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martedì 17 aprile 2012

Rose, The mind at work

 
Forse (forse) in questo periodo riuscirò a gestire meglio la didattica, essendo terminato uno dei corsi che stavo seguendo (online). Negli ultimi giorni ho iniziato a recuperare l’arretrato della posta, e provo quindi a riprendere anche l’aggiornamento del blog, partendo da uno dei libri che ho letto di recente: The mind at work: valuing the intelligence of the American worker di Mike Rose (Penguin, 2005; l’ho letto nella versione Kindle, € 8,69, ASIN B0031TZ9E4, mentre l’ISBN del tascabile corrispondente è 978-0143035572). Da qualche mese ho inserito il blog di Rose nella barra qui a sinistra, e seguo sempre con interesse le osservazioni dell’autore sul rapporto tra scrittura e mondo del lavoro. Mi aspettavo quindi molto da questo libro e, in generale, le aspettative sono state soddisfatte.
 

Il libro ha uno scopo dichiarato: offrire “an analysis of physical work and intelligence and a reflection on how we might think more clearly and fairly about them” (loc. 186). In particolare, Rose nota che oggi spesso si elogia il lavoratore “fisico” ma non si riconosce un valore cognitivo alla sua attività. Viceversa, il libro mostra ciò che tutti sanno ma fanno finta di non sapere: che anche le attività manuali richiedono un bel po’ di sforzo intellettuale, e alcune ne richiedono molto. Con ogni evidenza, fare l’idraulico o l’elettricista richiede un impegno non solo fisico, ma anche cognitivo, superiore a quello necessario per molti lavori da ufficio.
 

A prima vista, il discorso di Rose sembrerebbe molto simile a quello delle tante persone che non svolgono attività manuali ma ne cantano le lodi. Per esempio, nel terribile Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola – di cui ho già parlato – si trova il continuo elogio dell’artigiano, l’invito a (far) lavorare con le mani piuttosto che a (far) svolgere studi sgraditi. Però tutto con l’ottica che le due cose siano diverse, e che la “knowledge-school” sia quella “dello studio astratto, della speculazione teoretica”, del tutto diversa dalla “work-school”, “la scuola del lavoro pratico, manuale, artigianale o tecnico-operativo” (p. 244).
 

Naturalmente, non è così: ha ragione Rose, non Mastrocola, e il confine più significativo non è quello tra attività pratiche e attività astratte, ma quello tra uso o non uso dell’intelligenza. Così come ci sono camerieri incapaci, esistono studiosi astratti e speculatori teoretici incapaci, vergognosamente non all’altezza di quel che fanno... ed è ovvio, credo, che molti lavori manuali sono preferibili a quello del venditore di fumo non solo perché danno più soldi o perché danno più soddisfazione, ma perché sono cognitivamente più complessi. Nelle parole di Rose,
 

the traditional, and weighty, separations between “pure” and “applied” knowledge, between “skill” and “concept”, between “theoretical” and “practical” tend to neatly segment a more elaborate reality (loc. 3130).
 

Nel suo libro, Rose dedica quindi diversi capitoli a descrivere la complessità cognitiva di diverse attività pratiche: dal mestiere della parrucchiera a quello del saldatore, e dalla cameriera all’elettricista. Ogni tanto la disamina è un po’ troppo enfatica e/o ripetitiva, ma non credo ci siano dubbi sulla solidità del discorso centrale – il fatto che per diventare anche solo bravi a servire in tavola occorre più cervello di quello che spesso la società è disposta a riconoscere. Simpatizzo con questa visione, anche perché a livello di aneddoto mi sembra evidente il modo in cui le diverse culture sono capaci di affrontare anche il più banale dei lavori: il barista italiano medio, a occhio, fa un lavoro pari a quello di cinque baristi tedeschi, e il cameriere italiano medio fa un lavoro pari a quello di cinque camerieri indiani... E mi chiedo se qualcuno abbia fatto studi più scientifici sulla diversa produttività in questi settori.
 

The mind at work non si esaurisce poi in un discorso generale sulle capacità cognitive. Rose insiste molto sul fatto che esistono comunque differenze e che non è vero “that surgery is parallel to carpentry or plumbing or styling hair” (loc. 2582). Soprattutto, però, sa bene che il lavoro manuale è spesso associato non solo alla fatica fisica, ma anche e soprattutto a paghe basse, condizioni di lavoro precarie, violenza e scarsa sicurezza (e come minimo, occorre tenere presente che “on average, the surgeon will earn at least five times the income of the carpenter”: loc. 2758). Il libro non è infatti un manifesto urlante: è una riflessione piena di sfumature, distinzioni intelligenti e proposte interessanti.
 

Dal mio punto di vista, trovo particolarmente interessante poi la ricostruzione storica del cap. 8: Hand and brain in school: the paradox of vocational education. Ripercorrendo criticamente oltre un secolo di sforzi americani per avere un insegnamento di buon livello, Rose fa vedere le difficoltà e le distorsioni in cui si sono impantanati molti tentativi di riforma – portando spesso a una formazione professionalizzante in cui, secondo le parole di un rapporto, si arriva alla “almost complete exclusion of theoretical content” (cosa che farebbe contenta Paola Mastrocola) ottenendo quindi come risultato che “the intellectual development of vocational students tended to be limited at a relatively early age” (loc. 2902). Con l’effetto paradossale di produrre un’educazione al lavoro, che, sorpresa, spesso “was not doing a very good job of preparing students for industry” (loc. 2969).

Ovviamente, non è facile risolvere i problemi. Tuttavia mi sembra indispensabile cercare di vedere le cose così come stanno: la conoscenza “astratta” non è un simpatico di più riservato alle élite, ma è una parte integrante di qualunque formazione, anche se in un contesto didattico deve essere inserita in modo adeguato alle circostanze.
 
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