venerdì 5 luglio 2024

Ghosh, La maledizione della noce moscata


 
Amitav Ghosh mi piace molto come narratore. Mi piace però anche come scrittore di… beh, più che farla rientrare in un genere ristretto, potremmo definirla “saggistica” in senso ampio: testi ampi e argomentati che riguardano problemi importanti. Anche questo La maledizione della noce moscata non fa eccezione, in quanto ha una base storica non è un “libro di storia” in senso stretto, perché parla molto dell’attualità. O meglio, parte dalla storia, e da molti dei suoi angoli dimenticati, per parlare soprattutto dell’attualità e del futuro.
 
I collegamenti generati in questo modo sono spesso arditi: a volte fanno emergere contatti reali, a volte sono semplicemente eccessivi o meccanici, e a volte non è facile decidere in quali tipologie rientrino. Per esempio, c’è un rapporto significativo tra il massacro degli indiani lakota compiuto dall’esercito degli Stati Uniti nel 1890 a Wounded Knee e l’impiego della riserva lakota di Pine Ridge come poligono di bombardamento negli anni Quaranta del Novecento (p. 80)? Sono senz’altro due atti condotti dalla stessa struttura ai danni di due gruppi di uno stesso popolo, ma il secondo è davvero così caratterizzante, o è solo un episodio minimo nella gestione della “questione indiana” negli USA tra Otto e Novecento, condotta attraverso ben altri strumenti? E naturalmente il rischio della superficialità o del fraintendimento, quando i casi presentati sono numerosi ed eterogenei, è altissimo (per esempio, Hormuz non è mai stata occupata dagli olandesi, a differenza di quanto dichiarato a p. 121). La difficoltà di decifrare e presentare la rete di rapporti del mondo reale è comunque ben chiara all’autore, che per esempio nota che “Ovviamente non c’è alcun rapporto di causa-effetto tra cambiamento climatico e Covid-19, ma le due cose non sono neppure del tutto slegate” (p. 147).
 
Il libro poi parte da crimine storico che in Italia risulta probabilmente noto solo agli specialisti: lo sterminio degli abitanti delle isole Banda, in Indonesia, a opera della (da poco arrivata) Compagnia olandese delle Indie orientali, negli anni Venti del Seicento. Si trattò di un massacro compiuto al servizio del commercio delle spezie in generale e della noce moscata in particolare; Ghosh lo presenta come esempio per un discorso assai più ampio sulla natura estrattiva e distruttiva della cultura occidentale, con ovvie proiezioni fino a oggi, e riconducibile alla pratica ideale della “terraformazione”. Come ricorda l’autore, la parola è stata inventata nel 1942 in inglese (“terraforming”) dallo scrittore di fantascienza Jack Williamson… era un po’ che non mi capitava di incontrare il suo nome! Tuttavia, è una parola che si adatta bene, in retrospettiva, a descrivere pratiche di lunghissimo periodo e di ampia fortuna nell’età moderna.
 
Si tratta in sostanza di una concezione del mondo-come-risorsa (p. 83) che si collega al “disprezzo che nasce dalla familiarità” (p. 87) e a un’idea ancora più generale: che tutto ciò che si trova al mondo possa essere messo al servizio di una “rottura del legame terreno” (p. 92) e di una desiderata trascendenza – legata a una teologia definita o ad ansie più generiche. Ghosh non è certo il primo a ipotizzare qualcosa del genere, ed esistono esposizioni assai più articolate di questo pezzo di storia delle idee: per l’età contemporanea, io sono per esempio molto legato a Velocità di fuga di Mark Dery, che tanto tempo fa ho tradotto in italiano. La prospettiva del discorso, però, qui ha diversi tratti innovativi. Il nucleo è la dipendenza dell’economia dalle ideologie e dai rapporti di potere: in quest’ottica, è il colonialismo che crea il capitalismo, e non viceversa (pp. 129-130). A quella del mondo-come-risorsa, Ghosh contrappone poi l’ipotesi Gaia (pp. 96-97) che considera la Terra come un organismo vivente. Il punto di arrivo è una vera e propria “politica vitalista” (p. 257 e successive). Qui, ammetto, non riesco a condividere molto il discorso.
 
All’interno dell’articolata argomentazione si collocano poi esperienze e contesti che in parte mi capita di conoscere da vicino. Per esempio, Ghosh dedica diverse pagine – pp. 170-172 – ai suoi colloqui con gli immigrati bengalesi in Italia, colloqui che hanno un ruolo importante anche nel suo romanzo L’isola dei fucili. E ampio spazio è dedicato, naturalmente, alla situazione attuale delle Sundarban. Ma in generale, il libro è una selva di fatti e prospettive diverse, esaminate in modo molto intelligente (io per esempio ho apprezzato molto la critica al determinismo tecnologico di David Abram, a p. 230, a proposito di ideologie linguistiche). A questo suo guardare al mondo in modo aperto, più che a proposte specifiche, attribuirei il suo valore.
 
Amitav Ghosh, La maledizione della noce moscata: parabole per un pianeta in crisi, Vicenza, Neri Pozza, 2022 (ed. or. The Nutmeg’s Curse: Parables for a Planet in Crisis, 2021; traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti), pp. 361, ISBN 978-88-545-2305-0. Letto per graditissimo prestito.
 

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