da altri italiani che occupano posti chiave nella società, e dovrebbero per primi amare e difendere gli emblemi e le glorie del nostro paese. Una classe dirigente acriticamente esterofila, con la mente perennemente rivolta oltre i confini e immemore di ogni tradizione nazionale che non attenga a slow-food e pizza (unico tema su cui si ammetta la legittimità di ragionare ancora all’italiana), ha sostituito una classe dirigente del passato tradizionalmente esterofoba, come si era rivelata nel lasso di tempo che va dal Purismo al fascismo. Da un provincialismo all’altro, insomma (pp. 11-12).
A livello di aneddoto, Marazzini cita poi le profezie sull’inglese e sul cinese contenute in un diffusissimo articolo di Giampaolo Visetti… che è un clamoroso esempio di plagio e di invenzione! L’aspetto serio (in quanto “preoccupante”, non in quanto “gestito da persone competenti”) della vicenda viene qui affrontato soprattutto nel cap. 22, Primo sguardo sul secondo millennio. Dove Marazzini dà per esempio conto delle proposte recenti, di varia origine, per sostituire l’italiano con l’inglese in vari punti del sistema formativo italiano, dall’università alla scuola. Gli storici della lingua hanno avuto a lungo l’abitudine di prendere proposte simili alla leggera, vista la loro ovvia inutilità e inapplicabilità. Adesso però, come in altri settori (per esempio l’uso degli strumenti elettronici nella didattica), anche sul destino dell’italiano si sta creando un senso comune che, oltre a essere scollegato dalla realtà, sembra trovare riscontro in politica… Io continuo a essere ottimista, ma forse è davvero arrivato il momento, per gli esperti di linguistica, di farsi avanti in pubblico per contrastare con energia le derive insensate.
Una nota per i conflitti d’interesse: a p. 324, l’ultimo paragrafo della bibliografia finale rinvia a proposito della comunicazione elettronica, al Parlar spedito di Elena Pistolesi e al mio libro sull’Italiano del web; mi ha però fatto piacere ritrovare elencato, in una sezione precedente, anche il mio lavoro su La prima stesura delle Prose della volgar lingua (p. 312).
2 commenti:
L'introduzione dell'inglese come lingua obbligatoria di almeno qualche corso universitario sarebbe così negativa?
Ciao, Marco!
No, l'inglese come lingua obbligatoria per qualche corso non sarebbe affatto una cosa irragionevole... tant'è vero che viene già fatta in diversi casi.
Irragionevole però è stata per esempio, a parer mio, la proposta dell'ANVUR in base alla quale, a parità di tutto il resto, i contributi scientifici italiani dovevano essere valutati dal sistema universitario nazionale come se valessero tre volte di meno rispetto a quelli scritti in qualunque altra lingua:
http://linguaggiodelweb.blogspot.it/2011/11/italiano-che-vale-un-terzo.html
Oppure ugualmente irragionevoli sono, a un altro livello, le richieste, citate da Marazzini, di compilare in inglese i moduli rivolti a enti locali piemontesi per svolgere attività culturali in Piemonte, e così via...
Insomma, per la prima volta si nota una diffusa spinta politica a diffondere (velleitariamente e verticisticamente) l'inglese in diversi rami di attività, a discapito dell'italiano. E questo, sì, anch'io lo vedo come un fatto negativo.
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