Negli ultimi mesi ho colmato una lacuna, leggendomi i due volumi della Storia sociale della conoscenza di Peter Burke. Nelle biblioteche a portata di mano uno dei volumi era disponibile in originale, uno in traduzione... ma non credo che l’alternanza delle lingue abbia distorto molto la mia lettura.
In quanto al merito, entrambi i volumi sono un’affascinante cavalcata storica che descrive l’evoluzione delle conoscenze in Europa dalla fine del Medioevo a oggi. Quelle prese in esame sono le conoscenze “accademiche” (distinte da quelle pratiche), anche se in apertura Burke, scherzando, dichiara:
If I wanted to cause a sensation, I would claim at this point that the so-called intellectual revolutions of early modern Europe (…) were no more than the surfacing into visibility (and more especially into print) of certain kinds of popular or practical knowledge and their legitimization by some academic establishments (I, pp. 14-15).
Seriamente, non è così: la questione è più complicata, e la descrizione del modo in cui si è trasformata la conoscenza non si presta alla riduzione in semplici formule. Burke presenta quindi in rapidi capitoli questioni che vanno dalla proprietà intellettuale alla diffusione delle enciclopedie, dallo spionaggio militare all’importanza dei convegni scientifici, su scala europea.
Un tale livello di generalità rende inevitabili gli errori, a cominciare da quelli minimi: per esempio, diversi secoli prima dell’arrivo della carta nel mondo mediterraneo, non ha senso parlare dell’Impero romano come di un’organizzazione “based on paper and paper-work” (I, p. 119), eccetera. In diversi punti credo poi che sia la sintesi stessa, più che qualche suo dettaglio, a essere carente. Tuttavia, credo anche che questo sia un inevitabile prezzo da pagare per avere un quadro d’assieme tale da permettere di notare cose nascoste dagli specialismi.
Certo, alcune cose sono banali, e sono già divenute evidenti per altra via: per esempio, l’alternanza tra periodi di sperimentazione e periodi di istituzionalizzazione, o il concetto che in generale le idee brillanti sembrano più legate agli individui che operano ai margini che alle istituzioni, anche se poi le istituzioni sono necessarie per tradurre in pratica le idee stesse (I, p. 51).
Certo, alcune cose sono banali, e sono già divenute evidenti per altra via: per esempio, l’alternanza tra periodi di sperimentazione e periodi di istituzionalizzazione, o il concetto che in generale le idee brillanti sembrano più legate agli individui che operano ai margini che alle istituzioni, anche se poi le istituzioni sono necessarie per tradurre in pratica le idee stesse (I, p. 51).
Altre sono già più difficili da mettere a fuoco su questa scala, come il ruolo di lungo periodo del clero e delle istituzioni ecclesiastiche, anche in aree per niente connesse con la religione. Oppure, il fatto che dal Sei al Settecento una “increasingly formal organization of knowledge was not confined to the study of nature” (I, p. 47), con l’affermazione di progetti di ricerca collettivi nelle scienze storiche basati anche sui monasteri.
Il secondo volume include anche diverse osservazioni sul ruolo delle tecnologie informatiche. In modo appropriato, il testo chiude con la descrizione anche del caso di Wikipedia (pp. 365-367), visto come esempio di “democratizzazione della conoscenza” e di “citizen science”.
L’opera nel suo assieme presenta peraltro un’omissione fondamentale: la scuola. Soprattutto negli ultimi due secoli, ma non solo, i sistemi scolastici sono stati senz’altro il canale principale per la diffusione delle conoscenze… tenerli fuori dal discorso mi sembra un po’ come fare la “storia sociale della moneta” senza citare l’esistenza delle banche. La cosa è tanto più vistosa in quanto per esempio il terzo capitolo del secondo volume viene dedicato esplicitamente alla Diffusione delle conoscenze (II, pp. 113-143): al suo interno il discorso tocca Google e le conferenze divulgative, i musei e le presentazioni audiovisive – ma la scuola non viene mai nemmeno citata.
Fatta questa (consistente) tara, l’opera rimane divertentissima e interessante. Difficile dire chi sia il lettore di riferimento per questa coppia di libri, ma sospetto che possa essere grosso modo qualcuno come me: una persona coinvolta in qualche tipo di “lavoro con la conoscenza” e intenzionata sia a imparare qualcosa di nuovo, sia, e soprattutto, ad avere un ripasso, da altra prospettiva, di tante cose già viste.
Peter Burke, A Social History of Knowledge. From Gutenberg to Diderot, Cambridge, Polity Press, 2000, rist. 2002, pp. vii + 268, ISBN 0-7456-2485-5. Copia della Biblioteca di Filosofia e storia dell’Università di Pisa.
Peter Burke, Dall’Encyclopédie a Wikipedia. Storia sociale della conoscenza, 2, Bologna, il Mulino, pp. 449, ISBN 978-88-15-24457-4 (titolo originale: A Social History of Knowledge II. From the Encyclopédie di Wikipedia, 2012; traduzione di Maria Luisa Bassi). Copia della Biblioteca di Filosofia e storia dell’Università di Pisa.
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