Lo studio degli aspetti linguistici dell’emigrazione italiana nel mondo ha da qualche anno un importante punto di riferimento bibliografico: la Storia linguistica dell’emigrazione italiana nel mondo a cura di Massimo Vedovelli (Roma, Carocci, 2011, ISBN 978-88-430-6028-3, pp. 567, € 45).
Per la sostanza, va detto poi che alcuni degli esiti dell’emigrazione italiana rappresentano una specie di costante universale, altri variano a seconda dei contesti. Coerentemente, anche la SLEIM è divisa in due parti. La prima è un “Quadro concettuale di riferimento” (pp. 35-192); la seconda, assai più corposa, è dedicata a “Le vicende linguistiche nelle aree geografiche” (pp. 193-532).
Partiamo dagli elementi generali. La prima sezione include tre capitoli che illustrano altrettante “ipotesi” (ma lo stato delle conoscenze, oggi, direi che permette di parlare già di “constatazioni”):
Tra queste la meno intuitiva è in fin dei conti la prima (che anche nella SLEIM riprende in sostanza l’impostazione data mezzo secolo fa da Tullio De Mauro). Anche all’altro capo del mondo, l’emigrazione degli italiani non ha infatti portato a nuove lingue o a nuove varietà di lingua. Le lingue, fossero dialetti o italiano standard, sono rimaste in grande misura sincronizzate con quelle della madrepatria. Formazioni autonome e quasi-pidgin come il cocoliche argentino (p. 315 e p. 324), il broccolino statunitense (cap. 13.1.11, pp. 410-413) e l’australoitaliano (cap. 14.1.10, pp. 465-467) hanno avuto vita breve e si sono esauriti con la prima generazione di parlanti.
- ipotesi del parallelismo: “le dinamiche linguistiche che hanno coinvolto da un lato gli immigrati italiani nel mondo e dall’altro la società italiana d’origine si sono svolte secondo vie parallele e hanno mostrato, nonostante le distanze e le separazioni, esiti simili o assimilabili” (p. 38)
- ipotesi della discontinuità: sottolinea lo scarto tra la prima grande ondata di emigrazione (fino al 1914) e la seconda, dopo la Seconda guerra mondiale (p. 81) – più alfabetizzata, meno dialettofona, e diretta in Europa
- ipotesi dello slittamento: con il tempo, l’italiano “slitta fuori” dallo spazio linguistico delle generazioni più giovani; per queste ultime l’italiano diventa insomma una L2, cioè “una vera e propria lingua straniera” (p. 99)
Tra queste la meno intuitiva è in fin dei conti la prima (che anche nella SLEIM riprende in sostanza l’impostazione data mezzo secolo fa da Tullio De Mauro). Anche all’altro capo del mondo, l’emigrazione degli italiani non ha infatti portato a nuove lingue o a nuove varietà di lingua. Le lingue, fossero dialetti o italiano standard, sono rimaste in grande misura sincronizzate con quelle della madrepatria. Formazioni autonome e quasi-pidgin come il cocoliche argentino (p. 315 e p. 324), il broccolino statunitense (cap. 13.1.11, pp. 410-413) e l’australoitaliano (cap. 14.1.10, pp. 465-467) hanno avuto vita breve e si sono esauriti con la prima generazione di parlanti.
Il che, ovviamente, non era scontato! Dal punto di vista linguistico, avrebbe potuto benissimo affermarsi qualche pidgin, pronto per esempio a trasformarsi in lingua creola, o almeno in qualcosa di simile all’afrikaans. Questo però non è successo, anche se in alcuni casi ci si trova quasi sul confine, come accade per il “taliàn” brasiliano (cui è dedicato il capitolo 11, di Alberto Secci, purtroppo non molto informativo; una descrizione più solida del punto di vista scientifico si trova al cap. 10.5.11, pp. 340-341): un dialetto veneto di koinè ancora oggi parlato da comunità molto ampie nello stato di Rio Grande do Sul. Anzi, se qualcuno vuole sentire una web radio in taliàn…
Girando per il mondo, comunque, quelli che si trovano oggi sono soprattutto “oggetti” linguistici familiari immersi in un contesto esotico. Dalla conservazione del dialetto veneto ottocentesco di Segusino nella comunità messicana di Chipilo (cap. 12.1.4, pp. 372-375) alla scelta di molti soldati italiani prigionieri in Sudafrica di fermarsi sul posto anche al termine della Seconda guerra mondiale, vista come base per la numerosa colonia italiana presente nel paese (p. 481), i contesti sono a volte sorprendenti e comunque impossibili da riassumere in poche pagine. C’era bisogno di uno strumento che li descrivesse con un’ampiezza maggiore di quella delle poche sintesi già esistenti, e la SLEIM è venuta a ricoprire appunto questo ruolo.
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