martedì 16 aprile 2013

Ferri, Nativi digitali


Paolo Ferri, Nativi digitali
Il libro di Paolo Ferri sui “nativi digitali” è un disastro. Non ci sono, purtroppo, altri modi per definirlo.
 
Certo, non è un disastro isolato. Ferri si colloca in una lunga lista di autori (giornalisti, pubblicisti… e perfino diversi ricercatori “seri”) che hanno proclamato l’avvento di una generazione di giovani che, influenzati dagli strumenti digitali, studiano e socializzano in modi del tutto diversi da quelli delle generazioni precedenti.
 
L’idea è affascinante, ma ha un piccolo difetto: è falsa. Da quando è stata formalizzata (diciamo cioè dal 2001, l’anno in cui sono stati pubblicati due terribile articoletti di Marc Prensky sui “nativi digitali”), molti si sono limitati a ripeterla. Alcuni però hanno fatto una cosa strana e sovversiva: hanno provato a verificarla. E nessuna verifica seria ha mai trovato conferma di quest’idea di una radicale diversità. Che usino o no gli strumenti digitali, bambini e ragazzi del mondo industrializzato continuano in sostanza ad apprendere e interagire in un modo che nella sostanza è invariato – anche se in alcune manifestazioni presenta qualche novità superficiale, e a volte affascinante.
 
Io quest’anno sto dedicando un mezzo corso di Linguistica italiana 2 (per la laurea magistrale in Informatica umanistica a Pisa) ai “nativi digitali”. Il mio punto di partenza è naturalmente quello linguistico, ma su un argomento del genere è necessario fornire un bel po’ di informazioni di contesto. Avevo quindi sperato di inserire nel programma d’esame anche il libro di Ferri (Milano, Bruno Mondadori, 2011), che avevo letto l’anno scorso, anche se già all’epoca ero sicuro che potesse entrarci solo come primo obiettivo di una critica. Per fortuna, prima di formalizzare l’inclusione ho riletto il libro in dettaglio e ne ho discusse diverse parti sia a lezione sia durante un Seminario di cultura digitale. Risultato: no, è inaccettabile. Non si può presentare un libro del genere in un corso universitario, nemmeno come punto di partenza per la discussione.
 
I problemi non sono difficili da individuare. Partiamo però da quello di base, e cioè il modo in cui l’autore parla di esistenza di una vera e propria forma di intelligenza, anzi, “di nuove competenze cognitive che non vengono spiegate attraverso le attuali categorie interpretative” (p. 73). Nientemeno. In che cosa consiste, quindi, questa nuova intelligenza, che Ferri etichetta come “intelligenza digitale”? Il testo dà una risposta esplicita.
 
Nell’accezione in cui intenderemo il termine, esso identifica l’abilità cognitiva di utilizzare l’alternativa ‘sì/no’, ‘azione/inazione’ all’interno del nuovo spazio digitale dello schermo che è diventato la tecnologia caratterizzante della trasmissione del sapere. Per esempio, identifica la possibilità di attivare o non attivare un link ipertestuale all’interno di una pagina web, o la possibilità, più complessa dal punto di vista cognitivo, di tracciare un percorso intenzionale tra i link, cioè di seguire attraverso una decisione specifica questo o quel link in una pagina Internet o un determinato percorso di gioco in una consolle (p. 75, corsivo originale).
 
Cioè, l’intelligenza digitale consisterebbe nella capacità… di cliccare o non cliccare su un link. E, più in generale, di decidere se fare un’azione o no, e in casi più complessi, di farlo all’interno di un piano un po’ più esteso di un singolo clic.
 
La risposta più accurata a questa definizione penso che sia: “eh?” Cioè, Ferri sta sostenendo che la differenza radicale è data dal fatto che i giovani sono capaci di usare questa alternativa? Ma purtroppo non c’è un’argomentazione coerente, corredata di risultati di ricerca, che mostri per esempio misurazioni di tempi e modalità di svolgimento di compiti, notando, che so, diversità rispetto agli adulti. C’è invece una sequenza di affermazioni a ruota libera, alcune delle quali semplicemente ridicole. Un po’ per la qualità dell’argomentazione, un po’ per la quantità di errori e spropositi, a vari livelli, inseriti nel testo.
 
