giovedì 21 febbraio 2019

Gordin, Scientific Babel

  
 
Copertina di Michael D. Gordin, Scientific Babel
Del rapporto tra lingue e scienza si parla molto, com’è giusto che sia. Per l’italiano spicca in particolare l’impegno dell’Accademia della Crusca, con una serie di contributi che include, per esempio, gli atti della tavola rotonda Quali lingue per linsegnamento universitario?, pubblicati da Laterza nel 2013 con il titolo Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino.
 
Tuttavia, il pubblico non specialista non sempre ha presente il contesto, inteso in senso sia storico (= cosa succedeva davvero nel passato, anche recente), sia geografico (= cosa succedeva o succede altrove). Il bellissimo libro di Michael Gordin sulla Scientific Babel fornisce appunto una contestualizzazione molto utile. Il periodo coperto è soprattutto quello che va da metà Ottocento a fine Novecento, e il settore preso in esame più da vicino è la chimica; molte delle considerazioni fatte possono però essere estese a molti altri casi.
 
Dal punto di vista generale, i rapporti tra le lingue usate nella comunità scientifica sono perfettamente sintetizzati da questa presentazione grafica del numero di pubblicazioni riconducibile a ogni lingua (p. 5):
 
Grafico sul numero di pubblicazioni scientifiche per lingue, da Gordin 2015

Gordin esplicita bene le implicazioni di questi dati:
 
The most obvious and startling aspect of this graph is the dramatic rise of English beginning from a low point at 1910. The situation is actually even more dramatic than it appears from this graph, for these are percentages of scientific publication—slices of a pie, if you will—and that pie is not static. On the contrary, scientific publication exploded across this period, which means that even in the period from 1940 to 1970 when English seems mostly flat, it is actually a constant percentage of an exponentially growing baseline (pp. 6-7).
 
Tuttavia, all’interno della storia principale ne sono evidentemente contenute altre due. Una è correlata a “another prominent feature of the midpoint of the graph (1935–1965): the dramatic growth of scientific Russian” (p. 7). L’altra è quella, definita “centrale” per il periodo 1910-1945, che vede “prominent rise and decline of German as a scientific language” (ibidem). Il tutto tenendo ben presente che, come avviene in altre aree, “the story of scientific language correlates with, but does not slavishly follow, the trajectory of globalization. Knowledge and power are bedfellows; they are not twins” (ibidem).
 
Questo è il quadro generale, ben noto nelle sue linee di base perfino ai non specialisti – anche se per esempio, per me sono stati una novità molti aspetti del ruolo del russo, che ovviamente possono essere compresa per bene solo da chi, come Gordin, conosce la lingua. Però a volte anche nella ricerca storica basta dire esplicitamente ciò che si sa inconsciamente per illuminare il tutto con una luce nuova. Una delle osservazioni introduttive fatte nel testo è che
 
taking languages that register a statistically significant proportion of the world production in something we might now call science, we find (in alphabetical order): Arabic, Chinese (classical), Danish, Dutch, English, French, German, Greek (ancient), Italian, Japanese, Latin, Persian, Russian, Sanskrit, Swedish, Syriac, and Turkish (Ottoman) (p. 4).
 
In totale si tratta solo di diciassette lingue, e Gordin nota giustamente che “There is no other sphere of human cultural activity – trade, poetry, politics, what have you – that takes place in such a limited set of tongues” (ibidem). Il lettore italiano potrà notare con interesse che per esempio sono rimasti fuori dalla lista spagnolo, portoghese e rumeno, nonostante l’enorme diffusione di alcune di queste lingue. Ma soprattutto, se l’elenco colpisce da un lato per la sua selettività, dall’altro, specularmente, colpisce anche per la difficoltà da parte di un normale lettore nel gestirlo tutto. In tutta la storia del mondo, gli individui capaci di leggere contemporaneamente in modo fluente il russo, il cinese e l’olandese sono stati pochissimi.
 
Com’è stato quindi affrontato il problema della diversità delle lingue? Uno dei modi preferiti era anche il più semplice: gli scienziati potevano imparare tutte le lingue necessarie. Cosa fattibile con ragionevolezza nel periodo tra fine Ottocento e inizio Novecento, in cui si può parlare di un “triumvirato” di lingue composto da inglese, francese e tedesco, con l’italiano e il russo in una posizione secondaria. Questo sistema però non permetteva di gestire fenomeni come, appunto, la rapida ascesa del russo dopo la Seconda guerra mondiale.
 
Uno dei modi alternativi per affrontare la Babele scientifica è stato l’uso di lingue artificiali. Oggi questa sembra una possibilità irrealistica, ma Gordin mostra in modo convincente che tra Otto e Novecento, in ambito scientifico, le lingue artificiali venivano prese molto più sul serio di quanto si pensa normalmente. I capitoli 4 (Speaking Utopian) e 5 (The Wizards of Ido) descrivono in dettaglio l’impegno di figure come il chimico Wilhelm Ostwald per la diffusione nel mondo della ricerca di lingue che vanno dall’esperanto al volapük e all’ido: è un’integrazione molto importante alle storie raccontate per esempio in un bel libro divulgativo di Arika Okrent di cui ho parlato qualche anno fa.
 
