mercoledì 28 settembre 2016

Il caffè nella savana

  
 
Il caffè nella savana
Terminati gli impegni a Nairobi sono andato a prolungarmi il fine settimana a Masai Mara. Sì, è il più famoso dei parchi nazionali del Kenya, e, sì, è una specie di Disneyland. Non importa: lo spettacolo è comunque fantastico. In questo momento è ancora in corso la grande migrazione degli gnu, e la piatta distesa di erba gialla di Masai Mara è popolata da mandrie che si sparpagliano per chilometri. Gli gnu (2 milioni) e le zebre (1 milione) sono così numerosi e tranquilli che viene da pensare che siano addomesticati. Ma anche la semplice varietà della fauna è incredibile. In tre giorni di permanenza mi è capitato di vedere bufali, antilopi, gazzelle di Thompson, struzzi, coccodrilli, babbuini, facoceri, manguste, ippopotami, elefanti, iene, sciacalli… e sicuramente ne sto scordando qualcuno.
 
Nota pratica: il Kenya non è un posto economico. Le escursioni nella savana costano care, e le mie finanze personali sconteranno per un bel pezzo quei giorni. Però direi che un’esperienza del genere ha comunque un senso, anche se solo una volta nella vita. La strana impressione è quella di essere entrati in un documentario o in un manuale animato di ecologia, con gli gnu che mangiano l’erba, i leoni che mangiano gli gnu, gli avvoltoi che finiscono gli avanzi e il ciclo che ricomincia. Tutto in bella vista.
 
E poi per me è stato un po’ come tornare indietro nel tempo. Quando mio figlio era piccolo penso che ci saremo visti circa sedicimila volte Il re leone, che, se fosse stato un film con attori in carne e ossa, sarebbe stato girato a Masai Mara. Per me vedere i facoceri che si allontanano saltellando a coda ritta è stata una serie di lampi di riconoscimento tardivo (“Pumbaa!”).
 
Le stelle indiscusse del parco sono però i felini. Elusivi i ghepardi – li ho visti solo col binocolo. Elusivi anche i leopardi, che però per caso sono riuscito a vedere da vicino. E soprattutto, per niente elusivi i leoni, che sono quindi il bersaglio preferito dei fotografi. Inoltre, i leoni sono sorprendentemente pochi, per tutte le prede che hanno a disposizione: sono meno di duecento, e questo produce un sovraccarico di pubbliche relazioni. A un certo punto, attorno a una famiglia di leoni ho contato una, due tre… dodici jeep in totale, irte di costosissimi teleobiettivi impugnati da anziani nordeuropei.
 
A passeggio tra le jeep


I leoni, incredibilmente, non sembrano risentire più di tanto della loro vita da star. Girano tranquillamente tra le macchine, ignorandole. I leoni maschi si accoppiano con le femmine. I leoncini giocano con le mamme e tra di loro. Grandi e piccoli si mangiano in pace gli gnu. Le jeep in uso nel parco sono aperte, e a un certo punto una leonessa passa proprio sotto di me. “Qui i leoni sono tranquilli”, mi dice la mia guida, Arnold. “Non è come a Tsavo ovest…” Beh, questa, sembra proprio un enorme gatto. Viene quasi voglia di allungare la mano e grattarle la testa.
 
Reprimo l’istinto.
 
Per me, la routine di quei giorni  è stata piacevolmente ripetitiva. Sveglia alle sei del mattino, partenza in jeep alle sei e trenta per vedere gli animali in uno dei periodi di massima attività. A me sembravano più che altro ancora intirizziti. Del resto, Masai Mara è a milleseicento metri, e fa freddo: io mi proteggo alla meglio con tutto quello che mi sono portato addosso, canottiera, felpa a maniche lunghe, gilet di pile e giacca da Consiglio di Dipartimento, e ancora non basta. Per fortuna, il primo giorno Arnold insiste perché ci portiamo dietro provviste e abbondante caffè. A metà mattina ci fermiamo quindi a fare colazione sotto un albero in mezzo alla savana.

