L’italiano nascosto di Enrico Testa è un libro importante. Mostra infatti in modo convincente come, per alcuni aspetti (non per tutti!), gli storici della lingua siano stati troppo pessimisti nel valutare la diffusione dell’italiano in età moderna.
Questo pessimismo è stato una costante negli studi di storia della lingua italiana del Novecento. Secondo una famosa stima di Tullio De Mauro, per esempio, così come viene presentata nella seconda edizione (Bari Laterza, 1970) della sua Storia linguistica dell’Italia unita, nel 1861 solo il 2,5% degli abitanti del neonato Regno d’Italia era in grado di parlare italiano. Punto di partenza del ragionamento erano i dati per cui “Nel 1862-63 la istruzione postelementare”, considerata già all’epoca necessaria per arrivare a un pieno possesso della lingua, “veniva impartita all’8,9 per mille della popolazione in età fra gli 11 e 18 anni” (p. 42). Da qui, De Mauro arrivava alla percentuale definitiva valutando che in Toscana e a Roma la vicinanza del dialetto alla lingua fosse tale da rendere sufficienti due anni di scuola per arrivare al possesso della lingua, e aumentando quindi i numeri sulla base degli italiani che, nelle aree indicate, raggiungevano questo livello di scolarizzazione.
Anche posizioni critiche successive come quella di Arrigo Castellani (arrivato a stimare una percentuale di italofoni pari al 10%) non hanno modificato molto il risultato di base. Che corrisponde senz’altro a una situazione reale, ma che al tempo stesso è un po’ difficile da raccordare a capacità linguistiche specifiche: a che cosa corrisponde, esattamente, la soglia di “effettiva e definitiva acquisizione” di cui parla De Mauro (p. 42)? Per avere qualche dettaglio in più occorre affidarsi al giudizio dei testimoni dell’epoca, spesso probabilmente non immune da esagerazioni.
Il problema della soglia se ne porta dietro un altro, perché la tentazione è stata spesso quella di vedere l’acquisizione dell’italiano come una specie di discrimine, in modo a volte poco verosimile dal punto di vista linguistico. L’italiano di metà Ottocento, e per estensione quello dei secoli precedenti, è stato spesso considerato come una lingua da un lato del tutto ignota al 97,5% della popolazione, dall’altro buona solo per la letteratura. Come ricorda Testa (p. 13), De Mauro arrivava a dire che:
Fuori di Roma e fuori della Toscana, al sistema linguistico italiano si faceva ricorso solo negli scritti e solo nelle occasioni più solenni (…) Per secoli, la lingua italiana (…) ha vissuto soltanto o quasi come lingua di dotti (citato dalla p. 27 della Storia linguistica dell’Italia unita).
L’italiano nascosto mostra che una posizione del genere è troppo estrema. Molti lavori recenti hanno infatti portato alla luce testimonianze di come l’italiano fosse in realtà piuttosto diffuso in tutta Italia in contesti del tutto estranei alla letteratura: nei tribunali, nella Chiesa, nella vita quotidiana. Mettendo a frutto queste ricerche, e basandosi quasi per intero su edizioni esistenti, nel primo capitolo del libro (Le scritture dei semicolti) Testa presenta in ordine cronologico una nutrita serie di esempi di testi “italiani” attribuibili a personaggi di non alto livello culturale. Spesso, beninteso, si tratta di testi linguisticamente molto lontani dallo standard, ma comunque giudicabili “italiani con qualche tratto dialettale”, e non “dialettali con qualche tratto di italiano”.
Per avere un’idea della varietà dei testi presentati e sinteticamente commentati nel libro, vale forse la pena fare l’elenco dei documenti da cui sono tratte le citazioni lunghe del primo capitolo (estese su più di una frase). Inserisco qui una descrizione dei documenti, chiusa dalla data di stesura e dal numero della pagina in cui inizia la citazione. Indico anche il luogo di origine degli autori, includendo la sigla della provincia attuale in cui si colloca, e il luogo di scrittura, nel caso si trovi in una provincia diversa; in diversi casi ho integrato dati non forniti nel testo.