Prendiamo un esempio. Ferri inserisce la sua ipotesi sull’“intelligenza digitale” nel quadro della “teoria delle intelligenze multiple” di Howard Gardner. Teoria tanto vaga, e tanto poco supportata, che viene spesso citata come esempio di “pseudoscienza” presentata da un personaggio formalmente autorevole (Gardner insegna a Harvard). Lasciando però da parte questa dubbia ascendenza, Ferri adotta i criteri usati da Gardner per individuare diversi tipi di intelligenza. Questi criteri sono risibili sia nel loro assieme sia – quasi tutti – individualmente; vale la pena però vedere il modo in cui Ferri ne giustifica uno, vale a dire, il vedere se alcuni individui mostrino di possedere questa “intelligenza” in quantità maggiore rispetto ad altri:
 
Esiste (…) una serie di esempi eclatanti della capacità di maneggiare l’intelligenza digitale (…): evidentemente Tim Berners-Lee, l’inventore di Internet, così come lo conosciamo oggi [una nota pudìca, composta unicamente da un estratto da Wikipedia, sintetizza le realizzazioni di Berners-Lee, ma non corregge questa assurda definizione], o Bill Gates, l’inventore dei moderni sistemi operativi a partire da Microsoft DOS o MS-DOS fino all’attuale Windows 7; ma anche tutti gli altri ‘padri fondatori’ della comunicazione digitale, da Steve Jobs, l’inventore del primo personal computer, a Marc Zuckerberg, l’inventore di Facebook, o a Richard Stallman e Linus Torvalds, gli inventori del sistema operativo Linux, possono essere considerati dei maestri o dei savants nel campo dell’intelligenza digitale (p. 88).
 
Che dire? D’accordo, a parte quella di Zuckerberg, tutte queste definizioni sono clamorosamente sbagliate. Ma forse ancora più clamoroso è il fatto che l’autore le presenti come esempi eclatanti di capacità “di utilizzare l’alternativa ‘sì/no’, ‘azione/inazione’”. Forse pensando che il kernel di Linux sia stato costruito, piuttosto che scrivendo righe di codice in C, cliccando rapidamente su una serie di link?
 
Insomma, non solo il libro non è una cosa seria, ma a rileggerlo mi sono pure intristito. E quindi lo cancello dal programma: infliggerlo agli studenti è ingiusto. Tratteremo invece ricerche più serie, come quella di Mizuko Ito.
 

5 commenti:

Paolo Ferri ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Paolo Ferri ha detto...

Non ti curar di lor ma guarda e passa ... Gardner pseudoscienza, anche l'International, Mind Brain and Education society http://www.imbes.org/ pseudoscienza,
Battro autore del volume, Intelligenza digitale, da Harvard e illustre neuroscienziato internazionale anche lui pseudoscienza. Rizzolatti e Gallese e la teoria della plasticita' neurale anche quella pseudoscienza? I dati contenuti, ci sono caro Tavosanis ci sono, nel mio libro sono di questi " pseudoscienzati", non miei che neuroscienziato non sono, e tu un caro "linguista .... Scienziato" Dovresti leggere meglio i miei libri ...magari anche quello dl 2013, la prossima volta e con credo maggior utilità documentarti un po' di più' sulle neuroscienze ... Prima obiettare

Mirko Tavosanis ha detto...

Gentile professor Ferri,

grazie del contributo, ma confermo che le osservazioni fatte nel post mi sembrano tutte ragionevoli e sensate. Che quella di Gardner sia “pseudoscienza” non lo dico io! Io mi limito a riferire un giudizio diffuso (e, sospetto, condivisibile), riportato anche sulla pagina di Wikipedia in lingua inglese relativa alla “teoria” delle intelligenze multiple:

http://en.wikipedia.org/wiki/Multiple_intelligences#Lack_of_empirical_evidence

Che poi Gardner sia docente a Harvard e "illustre neuroscienziato", temo, non rende di per sé la sua teoria sostenibile – il principio di autorità è stato abbandonato da qualche secolo, per quanto riguarda le discussioni scientifiche. Inoltre, io non parlo né di Battro né di neuroplasticità. Quest’ultima, peraltro, è una realtà medica indiscussa… ma il fatto che esista non ha, ovviamente, alcun rapporto necessario con l’esistenza di “intelligenze multiple”, o digitali.

Sarei però molto curioso di avere qualche commento specifico rispetto alle osservazioni fatte nel post. Per esempio: che rapporto può esserci tra lo scrivere un kernel in C e la capacità di “attivare” o “non attivare” dei link, sia pure posseduta a un livello “eccezionale”? E davvero per dire che i giovani sono capaci di cliccare su un link occorre cercare “nuove categorie interpretative”, perché quelle di cui disponiamo oggi sono insufficienti?