Paesaggio con zebre


Arnold si rivela una guida competentissima: viene da un villaggio un po’ più a nord, ha iniziato la carriera di guida in autonomia e poi è andato in Sudafrica a laurearsi in Comportamento animale. Esprime stupore davanti all’idea che in Italia l’insegnamento superiore non sia tenuto in inglese. Poi però rievoca anche gli anni della scuola elementare, che ha fatto presso una missione italiana. E, con mia sorpresa, si mette a un certo punto a cantare:
 
tci son tue co-codrili, un orangu tangu…
 
Passato il primo attimo di sorpresa, mi unisco anch’io:
 
… due piccoli serpenti, un’aquila reale…
 
Attorno, un branco di iene si sposta furtivo da un cespuglio all’altro. Il pomeriggio il sole arriva allo zenith e i turisti si ritirano in tenda per la pausa di metà giornata. Ripartenza alle quattro del pomeriggio, fino al tramonto. Io approfitto delle pause per sonnecchiare e lavorare. Eccomi impegnato a correggere le relazioni finali di Linguistica italiana II (appello del 22 settembre) ai margini della savana:

Correzioni ai margini della savana

 
Al di sotto, il fiume è pieno di coccodrilli e ippopotami. La notte agli ospiti è proibito spostarsi tra le tende senza scorta (un giovane masai dall’aspetto non troppo svelto, ma munito di una specie di lancia corta con una bella punta in ferro); di giorno, invece, le bestie non salgono. Mi fido ciecamente.
 
Il parco sembra appunto una Disneyland: non c’è traccia di altra attività umana. La mattina si alzano in cielo grappoli di mongolfiere, per il classico sorvolo della savana all’alba. L’organizzazione del mio campo è ottima, la tenda praticamente un miniappartamento con bagno.
 
L’unico dettaglio stonato è il fatto che gli ospiti di questa Disneyland si mangiano tra di loro. Vicino alle rive del fiume Mara incontriamo avvoltoi e marabù che si disputano i resti di uno gnu. In mezzo io vedo un facocero che si dà da fare (“Pumbaa!”).
 
“Ma sta mangiando anche lui?”
 
“No, sono vegetariani.”
 
“Eppure, a vederlo…”
 
“Starà mangiando una pianta lì in mezzo.”
 
In mezzo agli avvoltoi? Ci avviciniamo un po’.
 
“Ah, ecco. Sta mangiando lo stomaco dello gnu… è ancora pieno d’erba”.
 
Gli avvoltoi emettono sibili raccapriccianti. Due marabù si disputano un pezzo di interiora. La puzza è terrificante. Manca solo che uno dei babbuini della zona entri in scena brandendo un femore, come in una scena di 2001: Odissea nello spazio.

Decollo!

 
Rientro a Nairobi su un piccolo monomotore, schiacciato dietro al pilota. Cinema per cinema, sembra di essere dentro una scena de La mia Africa, volteggiando sopra cespugli con famiglie di leoni sdraiate all’ombra, giraffe che ci guardano passare… Facciamo tappa nella riserva privata di Richard Branson, a recuperare un po’ di passeggeri da un altro turboelica che ha bucato una ruota del carrello sulla pista sterrata e non può ripartire.
 
“Chi viene caricato?”
 
“Solo quelli che devono prendere un volo intercontinentale stasera.”
 
Gli altri turisti attendono con aria sconsolata. C’è di peggio. Nel volo di andata era seduto accanto a me un medico dell’esercito, il dottor Kuya, che sta di stanza a Mombasa ma è rientrato da poco dopo tre mesi in Somalia. “Eh, brutta situazione… è morta molta gente che conoscevo… c’è stato un grosso attacco a gennaio, avrà sentito le notizie…” Ammetto di no, ma ho controllato: è stato alla battaglia di El Adde. Adesso si rientra anche a tutto questo, oltre che al lavoro. La savana lascia il posto alle montagne, a qualche campo coltivato e poi alle prime case di Nairobi.
 

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