- Confessione autografa di Bellezze Ursini da Collevecchio (RI), domestica e guaritrice: 1527 o 1528 (p. 24).
- Trascrizione del testo precedente, effettuata in contemporanea e negli stessi luoghi da Luca Antonio, notaio (p. 28)
- Lettera di Baldassarre da Orvieto (TR) al servizio di casa Orsini: scritta da Monterotondo (RM), 1539 (p. 31)
- Diario di Giorgio Franchi, parroco di Berceto (PR): 1551 e 1552 (p. 36)
- Lettera di Domenico Scandella detto Menocchio, mugnaio di Montereale (PN), ai suoi giudici: 1584 (p. 42)
- Deposizione di Anna Parolini da Plano (TN) a un processo per stregoneria: 1612-1614 (p. 49)
- Supplica al papa da parte degli abitanti del rione Campitelli di Roma (RM): 1610 (p. 55)
- Supplica al papa da parte del caporione e degli abitanti del rione Monti di Roma (RM): 1664 (p. 55)
- Ricorso anonimo, presentato a Roma (RM): 1685 (p. 55)
- Ricevuta scritta da Maddalena Morelli per conto di Giuseppe Morelli, fabbricante di sedie a Roma (RM): 1689 (p. 57)
- Cartello diffamatorio lasciato a Roma (RM): 1621 (p. 59)
- Diario o cronaca di Francesco Fongi, fabbro ferraio ad Alessandria (AL): 1690-1693 e 1696 (p. 61)
- Memoria difensiva di Giovanni Garbino, pescivendolo all’ingrosso a Genova (GE): 1747 (p. 68)
- Lettera di Francesco Elia da Asti (AT), servitore di Vittorio Alfieri, al conte di Cumiana: 1770, scritta da Pietroburgo (p. 74)
- Lettera di Antonino Fusco, amministratore di terre a Lentini (SR), al principe di Biscari: 1797 (p. 79)
- Cartello del brigante Carmine Crocco di Rionero in Vulture (PZ), esposto a Calvello: 1861 (p. 86)
- Lettera di ricatto del brigante Pasquale Cavalcante di Corleto Perticara (PZ) scritta a Calvello: 1862 (p. 87)
- Lettera di ricatto del brigante Gioacchino Longo (CZ?) scritta nella Sila (CZ?): 1865 circa (p. 88)
- Rapporto del generale Giuseppe Sirtori di Monticello Brianza (LC) scritto probabilmente ad Acri (CS): 1863 (p. 89)
- Lettera del tenente Pasquale Alamprese (PZ?) inviata da Ginestra (PZ) al giudice del Circondario di Barile: 1861 (p. 90)
- Lettera del mezzadro Domenico Mezzano (CN?) inviata da Cortemilia (CN) a Giuseppina Viola: 1859 (p. 94)
- Lettera del mezzadro Domenico Mezzano (CN?) inviata da Cortemilia (CN) a Giuseppina Viola: 1860 (p. 96)
- Lettera di Antonio D. di Rovigo (RO) alla famiglia, scritta nel manicomio di Genova (GE): 1916
Va detto subito che questa campionatura non esaurisce affatto i testi messi in luce negli ultimi anni, e che a loro volta le ricerche recenti non sono state affatto condotte in modo rappresentativo: ciò che è stato pubblicato e discusso rimane un campione casuale. Tuttavia, vale la pena notare che alcune caratteristiche della campionatura sembrano rappresentative. Per esempio, fino alle soglie dell’Unità non è affatto facile trovare testi “italiani” che provengano dal mondo contadino (e la popolazione italiana era, in assoluta maggioranza, parte di questo mondo), o dalle regioni meridionali. E il fatto che la documentazione seicentesca provenga quasi per intero da Roma si accorda con la tanto nota e precoce quanto eccezionale italofonia di quella specifica città, descritta in dettaglio da De Mauro per il periodo successivo.