Più in generale: l’ipotesi dei “nativi digitali” è stata smentita decisamente da diversi studi empirici, pubblicati ormai da anni. Dal 2008 in qua, le rassegne del dibattito sui “nativi digitali” hanno dichiarato più o meno tutto, in modo costante, cose come: “There is no evidence that there is a single new generation of young students entering Higher Education and the terms Net Generation and Digital Native do not capture the processes of change that are taking place” (Jones e Shao 2011). Come mai nel suo libro non si fa in pratica nessun cenno a questo consenso ormai consolidato?

A presto,

Mirko Tavosanis

Paolo Ferri ha detto...

Veramente il neuroscienziato non è Gardner troppo anziano per poterlo essere. Il neuroscienziato e' Battro il cui libro intelligenza digitale le consiglio per trovare risposta alle sue obiezioni. Altro libro da leggere Born Digital ... Va bhe la d.iscussione e' il sale della ricerca ... buona notte

Mirko Tavosanis ha detto...

Gentile professor Ferri,

volentieri; anzi, mi sono subito comprato Verso un’intelligenza digitale nella traduzione italiana disponibile su Amazon e me lo sono letto sull’aereo che mi riportava a Pisa. Ho anche scoperto, ahimè, che la traduzione è un prodotto non professionale, apparentemente realizzato con un traduttore automatico (“utilizzare un maggior congiunto di risorse”… e a volte va avanti così per pagine intere). Sospetto però che la sostanza dell’opera si sia mantenuta intatta anche attraverso questo esempio di cialtroneria editoriale italica.

E purtroppo, la sostanza è un’accozzaglia di materiali discutibili. Innanzitutto, buona parte del libro è fatto di rinvii al lavoro di ricercatori seri – che però si sono occupati di tutt’altro! Insomma, per descrivere il “sistema di simboli” cui farebbe riferimento l’intelligenza digitale viene impiegato un capitolo che fa una sintesi scolastica – e spesso sbagliata, v. sotto – di classificazioni come quella di Peirce. Alla fine, le pagine in cui si parla di ciò che dovrebbe essere l’argomento principale del testo sono pochissime, e le osservazioni fatte ricadono di regola in due categorie: o sono vaghe e sfuggenti, o sono sbagliate.

In questa nebbia sono frequenti anche gli accenni alla linguistica… ma purtroppo sono (quasi) tutti sbagliati: gli autori non hanno idea, apparentemente, dei concetti di base della disciplina, ma questo non impedisce loro di parlarne con disinvoltura. In un passo terrificante dell’Introduzione la natura “digitale” della scrittura prodotta su una tastiera viene contrapposta alla natura “analogica” della scrittura manuale, come se la scrittura e il linguaggio articolato umano non fossero già ontologicamente basati su elementi discreti (“digitali”) inseriti in un sistema chiuso, e come se tra una lettera tracciata a mano e un carattere codificato al computer ci fosse chissà quale differenza mistica – apparentemente, gli autori non hanno capito che una a tracciata a mano resta sempre una a, non uno strano miscuglio casuale tra a, q, b o qualcosa del genere (non hanno inquadrato la basilare distinzione tra glifo e carattere, insomma). Né hanno capito che dal punto di vista del lettore, a parità di aspetto visivo finale, un carattere alfabetico è un carattere alfabetico, indipendentemente dal fatto che sia stato presentato agli occhi attraverso un sistema informatico o un torchio tipografico o un bel disegno a mano…

E quello è solo l’inizio. Contengono infatti errori di base anche le spiegazioni dedicate ad argomenti come la pragmatica in linguistica e la teoria degli speech acts, e così via. Raramente capita di trovare testi che affrontino argomenti del genere in modo tanto cialtronesco.

Sul fronte principale, invece, il libro è semplicemente privo di dati empirici sulla supposta “intelligenza digitale”. In che cosa consiste? Come è stata misurata? Le spiegazioni fornite sono vaghe e spesso contraddittorie. Certo, gli autori (con l’aiuto del traduttore) spiegano che “Nonostante gli evidenti progressi nella nostra intelligenza digitale, nessuno può affermare che l’umanità abbi [sic] migliorato la sua condotta etica grazie a questo nuovo ‘mantello digitale’ che la copre da un estremo all’altro della terra e anche al di fuori, nelle navi speciali [sic] abitate dagli astronauti…”; e ne sono lieto. Ma non riesco a vedere, sinceramente, come sia possibile scambiare questi ammassi di luoghi comuni, errori e giochetti retorici – che, ribadisco, non sembrano basati su alcun dato empirico – per un discorso serio.

O in altri termini: no, temo che Battro non abbia affatto fornito risposta alle mie obiezioni… Ma forse, prima o poi, qualcuno sarà in grado di spiegarmi in che modo l’abilità di cliccare su link sia legata, per esempio, alla scrittura di programmi in C.

A presto,

Mirko Tavosanis

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