Il libro più recente di Stefania Spina, Openpolitica, è un importante contributo alla conoscenza dei mezzi di comunicazione e del loro rapporto con la lingua italiana. Il volume (Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 203, ISBN 978-88-568-4951-6, € 25; io ne ho ricevuto una copia dall’autrice) è dedicato, come riporta il sottotitolo, a Il discorso dei politici italiani nell’era di Twitter, ed è interessante sia per gli argomenti trattati sia per l’impostazione.
Dal punto di vista strutturale, Openpolitica si divide in tre parti:
- Prima di Twitter: il discorso politico nell’epoca della televisione
- L’ecosistema di Twitter: un flusso ininterrotto di conversazioni
- Il discorso dei politici italiani su Twitter
La parte più innovativa e corposa è la terza, che occupa 110 pagine, cioè più di metà volume, e ne parlerò in dettaglio più avanti. La seconda è invece una sintetica (20 pagine) descrizione del modo in cui funziona Twitter, almeno per gli aspetti di rilevanza linguistica, e la presenza di sezioni “di servizio” di questo tipo è un’assoluta necessità per qualunque studio sulla comunicazione elettronica.
La prima parte richiede invece qualche parola di presentazione. Al suo interno presenta innanzitutto i risultati di una ricerca originale su un corpus di interventi politici in televisione. In parallelo, sintetizza poi molte descrizioni correnti sul discorso politico italiano degli ultimi decenni, e questa sezione è a mio parere la meno convincente. Il difetto però è nel manico, non nella sintesi, e sta nel modo in cui il discorso politico è stato appunto esaminato dagli studi precedenti. I quali hanno fornito informazioni ma non sono riusciti, a parte alcune eccezioni, a mettere a fuoco in modo convincente la natura e, soprattutto, la funzione di questo tipo di linguaggio. Tutti in compenso in qualche modo condannano la comunicazione politica reale, con un repertorio retorico che ha poco da invidiare per monotonia a quello dei politici stessi e che al tempo stesso annulla le pur importanti differenze. Non sorprende quindi che per esempio alcune osservazioni critiche di Pier Vincenzo Mengaldo o Annamaria Testa sul linguaggio politico anteriore agli anni Novanta vengano applicate qui (pp. 51-52) anche al linguaggio della “Seconda repubblica”, post-1994, che viceversa per alcuni aspetti si colloca agli antipodi.
La terza parte è comunque, come già accennato, la più significativa, e include un confronto tra il linguaggio di Twitter e quello della televisione. Uno dei suoi obiettivi è infatti “dimostrare che il discorso politico su Twitter ha caratteristiche diverse da quello della televisione” (p. 83); d’altra parte, le differenze sono tanto evidenti, anche a occhio nudo, che direi che più che di “dimostrare” qui si tratta di “documentare”. Nessuno infatti sostiene, penso, che un politico (o il suo ufficio stampa) scriva su Twitter in modo linguisticamente indistinguibile da quello con cui lo stesso politico si esprime in un dibattito televisivo.
A documentare questo stato di cose si colloca comunque un’impressionante varietà di analisi, che coprono:
- Densità lessicale
- Ricchezza lessicale
- Specificità lessicale
- Frequenza dei bigrammi e dei trigrammi
- Struttura sintattica della frasi (esaminata sulla base di indicatori)
Il campione originale su cui si basano le analisi è formato da tutti i tweet scritti da 40 politici italiani nel periodo novembre 2011 – febbraio 2012. In totale, 31.581 tweet (p. 83), in buona parte parlamentari. Una serie di osservazioni (p. 85) fa pensare che in pratica i 40 includano tutti i parlamentari attivi su Twitter in modo regolare e creativo – non solo con il rilancio di testi scritti per altra destinazione; e mi colpisce il fatto che alcuni politici presi in esame in una prima fase siano stati “in seguito esclusi perché usavano sistematicamente nei loro tweet lingue diverse dall’italiano” (p. 85). Che lingue erano? Immagino inglese, prodotto dai rispettivi uffici stampa e pensato al servizio dei giornalisti stranieri… ma sarebbe molto interessante sapere qualcosa di più!
Un campione del 5% dei messaggi è stato classificato a mano in sei categorie (pp. 89-90):
- informazioni personali
- appuntamenti
- commenti
- live-tweeting
- link
- altro
I “commenti” (52%) sono la categoria prevalente, e la cosa non sorprende in un corpus di politici.