Particolarmente importante per me è però il modo in cui negli Stati Uniti venne affrontato il problema specifico del russo, negli anni Cinquanta e Sessanta. Tra gli scienziati e i tecnici attivi in America, molti erano all’epoca in grado di leggere il tedesco (anche perché molti erano tedeschi…). Solo lo 0,1 di loro, però, secondo una rilevazione fatta all’epoca, si sentiva in grado di leggere il russo (p. 216).
 
In questo contesto divenne sorprendentemente popolare l’idea di ricorrere a una soluzione tecnica: la traduzione automatica. La storia di questa idea, diffusa soprattutto da Léon Dostert, occupa una buona parte dei capitoli 8 e 9 – e non mi sembra che esistano ricostruzioni migliori di questo interessantissimo periodo. Dal famigerato “esperimento” Georgetown-IBM del 1954 fino alla stroncatura contenuta nel rapporto ALPAC del 1966, la traduzione automatica del russo sembrò a portata di mano. Non lo era, e agli addetti ai lavori questo era chiaro fin dall’inizio. Però si sentiva il bisogno di intervenire nel settore, e l’idea era appetibile e finanziabile.
 
Alla fine, il problema fu risolto per altri canali. In buona parte lo eliminò, semplicemente, l’incapacità della scienza sovietica di mantenere il livello di sviluppo di quella occidentale. All’epoca, tuttavia, furono importanti anche altri contributi: nel libro di Gordin è per me affascinante soprattutto la storia delle agenzie specializzate che traducevano integralmente (“cover to cover”) le riviste scientifiche sovietiche.
 
E oggi? Gordin preavvisa nelle prime pagine che la storia del suo libro “ends with the most resolutely monoglot international community the world has ever seen—we call them scientists—and the exclusive language they use to communicate today to their international peers is English” (p. 2). Oggi la comunicazione scientifica è diventata monolingue in molte discipline, e questo può far pensare che il monolinguismo sia una tendenza normale.
 
Ma, appunto, una delle cose che si imparano dalla storia è che questa non è condizione di natura: il libro è anzi dedicato a illustrare “how deeply anomalous our current state of affairs would have seemed in the past” (ibidem). Aggiungo che il ricordo del passato permette anche di immaginare che, date le opportune circostanze, questa anomalia potrebbe scomparire! Del resto, come nota Gordin, lo studio delle scienze naturali in Europa era basato sul monolinguismo latino, ma gli scienziati a un certo punto hanno “deliberately, consciously” (p. 5) deciso di passare alla frammentazione linguistica.
 
Va poi notato che uno dei fattori fondamentali per un’ipotetica evoluzione in questo senso potrebbe essere di nuovo la traduzione automatica che, mentre pochi se ne accorgevano, è finalmente arrivata davvero a un livello tale da rendere praticabile ciò che negli anni Cinquanta era irrealistico. Qualche ipotesi in proposito l’ho fatta nel mio libro su Lingue e intelligenza artificiale, ma ci sarebbe ancora molto altro da dire.
 
Michael D. Gordin, Scientific Babel. The Language of Science from the Fall of Latin to the Rise of English, Londra, Profile Books, 2015, pp. 415, € 5,53, eISBN 978-1-84765-958-3. Edizione Kindle comprata su Amazon.
 

venerdì 15 febbraio 2019

Kolkata Literature Fair

  
 
I classici taxi gialli di Kolkata
La settimana scorsa ho partecipato alla Kolkata Book Fair, e più in particolare alla Kolkata Literature Fair, ospitata all’interno della manifestazione principale. Tra le altre cose, ho partecipato a un dibattito su “New genres, new voices” nella letteratura, coordinato da Esha Chatterjee di Bee Books.
 
L’esperienza è stata fantastica! Sia per l’organizzazione (per me è stato fondamentale in particolare il lavoro fatto, oltre che da Esha Chatterjee, da Srabani Bhattacharya) sia per l’ambiente. La KBF è stata veramente partecipatissima e mi ha dato la sensazione di un ambiente editoriale molto vivace.
 
Una delle cose che ho apprezzato di più è stata la vivacità dell’editoria in lingue indiane. Purtroppo il bengalese è per me inaccessibile (a differenza di quanto avviene per l’hindi, non riesco nemmeno a leggere l’alfabeto, nonostante sia simile), ma la varietà delle produzioni è notevole. Questo va in contrasto con il panorama linguistico globalizzato di Kolkata, in cui l’inglese oggi domina nelle insegne e nella segnaletica. Trovo che questo sia un peccato, anche se in India il ricorso all’inglese è anche un modo funzionale per non far torto a nessuna delle lingue indiane: hindi, bengalese, marathi, lingue dravidiche…
 
Uno scorcio della KBF


Poi Kolkata si è rivelata affascinante di per sé. Un po’ per i suoi ritmi rilassati rispetto a Delhi, e un po’ per le trasformazioni. Io c’ero stato due anni fa, in una visita di poche ore, e mi sembra che anche in un tempo così breve i cambiamenti siano stati vistosi. Sul famoso ponte di Howrah non passano più bufali: il traffico è tutto a piedi o motorizzato. I risciò con motore a combustione interna sono stati in buona parte sostituiti da carrozzelle elettriche (anche se mi è capitato perfino di vedere dei risciò tradizionali, tirati da un uomo a piedi). Le costruzioni si moltiplicano. In generale, sembra che non solo stia arrivando un sacco di soldi, ma che il benessere si diffonda in fretta – anche se è ovvio che rimangono ancora molti problemi da risolvere.