Da un’analisi di questo tipo non può venir fuori la contestazione quantitativa delle stime di De Mauro, come Testa stesso riconosce. Il lavoro mostra però, con evidenza maggiore rispetto a ogni altra trattazione recente, due cose: che l’uso pratico della lingua esisteva; e che anche chi non riusciva a scrivere in modo del tutto aderente agli standard poteva comunque avere come punto di riferimento “un italiano comune, anche d’uso orale, unificato, al suo fondo, dalla persistenza di tratti nettamente condivisi” (p. 273). Un po’ meno interessanti a questo fine, al confronto, sono i tre capitoli successivi, dedicati a mostrare rispettivamente i Libri per leggere e libri per imparare rivolti a questo tipo di pubblico, le scritture meno sorvegliate che si trovano Nel retroscena dei letterati e, infine, Un volgare per la fede (cioè la produzione connessa alla chiesa cattolica, che in alcuni casi è anche opera di “semicolti” come quelli visti nel primo capitolo). In tutti questi casi, infatti, anche se compaiono ogni tanto esempi di lingua dei “semicolti” il grosso delle testimonianze proviene da letterati più tradizionali – dei quali nessuno ha mai messo in dubbio la capacità di scrivere in italiano, anche se a volte in modo volutamente semplificato e adattato ai destinatari.
Testa parla poi di un italiano dei “semicolti” che “si muove in un perimetro tracciato da forme relativamente unitarie” (p. 276). E in effetti, alcuni tratti di queste testimonianze, come l’uso di forme burocratiche, sorprendono per la loro costanza. Ma di sicuro occorrono descrizioni molto più estese e dettagliate prima che sia possibile indicare con una certa sicurezza le forme e le circostanze in cui il modello italiano riusciva a penetrare più a fondo e a sostituire più regolarmente il dialetto. Per esempio, quelli che Testa segnala come i tratti per cui i testi esaminati si allontanano maggiormente dall’italiano a livello fonologico sono anche in buona parte i tratti che oppongono molti dialetti d’Italia al toscano, e cioè:
il basso ricorso alla dittongazione; la tendenziale assenza dell’anafonesi toscana; la conservazione di ar protonico; la preposizione articolata dil e l’articolo plurale maschile li per ‘i’; le desinenze verbali della I pers. plur. dell’indicativo presente del tipo -amo, -emo; esiti anomali soprattutto nell’indicativo imperfetto e nel congiuntivo; il condizionale in -ia; e varie forme analogiche del verbo (p. 279).
Più interessante, nella mia ottica, è il fatto che una testimonianza indipendente della vitalità “pratica” della lingua arrivi da una fonte indipendente, e cioè da L’italiano d’oltremare, titolo del (breve) quinto capitolo del libro. La vitalità della lingua italiana all’estero è stata infatti notata, ma non valorizzata quanto sarebbe necessario – per il bacino del Mediterraneo e oltre, e dagli usi di alta diplomazia in giù. Non è insomma un caso, ma solo uno dei tanti esempi possibili, se a metà Seicento il pascià di Alessandria d’Egitto inviava al Granduca di Toscana lettere di questo tipo:
E però la prego quanto pregare la posso che non mi manche di consolarme con suoi lettere da me tante desiderate, perché altro non desidero che li suoi comandamente in quel che mi trova buono in questi parte: sempre sarò prontissimo in ogne suoi hoccasione. Non stendendome in altro mi resto con pregare Idio che li dia felicissime anne et a me dia gratia per servirla. Di Alessandria sotto li 4 aprile 1640 (citata a p. 267).
Dietro a queste lettere c’erano traduttori e mediatori professionisti, ma anche abitudini di comunicazione ben precise – al punto che nei territori ottomani e in generale in Medio oriente, fino alla Persia, l’italiano era usato non solo per comunicare con gli italiani, ma anche con gli altri europei (come nella lettera del dey di Tunisi ai governatori e consoli di Marsiglia citata a p. 270) e addirittura “tra occidentali di paesi diversi” (p. 269). Questa è una ricerca comunque ancora in buona parte da fare… e qualche piccolo contributo spero di poterlo mostrare anch’io durante il mio corso di Linguistica italiana II di quest’anno.
Enrico Testa, L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale, Torino, Einaudi, 2014, pp. VIII + 321, € 20, ISBN 978-88-06-21165-3; letto nella copia della Biblioteca LM1 dell’Università di Pisa.
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