Ciò che invece colpisce, a livello più generale, è che il campione è formato per 1/3 dai tweet di due soli politici, entrambi del PD: Giuseppe Civati (@civati), che ha scritto 6016 tweet, realizzando cioè da solo quasi il 20% del totale, e Andrea Sarubbi (@andreasarubbi), che ne ha scritti 5007. Sarebbe interessante, per i motivi indicati più avanti, sapere che tipo di media verrebbe fuori escludendo dal calcolo questi due outsider – il terzo classificato, Ivan Scalfarotto, sempre del PD, si ferma a 2480.
Dopodiché, un dubbio fondamentale è quello sulla paternità dei tweet. L’idea di Stefania Spina è che in “buona parte” (p. 87) i tweet siano prodotti dai politici stessi. Per qualcuno di loro è certamente così, e mi sembra che sia questo il caso anche dei due superproduttori; per molti altri, però, ho diversi dubbi. I tweet recenti di Angelino Alfano (@angealfa), Felice Belisario (@politicaevalori) e Rosy Bindi (@rosy_bindi) mi sembrano per esempio tutti prodotti di ufficio stampa, e sospetto che questa fosse la situazione anche nel periodo preso in esame nello studio.
Che senso hanno questi dubbi? Dal mio punto di vista, sono un modo per precisare meglio un discorso importante dell’autrice: l’idea che la comunicazione via Twitter, per i politici italiani, sia “soprattutto una modalità nuova di instaurare relazioni sociali” (p. 82), più che un sistema di trasferimento informazioni. Questo giudizio mi sembra sì valido, ma solo se si considera il numero dei tweet e non quello degli scriventi. I tweet infatti non sono equamente distribuiti: mi pare evidente che alcuni politici usano il sistema per conversare in prima persona, ma molti altri lo usano solo per trasferire informazioni oppure opinioni – che in politica sono a loro volta spesso un tipo particolare di informazione.
Un indicatore fortissimo di interattività è però dato dal politico che si mette in gioco interagendo in una conversazione. Qualche precisazione potrebbe essere utile in questo caso: per esempio, nel libro si dice che nel corpus “sono presenti 24.985 menzioni (…) questo significa che il 79% dei tweet contiene una menzione” (p. 97). In realtà, no: come si vede dal fatto che ad alcuni politici sono riconducibili più menzioni che tweet, molti tweet contengono più di una menzione. Per esempio, si prenda un tweet qualunque di Civati:
@sarracinus @Nath67Lic @ParodiAl @annaflalb per la verità è un contributo al partito su cui, come ripeto, mi sono espresso criticamente.
Quattro menzioni in un tweet solo, e il caso è tutt’altro che raro. Quindi, al massimo il 79% dei tweet contiene una o più menzioni. Inoltre, contengono menzioni anche tweet probabilmente prodotti da ufficio stampa come quelli di Alfano, Belisario e Bindi: non credo che la partecipazione a conversazioni di questo tipo implichi anche un coinvolgimento personale. Occorre quindi, caso per caso, andare a vedere che cosa sta succedendo.
Come funzionano però queste conversazioni? Nel corpus, “lo schema più diffuso è quello di una conversazione tra due interlocutori, composta da due tweet totali, uno di avvio e uno di replica” (p. 126). Il dato è per me sorprendente, perché, anche se queste conversazioni esistono, i tweet di un singolo politico rientrano spesso, a quel che vedo, in lunghe conversazioni. Per esempio, gli ultimi 14 tweet di Civati, aperti la sera del 29 settembre, con un’unica eccezione, sono tutti inseriti in conversazioni con molti interlocutori. Dal febbraio 2012 a oggi sono cambiate le abitudini?
Tirando le fila sulla base di questi dati stimolanti è forse possibile fare una distinzione forte. Oggi, a quel che vedo in prima persona e a quel che mi sembra possibile dedurre dai dati presentati da Stefania Spina, i politici italiani “twittanti” si dividono in due categorie: chi si affida a un ufficio stampa e/o a modi comunicativi collaudati e chi invece si spende in proprio, mettendo in gioco la propria voce personale. Mi sembrerebbe quindi utile innanzitutto vedere se l’ipotesi tiene, cioè se due modalità diverse di interazione sono davvero ben distinguibili. E, ammesso che lo siano, mi sembrerebbe poi utile vedere le diversità linguistiche tra l’una e l’altra. Spero che uno studio futuro dell’autrice possa tornare anche su questi aspetti…
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