La continuità fra libro manoscritto e libro a stampa si rileva in tutte le caratteristiche esterne dei due diversi prodotti. La nuova arte o tecnica di stampare non aveva altro scopo che quello di sostituire la mano dell’amanuense divenuta troppo lenta in rapporto alla crescente richiesta del mercato (…) Il torchio di Gutenberg e le sue lettere metalliche, componibili e scomponibili, vollero risolvere dunque soltanto un problema di produzione senza che alcuno pensasse di modificare il prodotto (p. 13).
Qualche elemento della sintesi andrà forse corretto, ma sulla sostanza c’è poco da fare. Anche se ancora oggi capita di leggere commenti sulla diversità radicali tra libro a stampa e manoscritto, chiunque abbia passato un po’ di tempo in compagnia degli uni e degli altri, dal Trecento al Cinquecento, sa che il panorama è all’insegna della continuità. Di fronte alla riproduzione di molte pagine quattrocentesche, insomma, a volte anche un lettore smaliziato non riesce a capire a colpo d’occhio se si tratta di un manoscritto o di un testo a stampa. Dal punto di vista della leggibilità e dell’usabilità, un manoscritto ben realizzato era spesso pari o superiore al corrispondente testo a stampa. Il quale aveva di regola come punto di forza il prezzo ridotto, non la qualità.
Se proprio vogliamo essere pignoli, poi, sul lungo periodo il testo a stampa ha reso meno usabile il rapporto testo-immagine. Gli autori delle parole si sono staccati sempre di più da quelli dei disegni, e il coordinamento si è spesso perso. Ne è testimonianza perfino il bellissimo volume di cui parlo: Luigi Balsamo e Alberto Tinto, Origini del corsivo nella tipografia italiana del Cinquecento (Milano, il Polifilo, 1967, ristampa 1977, pp. 184). In cui la descrizione dei singoli caratteri per esempio sarebbe molto più chiara se fosse accompagnata, sullo stesso rigo, dalla riproduzione dei caratteri stessi – cosa quasi inconcepibile, oggi, al di fuori degli esempi forniti da Edward Tufte e pochi altri.
A parte questo, tuttavia, per gli appassionati come me il libro è meraviglioso. La sua storia si colloca in un momento in cui, appunto, i tipografi e gli editori si sforzavano di avvicinarsi quanto più possibile al modello dei manoscritti, e in cui l’invenzione del moderno “corsivo”, a opera di Aldo Manuzio e Francesco Griffo, fu un salto di qualità. I caratteri aldini, infatti, usati per la prima volta a stampa nell’anno 1500, giocavano tutto sull’imitazione dell’elegante scrittura a mano, comprese le legature delle lettere. E rappresentano anche, aggiungo io, l’ultima vera innovazione nei caratteri tipografici, a parte la creazione dei caratteri senza grazie – con cui hanno in comune alcuni problemi di leggibilità.
Il successo editoriale di Aldo spinse comunque una quantità di disegnatori e incisori a cimentarsi con il corsivo, e il libro di Balsamo e Tinto è ancora oggi un punto di riferimento fondamentale per orientarsi tra di loro. Luigi Balsamo, in particolare, autore dei primi capitoli, porta alla luce l’originalità grafica di una serie di incisori e disegnatori di caratteri d’inizio Cinquecento, che in precedenza erano stati considerati semplici imitatori del lavoro di Aldo: lo stesso Francesco Griffo, innanzitutto, che cercò fortuna per conto proprio e fece una fine tragica; Benedetto Dolcibello, che realizza quelli che a me paiono i caratteri più bilanciati; i Paganini padre e figlio; e altri di minore rilevanza.
Alberto Tinto prosegue la rassegna in senso cronologico, partendo dal più noto inventore di corsivi dopo Aldo Manuzio: Ludovico degli Arrighi, che spinse il disegno dei caratteri in senso calligrafico creando “il vero e proprio capostipite dei moderni corsivi” (p. 127). Affronta inoltre Giovanni Antonio Tagliente, con il suo corsivo meravigliosamente arcaico, e lì si ferma. La diffusione del corsivo nella stampa europea è argomento di altri studi.
Dopodiché, va constatato che questi elegantissimi corsivi persero alla fine la guerra con il carattere tondo. Dopo il loro esplosivo successo a inizio secolo, i lettori li trascurarono in nome dei più leggibili, anche se meno eleganti, caratteri tondi. Quelli cioè che usiamo ancora adesso nella gran parte dei testi.
Perché il corsivo è stato emarginato? Il giudizio corrente è che sia stato un problema di leggibilità. Ma siccome gli studi moderni sulla lettura mostrano che i lettori sono più flessibili di quel che sembra, io ho qualche dubbio, e il testo mi incoraggia. Parlando del primo tipo di corsivo di Alessandro Paganini (Corsivo I Paganini), Balsamo nota che non solo “è meno ‘corrente’, di struttura più statica, di disegno meno fluente e più angoloso” rispetto ai predecessori, ma che nella pratica dell’editore “le dimensioni molto ridotte, sia della pagina che del carattere, danno per risultato una pagina densa, fitta e scomoda ai nostri occhi” (p. 84). Questo però “prova quanto sia mutato il modello di leggibilità attraverso il tempo, dato che i lettori dei primi del Cinquecento trovarono invece questo carattere di loro gradimento, come prova il successo incontrato dall’originale collezione” (dove, a uso mio, noto che Balsamo insiste sul modo in cui i Paganini progettavano interi “programmi” di libri, più che vere e proprie collane, verificando con qualche edizione di prova la risposta del mercato).
Insomma, il rapporto tra lettura e usabilità è complesso. La storia del libro mostra che perfino soluzioni che sulla carta sembrano meno funzionali di altre possono in realtà portare a veri e propri trionfi di pubblico e di mercato… I legami con il mondo contemporaneo mi sembrano evidenti.
1 commento:
Si in effetti il corsivo a volta può risultare meno leggibile, a differenza dei caratteri tondi a cui ormai siamo abituati, ma è innegabile che sia molto elegante visivamente.
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