Sarasvati sul ponte di Howrah

Se uno vuole colore, comunque, basta ancora salire su un treno locale. Nelle carrozze senza aria condizionata passano continuamente venditori ambulanti di chai e di uova sode, suonatori baul, travestiti hijra che chiedono un’elemosina in cambio di una benedizione… Fuori dal finestrino, risaie e gente al lavoro nei campi. Carrozzelle e carretti trasportano le immagini di Sarasvati per la prossima puja.

Un baul particolarmente simpatico

E nel frattempo, soprattutto attorno all’aeroporto, una serie interminabile di cartelloni con la faccia di Mamata Banerjee vanta l’enorme crescita del PIL bengalese e il fatto che il reddito dei contadini è triplicato negli ultimi sette anni. La sfida del prossimo futuro potrebbe consistere soprattutto nel tenere ciò che è importante e accogliere ciò che è utile. Intanto io apprezzo gli enormi vantaggi che mi sembra che la globalizzazione stia portando in una quantità incredibile di posti.


venerdì 8 febbraio 2019

In Bengala

  
 
Il treno a vapore di Darjeeling
In questi giorni sono impegnato in una rapida trasferta nel Bengala occidentale. La ragione di base è partecipare al Kolkata Literature Festival a Kolkata (o Calcutta), dove domani pomeriggio parlerò del rapporto tra narrativa e fumetto in Italia. Tuttavia, all’arrivo ho fatto a spese mie una rapida deviazione con pernottamento a Darjeeling, un migliaio di chilometri più a nord, in quelle che vengono chiamate le “colline” dell’Himalaya. Che poi tanto colline non sono, visto che Darjeeling è a 2100 metri.
 
Procedura per arrivarci: da Delhi, volo per Bagdogra, lungo una rotta che per buona parte del tempo segue il Gange e da cui, per la prima volta in vita mia, vedo in lontananza le vette innevate dell’Himalaya. Da Bagdogra, autobus (un po’ ruspante) per Siliguri, 45 minuti. A Siliguri, jeep collettiva per Darjeeling, dopo una lunga attesa per fare il pieno di passeggeri, con 3 ore di percorso su una strada sorprendentemente buona. Le terre basse e le palme da cocco rimangono in fretta alle spalle, e il paesaggio inizia a far venire in mente il Tibet anche a chi, come me, non c’è mai stato. I passeggeri si alternano e salendo si fanno più numerosi quelli che parlano in nepalese, invece che in bengalese: è sempre una lingua indoeuropea e non è una lingua tonale… ma a me sembra proprio di sentire variazioni di tono e in alcuni casi qualche frase che sembra cinese. Sarà la suggestione del posto!
 
A Darjeeling l’obiettivo principale della mia visita era una delle principali attrazioni locali: il trenino passeggeri costruito dagli inglesi a inizio Novecento. Sarebbe stato bellissimo poter salire da Siliguri con quello, ma il viaggio completo dura otto ore e le poche partenze giornaliere erano incompatibili con i miei orari. In compenso però a Darjeeling c’è la possibilità di fare un giro turistico di due ore sulla linea, fino alla stazione di Ghum e ritorno, con un trenino moderno ma trainato da una locomotiva a vapore originale.
 
Bene, sono arrivato giusto in tempo per salire a bordo di questo giocattolone, e l’esperienza non ha deluso le aspettative. Da un lato, c’è l’interesse del viaggio a vapore. L’ho già fatto altre volte, ma è un interessante salto nel passato, che permette ogni volta di riscoprire i dettagli di quella che per un secolo è mezzo è stata l’esperienza di milioni di persone: dal fischio della locomotiva allo sporco della fuliggine. Dall’altro c’è il fascino del posto, e quello di un treno che passa all’interno delle strade normali, in mezzo alle case e ai negozi.
 
Un’altra attrattiva di Darjeeling dovrebbe essere la possibilità di vedere abbastanza da vicino le cime dell’Himalaya, e in particolare la vetta del Kanchendzonga. Purtroppo nei giorni del mio passaggio la foschia impediva di vedere molto lontano… mi sono contentato di visitare, la mattina di mercoledì 6, il centro del paese, e in particolare la mitica libreria Oxford nella piazza di Chowrasta.
 
Poi giù di corsa, verso il caldo e i trenta gradi delle pianure. Alla sera ero già a Kolkata, a sentire Carlo Ginzburg raccontare delle sue esperienze di storico in uno splendido cortile all’aperto del Victoria Memorial. Un fantastico inizio di missione.
 
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